Secondo quanto si apprende da fonti della Farnesina, l’Italia – così come Israele, Stati Uniti ed alcuni paesi europei – non parteciperà alla prossima Conferenza Mondiale Contro il Razzismo di Durban che si svolgerà entro la fine del mese a New York.
Nei mesi scorsi Israele e Stati Uniti avevano innescato le consuete e prevedibili polemiche per il fatto che la nuova conferenza intergovernativa dell’Unesco rischiasse di trasformarsi in una nuova conferenza anti israeliana.
Un nuovo atto di codardia e miopia sul piano della politica internazionale da parte del nostro governo, teso ad esorcizzare l’onda lunga della famosa Conferenza di Durban del 2001 avvenuta alla vigilia dell’attacco alle Torri Gemelle e al Pentagono dell’11 settembre.
Nella prima e storica Conferenza delle Nazioni Unite a Durban, svoltasi nei primissimi giorni del settembre 2001 in Sudafrica, Israele venne definito uno “stato razzista e di apartheid”.
Pochi giorni prima degli attacchi alle Torri Gemelle, in Sudafrica si svolse infatti, la Terza Conferenza delle Nazioni Unite contro il Razzismo, le discriminazioni razziali, la xenofobia e la correlata intolleranza.
Quella di Durban fu la prima delle grandi Conferenze internazionali a tenersi nel nuovo millennio, e significativamente si svolse proprio in Sudafrica: uno dei paesi che aveva più sofferto delle discriminazioni razziali, sottoposto per decenni al regime dell’Apartheid (definito dalle stesse Nazioni Unite “un crimine contro l’umanità”) che aveva tradotto in istituzione e in legge dello Stato, la segregazione e l’odio razziale.
La Conferenza mondiale sul razzismo, ha acquistato in questi venti anni un significato che è andato molto al di là degli stessi risultati della conferenza medesima.
Il ritiro delle delegazioni statunitense e israeliana avvenne a metà dei lavori, nonostante la mediazione tentata dalla Norvegia e dalla Presidente della Conferenza, la signora Zuma – già Ministro degli Esteri del Sudafrica. L’Assemblea aveva adottato due documenti di compromesso sulle questioni più spinose: il problema palestinese e quello delle responsabilità e degli eventuali ‘risarcimenti’ per i crimini del passato.
Verso Israele, che i paesi arabi pretendevano fosse definito nella risoluzione uno ‘stato razzista’, il primo documento evitava invece qualsiasi critica diretta; pur riconoscendo ai palestinesi il diritto all’autodeterminazione ed esprimendo ‘preoccupazione’ per le loro difficoltà sotto l’occupazione israeliana. Sui crimini del passato, il secondo documento riconosceva la ‘tragedia’ della schiavitù e della tratta degli schiavi, ma non esprimeva ‘scuse’; e pur promettendo assistenza, cooperazione e annunci per la cancellazione del debito dei paesi più poveri, non accettava di considerarli un risarcimento, come avrebbero voluto gli africani e molti altri paesi del Sud del mondo.
La proposta di dichiarazione finale non nominava ufficialmente Israele ma affermava che una occupazione straniera basata sugli insediamenti, sulla discriminazione razziale, sul blocco militare costituisce una “seria violazione dei diritti umani internazionali, un nuovo tipo di apartheid, un crimine contro l’umanità e una seria minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale”.
I paesi arabi ed alcuni paesi africani, sostenevano però che la frase era troppo generica e che doveva rimanere perché non si riferiva a Israele in particolare. Israele invece, sostenuta da Stati Uniti, Australia e Canada, chiedeva che fosse tolta dal testo finale. La dichiarazione più controversa, quella che equiparava sionismo e apartheid era già stata eliminata dalla bozza di dichiarazione proprio in seguito alle proteste statunitensi ed israeliane.
Ma se questa era la discussione nella Conferenza governativa, la polemica politica era esplosa con l’approvazione di una risoluzione presentata da circa tremila Organizzazioni non governative. Nella risoluzione, approvata nel corso della notte, si accusava lo Stato di Israele di “crimini razzisti sistematici, fra i quali crimini di guerra, atti di genocidio e di epurazione etnica”.
Alla Conferenza ufficiale di Durban, che aveva visto l’attiva partecipazione di oltre cento delegazioni governative, si era infatti affiancato un affollato Forum delle Organizzazioni Non Governative (Ong), dal quale erano usciti due documenti importanti: la “Political Declaration” e le “General Conclusions”, articolate su diverse sezioni – che sostanzialmente si proponevano come linee guida per una azione più efficace ed incisiva contro tutte le espressioni di razzismo, discriminazione ed intolleranza; prendendo spunto dalle migliori pratiche sperimentate nei diversi paesi, e confrontandosi con i problemi connessi ai nuovi strumenti di comunicazione, alle forme contemporanee di riduzione in schiavitù, ai conflitti etnici, alla xenofobia contro gli immigrati.
I due documenti – usciti peraltro molti mesi dopo la Conferenza – contengono molti articoli di grande importanza su temi come la protezione delle vittime del razzismo, la lotta contro il traffico delle persone, le misure di prevenzione e sensibilizzazione, le proposte educative, il rapporto con i media e l’uso delle nuove tecnologie, l’affermazione dei diritti delle minoranze, dei lavoratori migranti, dei richiedenti asilo, dei rifugiati e delle loro famiglie; così come l’individuazione e il riconoscimento di un’ampia gamma di basi della discriminazione, che vanno dal colore della pelle alla lingua, alla religione, al sesso o all’orientamento sessuale, alla cultura, alla provenienza etnica, alle cosiddette discriminazioni ‘multiple’, che si intersecano sulla pelle dei soggetti più deboli, come le donne o i bambini. Infine, l’affermazione forse più significativa, quella che il razzismo ci riguarda tutti, essendo presente, anche se in forme diverse, in ciascuno dei nostri Stati.
Era proprio questo il problema di fondo, reso poi chiaro da quanto accaduto: ogni paese ha i suoi problemi, e non ha intenzione di confrontarcisi, e ammettere le proprie responsabilità: l’India ha i suoi ‘intoccabili’, i paesi islamici le discriminazioni di genere, Israele l’occupazione dei Territori Palestinesi, gli Stati Uniti l’eredità della schiavitù, Francia o Gran Bretagna le colpe del colonialismo; l’intera Europa, poi, era in difficoltà sulla questione degli immigrati.
Sono passati venti anni, ma a quanto pare la coscienza sporca degli Stati occidentali – e di Israele – non sembra aver dato segni di ravvedimento, al contrario. Ragione per cui i paesi che si considerano la “culla della civiltà” – fino a ritenere di doverla esportare a forza di bombardamenti come in Afghanistan, Iraq, Libia, Siria – diserteranno una conferenza mondiale delle Nazioni Unite per non dover sentire discorsi che non gli piacciono.
Codardi politici e bugiardi sanguinari, come sempre.
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