11/09/2021
11 settembre 2001 - L’attacco al cuore degli Stati Uniti
I giornali della mattina dell’11 settembre 2001 aprivano con titoli allarmati sulla crisi finanziaria in corso a seguito della fine del boom a Wall Street della Net Economy (basata sui titoli tecnologici) e dell’onda lunga della crisi in Argentina.
Intorno alle prime ore della mattina dell’11 settembre alcuni aerei vengono dirottati sui cieli statunitensi e si lanciano sul Pentagono e sul World Trade Center (le torri gemelle), un quarto non riesce a gettarsi sulla Casa Bianca perché viene abbattuto prima.
Lo shock per le autorità e l’opinione pubblica statunitense e internazionale è totale. Il cuore economico e militare degli Usa erano stati colpiti, il primo con danni devastanti e migliaia di vittime. Per gli Stati Uniti alle prese con un drammatico dibattito interno sui rischi del proprio declino, l’attacco subìto suona un campanello d’allarme all’ennesima potenza.
Nel gennaio 2001 George Bush jr. si era insediato alla Casa Bianca per il suo primo e contestato mandato. Gli Usa, con uno scenario simile a quello che abbiamo visto tra Trump e Biden, erano rimasti immobilizzati per settimane dopo le elezioni presidenziali per il sospetto di brogli elettorali in Florida a danno dello sfidante Al Gore.
A ridosso delle elezioni presidenziali, un gruppo di analisti, commentatori, politologi conservatori, aveva reso noto il PNAC (Progetto per un nuovo secolo americano) nel quale metteva in guardia gli Usa dai rischi del venire meno della loro supremazia sul mondo e rinnovava l’esortazione – già espressa in un documento analogo del 1992 – ad evitare con ogni mezzo l’emersione di potenze rivali che potessero competere con gli Stati Uniti.
Mentre Wall Street contava le perdite in Borsa, soprattutto del Nasdaq, a maggio del 2001, per la prima volta gli Stati Uniti erano stati esclusi dalla Commissione per i diritti umani dell’Onu. A giugno un missile statunitense lanciato contro l’Iraq aveva ucciso 22 civili colpendo un campo di calcio. A luglio a Genova, le manifestazioni che contestavano il vertice del G8 erano state represse con una mattanza da parte della polizia che era finita sulle televisioni di tutto il mondo. Nessuno sentiva l’esigenza di ricordare che l’11 settembre di ventotto anni prima gli Usa avevano rovesciato il governo cileno di Allende con un colpo di stato.
Qualche giorno prima dell’11settembre 2001, a Durban, in Sudafrica, gli Usa, Israele e qualche paese europeo avevano ritirato le loro delegazioni dalla Conferenza mondiale delle Nazioni Unite contro il razzismo per le pesanti critiche a Israele emerse nei documenti. Critiche che inevitabilmente si estendevano quasi naturalmente agli Stati Uniti e che avevano visto in prima fila sia i governi che le Ong arabe e africane. La polemica internazionale era stata durissima e gli strascichi ne erano ancora leggibili.
L’11 settembre quattro nuclei di militanti di Al Qaida danno vita al secondo attacco militare contro il territorio degli Stati Uniti dopo quello di Pearl Harbour da parte del Giappone nella Seconda Guerra Mondiale. Dirottano quattro aerei e colpiscono New York e Washington.
Su questi attentati, negli anni, siamo andati spesso in controtendenza rispetto alle tesi che sostengono che l’11 settembre sia stato “organizzato dalla Cia”. Se non si possono affatto escludere i buchi lasciati aperti dall’eccesso di sicurezza o dalla rivalità tra le varie agenzie di intelligence statunitensi, abbiamo però ritenuto che la tesi “dell’auto-attentato” fosse sia consolatoria che fuorviante.
Consolatoria perché pensare che sia stata tutta opera della Cia o di un auto-attentato ci risparmia da ogni sforzo di analisi ulteriore. Fuorviante proprio perché ha negato sin dall’inizio che un gruppo di “arabi” potesse sfidare e colpire il cuore della maggiore superpotenza mondiale.
Eppure, proprio negli anni precedenti e, come abbiamo visto anche alla vigilia dell’11 settembre, era visibile che dentro le borghesie arabo-islamiche stesse maturando in alcuni settori l’ambizione a contare di più in Medio Oriente e nel mondo, e che di fronte allo stop imposto dagli Usa a tali ambizioni questi settori abbiano cercato di portarle alla luce con degli attentati clamorosi e per certi versi epocali nel cuore dell’imperialismo egemone.
Se è vero che proprio nel nuovo millennio siamo passati nella fase storica della competizione globale, del relativo declino dell’egemonia Usa e della ridefinizione dei rapporti internazionali, diventa difficile escludere che queste ambizioni ci siano e che in parte fossero quelle rese già visibili al mondo dal commando che realizzò gli attentati dell’11 settembre negli Stati Uniti.
Chi erano e cosa rappresentavano ad esempio gli attentatori dell’11 settembre? Non certo un gruppo di disperati o di “martiri” provenienti dai campi profughi. “Troppo spesso descritte esclusivamente come tradizionali e conservatrici, le società arabe e musulmane sono comunque cambiate in questo quarto di secolo” sostiene un autorevole osservatore come Alberto Negri.
“Non si spiega altrimenti il fatto che i jihadisti coinvolti nelle operazioni di Al Quaeda siano borghesi istruiti con basi tecniche e scientifiche secolari. Il terrorismo islamico, come molti suoi predecessori in Occidente, è un’attività borghese”.
Ma come è nato questo “embrione di classe dirigente” nel mondo arabo-islamico? E di quali mezzi dispone?
Per rispondere a tali domande, dobbiamo porci le stesse domande che si sono posti centinaia di “rampolli” delle élite nei paesi arabi e islamici a metà degli anni Novanta.
Si tratta della crème delle nuove generazioni delle petromonarchie del Golfo, ma anche di ricchi rampolli egiziani, algerini, giordani, pakistani. Alcuni di loro hanno già combattuto in Afghanistan ma anche in Bosnia e nella prima guerra in Cecenia, spesso lo hanno fatto fianco a fianco con istruttori militari statunitensi o di paesi della Nato dai quali hanno imparato molti trucchi della “guerra sporca”. Esattamente come accaduto successivamente in Siria con molti miliziani dell’Isis.
Sono istruiti perché in molti casi hanno studiato nelle università USA o nei college inglesi. Sono ricchi perché la Jihad Corporation dispone dei miliardi di dollari delle istituzioni finanziarie islamiche.
Una parte di questa élite ha anche realizzato una delle principali e più riuscite operazioni di omogeneizzazione culturale del mondo arabo-islamico dando vita al network televisivo Al Jazeera nell’emirato del Qatar. Al Jazeera (da alcuni anni sfidata dal network Al Arabja messo in piedi dall’Arabia Saudita) si è rivelato uno strumento di altissima qualità che per la prima volta ha mostrato alla popolazione arabo musulmana, e non solo, quanto avviene in tutto il Medio Oriente fino all’Asia Centrale, ridando – per la prima volta – identità e protagonismo ad un mondo vissuto dentro la totale subalternità coloniale e post coloniale.
Il brusco passaggio di Al Jazeera nelle mani dei Fratelli Musulmani (sostenuti dal Qatar) e la concorrenza di Al Arabja hanno ridotto l’influenza di Al Jazeera, ma non ne hanno certo eliminato l’esempio né la capacità.
Ma se una parte della nuova borghesia arabo-islamica non del tutto subalterna agli Usa come i loro genitori aveva scelto la strada della modernizzazione per “vie pacifiche”, un’altra parte aveva scelto di passare all’azione militare con un progetto politico ben preciso sia contro gli Usa sia contro i regimi arabi ritenuti “apostati” e traditori dell’Islam.
E gli attentati dell’11 settembre ne sono stati la manifestazione più clamorosa. Il progetto di Al Qaida sostanzialmente è stato questo. Questo progetto dal 2001 in poi ha subìto colpi durissimi in Afghanistan, riuscendo però a tenere e svilupparsi nel Sahel e in alcuni ridotti della Mezzaluna Fertile, ma alla luce di come sono andate le cose in Afghanistan occorre ritenere che la partita tra Stati Uniti e Al Qaida non si sia affatto conclusa con la vittoria dei primi.
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