C’eravamo lasciati, all’inizio
dell’estate, con un accorato appello della stampa padronale circa la
presunta ‘mancanza’ di manodopera pronta ad accettare lavori stagionali.
In molti si sono iscritti al coro di Confindustria, tutti con un
preciso leitmotiv: ora che la ripresa è alle porte, ora che l’economia
può risollevarsi grazie alla decelerazione della pandemia e alla bella
stagione, ristoranti, bar, alberghi, stabilimenti balneari e altre
attività hanno bisogno di braccia giovani e forti. Tuttavia, ci veniva
raccontato, le imprese facevano fatica a trovare questi lavoratori:
tutta colpa dell’esistenza del Reddito di Cittadinanza, reo di garantire
l’equivalente di un salario (da fame) al modico prezzo di starsene sul
divano.
In altre parole, ciò che secondo
questi commentatori stava impedendo al Paese di ripartire era la carenza
di lavoratori disposti a coprire migliaia di posizioni che si stavano
per aprire nei settori più orientati ad offrire servizi ‘estivi’. Al
codazzo, dicevamo, hanno partecipato vari personaggi: da Matteo Salvini, passando per il semprevivo Matteo Renzi, con il suo elogio della sofferenza, all’imprenditore Flavio Briatore, con le sue suggestioni circa la sospensione del
Reddito di Cittadinanza nella stagione calda, fino ad arrivare
all’istrionico Presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca, che
ha addirittura proposto, per sopperire a questa presunta mancanza, di
far lavorare i percettori del sussidio con un sistema ad integrazione. Insomma, oltre alle grida delle Confindustria locali, diversi sparring partner della
classe padronale non hanno perso l’occasione di puntare il dito contro
il Reddito di Cittadinanza, considerato un ostacolo all’occupazione e
quindi alla ripresa economica.
A distanza di qualche mese, tuttavia, possiamo verificare quanto questi allarmi fossero fondati, e i numeri parlano chiaro: l’Osservatorio sul precariato dell’INPS ha
recentemente messo a disposizione i dati relativi ai contratti
stagionali sottoscritti nel maggio del 2021, quando la bella stagione
era ormai alle porte. In aggregato, in Italia ci sono state oltre
142mila nuove assunzioni di lavoratori stagionali, che hanno contribuito
ad una variazione netta (intesa come nuovi rapporti meno rapporti
cessati o trasformati) di 111mila lavoratori stagionali su base mensile.
Per avere un ordine di grandezza, possiamo compararli con quanto
accaduto nel maggio del 2020, quando le nuove assunzioni di lavoratori
stagionali furono circa 42mila, e la relativa variazione netta pari a
31mila. Le cifre parlano chiaro. Altro che poca voglia di lavorare,
altro che ostacoli all’occupazione generati dal Reddito di Cittadinanza:
complice anche la moderata ripresa dell’economia e una ripartenza del
comparto turistico, quest’anno il ricorso agli stagionali è più che
triplicato. Significativo anche il confronto con il 2018, anno in cui
ancora non era stato attivato il Reddito di Cittadinanza. Ebbene il
numero di stagionali assunti nel maggio di tre anni fa risultava pari a
meno di 91mila unità, con una variazione netta di 62.561. Numeri,
quindi, nettamente inferiori a quelli registrati
quest’anno, ulteriore prova del fatto che le briciole del Reddito di
Cittadinanza non sembrano proprio determinare un calo della forza lavoro
disponibile a svolgere anche lavori precari e per lo più sottopagati
quali sono i lavori stagionali.
Certo, c’è poco da festeggiare, data
la natura precaria e temporanea dei contratti a termine. Ma i numeri,
inesorabilmente, ci aiutano a interpretare la realtà: non vi è alcuna mancanza di manodopera disponibile.
Il problema, invece, resta un altro. Come sappiamo, ogni tentativo di
rilancio dell’economia e dell’occupazione, seppur minimo, può
rappresentare per le classi subalterne un’occasione per avanzare,
per ottenere condizioni di lavoro migliori e, in aggregato,
un’occupazione più elevata. Questo però si scontra con gli opposti
interessi dei capitalisti, che vedono invece solamente un’ulteriore
ghiotta occasione per gonfiare i loro profitti e peggiorare le
condizioni di lavoro offerte. Le rimostranze dei padroni che abbiamo
ascoltato all’alba della stagione estiva non rappresentavano altro che
una retorica – quella del lavoratore scansafatiche –
finalizzata ad alimentare il processo di erosione di diritti e salari
dei lavoratori, preparando il terreno per nuove misure antipopolari
presentandole come una necessità, un sacrificio che va fatto per
garantire la ripresa (dei profitti). Come abbiamo visto questa estate, e
come oggi ci confermano i dati dell’INPS, non esiste nessun problema di
scarsa disponibilità di lavoro. Non potrebbe d’altronde essere
diversamente, con un tasso di disoccupazione al 10%, più di due milioni e mezzo di disoccupati e una crisi, l’ennesima, che ha distrutto circa un milione di posti di lavoro.
È allora evidente che il problema non è
certo la lamentata pigrizia dei lavoratori che comporterebbe una
presunta e inesistente scarsità di manodopera ma, al contrario la
duplice compresenza micidiale di una disoccupazione di massa causata da una carenza cronica della domanda di lavoro e, contestualmente, condizioni di lavoro, per chi il lavoro ce l’ha, terribilmente precarie e sottopagate.
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