di Fabio Ciabatti
Umberto Melotti, Marx passato, presente, futuro. Una visione alternativa dello sviluppo storico, Meltemi, Milano 2021, pp. 312, € 20,90
Il multiculturalismo è stato una delle ideologie delle classi dominanti durante gli anni rampanti della globalizzazione. Non bisognerebbe dimenticarlo quando ci si accinge a criticare l’idea che la storia sia un percorso unilineare dalle società primitive a quelle più evolute. Certamente questa visione ci può condurre facilmente a una concezione eurocentrica che, volenti o nolenti, finisce per essere di supporto alle politiche colonialiste e imperialiste dell’Occidente. Un relativismo poco accorto, però, ci può portare con altrettanta facilità all’accettazione acritica non solo delle culture “altre”, ma anche degli effettivi sistemi politico-sociali extra-occidentali perché considerati espressioni dirette o indirette di quelle culture. Anche quando questi sistemi colludono di fatto con il dominio imperialistico.
Se vogliamo orientarci in questo orizzonte problematico non possiamo prescindere dal contributo del vecchio rivoluzionario di Treviri. Ma come, si potrebbe obiettare, non fu Marx artefice di una filosofia della storia finalistica e meccanicistica che lascia poco spazio alla pluralità delle traiettorie storiche? Le cose non stanno così secondo Umberto Melotti: “L’unilinearismo costituisce indubbiamente una delle tentazioni del pensiero di Marx, e più ancora di Engels, così come di tutti i sistemi storicistici e positivistici dell’Ottocento. Eppure Marx unilinearista non è”.[1] Fu infatti lo stesso Marx a scrivere che “La storia non fa niente, non possiede alcuna ricchezza, non combatte alcuna lotta! È l’uomo, l’uomo reale e vivente, che fa tutto, possiede tutto e combatte tutto”.[2] Un pensiero che viene così completato da Melotti: “Come risultato dell’agire degli uomini, la storia non è, né può essere, unilineare sviluppo di un processo finalisticamente necessario, ma è manifestazione multilineare e disgiuntiva di qualcosa di variamente possibile, se pure non privo di senso”.[3]
L’autore argomenta questa posizione nel libro Marx passato, presente, futuro. Una visione alternativa dello sviluppo storico, testo ripubblicato e ampliato a circa cinquant’anni dalla sua prima edizione. Secondo una visione ortodossa, scrive Melotti, Marx sosterrebbe l’esistenza di uno sviluppo unico della storia che parte dalla comunità primitiva, passa per la società antica e per quella feudale, per approdare al capitalismo, dal quale scaturisce il socialismo. Lo schema multilineare proposto dall’autore, invece, sostiene che allo stesso livello storico della comunità antica Marx pone (senza pretesa di esaustività) le comunità slavica, asiatica e germanica. Dalle prime due scaturiscono rispettivamente la società semi asiatica (Russia) e quella asiatica (Egitto, Cina e India). La società schiavistica, ben lungi dall’essere uno stadio storico necessario, è frutto della dissoluzione della sola comunità antica. La società feudale europea è a sua volta il frutto di due fattori: la crisi del sistema schiavistico e le cosiddette invasioni barbariche, portate avanti da popolazioni appartenenti alla comunità germanica. La dissoluzione del feudalesimo dà infine luogo al capitalismo. Fermiamoci qua, per ora, e notiamo subito che il capitalismo europeo è figlio di uno specifico percorso storico che nulla ha di universale (per una schematizzazione completa, vedi la tabella pubblicata di seguito, ripresa dal libro di Melotti).
Ciò nonostante, secondo Melotti, Marx non rinuncia all’idea che la storia sia un processo orientato alla liberazione dell’uomo. Questa concezione si basa in ultima istanza sull’idea che il procedere della storia porti con sé lo sviluppo delle forze produttive e dunque la possibilità oggettiva che cessi la necessità dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Ogni generazione, infatti, può elaborare e accrescere le proprie forze produttive a partire da quelle conquistate dalle generazioni precedenti.
Sebbene l’argomento sia solo sfiorato da Melotti, vale la pena sottolineare che oggi possiamo vedere con maggiore chiarezza di Marx gli immani rischi ecologici legati alla crescita senza limiti della produzione. Rimane però il fatto che nel mondo contemporaneo, popolato da quasi 8 miliardi di esseri umani, stipati per più della metà nelle metropoli, le soluzioni che portano ad una società in equilibrio con la natura non possono essere le stesse delle società precapitalistiche. In questo senso è difficile pensare di fare a meno di un ponderato sviluppo delle forze produttive, profondamente diverso da quello finalizzato al profitto, anche da un punto di vista strettamente tecnologico. Non sarà proprio lo stesso sviluppo che aveva in mente Marx, ma ne contiene alcuni elementi importanti, primo fra tutti la produzione finalizzata al valore d’uso e non al valore di scambio.
Tornando a temi più attinenti al libro di Melotti, bisogna notare che Marx non può essere considerato un ingenuo evoluzionista. È lo stesso rivoluzionario tedesco a sottolineare che la crescita della produttività del lavoro nei primordi della storia non consente solo di liberare l’umanità dalla tirannia della natura, ma produce anche la divisione della società in classi perché permette a una porzione della società di non occuparsi della produzione diretta e di sfruttare il lavoro altrui. Questo fatto ci segnala che la produzione materiale non è mai un affare che riguarda solo il rapporto tra uomo e natura, ma avviene sempre nell’ambito di determinati rapporti tra esseri umani che tendono a riprodursi ponendo dei freni più o meno significativi e una specifica direzione allo sviluppo delle forze produttive. Fino a che, fatalmente, i rapporti di proprietà di ogni società si trasformano in vere e proprie catene per l’ulteriore sviluppo delle forze produttive, dando luogo a intere epoche di rivoluzione sociale. I differenti contesti naturali e i differenti rapporti sociali, dunque, fanno sì che lo sviluppo materiale non possa avvenire nella stessa misura e nella stessa direzione in tutti i tipi di società. Rimane il fatto che, per quanto diluito nel tempo, il solo effetto dello crescita della produttività del lavoro e dell’aumento della popolazione impedisce nel lungo periodo la riproduzione senza mutazione anche delle società più statiche.
Queste dinamiche sono accelerate massimamente con il modo di produzione capitalistico, mentre il sistema storico (cioè successivo alle comunità primarie) caratterizzato maggiormente dalla staticità è quello asiatico. Quest’ultimo, ci ricorda l’autore, è definito da Marx sulla base di tre caratteristiche: la proprietà in ultima istanza dello Stato sulla terra e, parallelamente, la scarsissima diffusione della proprietà privata del suolo; la persistenza di comunità di villaggio separate e autosufficienti, data l’integrazione tra attività agricola e artigianato domestico; il ruolo centrale dello Stato nell’esecuzione di grandi lavori idraulici o di altra natura, condizione per un’agricoltura in grado di far fronte alle necessità derivanti dall’aumento della popolazione.
Attorno al modo di produzione asiatico si è sviluppato un ampio dibattito in ambito marxista che l’autore passa in rassegna. C’è chi lo ha equiparato a una variante del sistema feudale o schiavistico, chi l’ha considerato una fase precedente al modo di produzione antico e chi ne ha negato del tutto l’esistenza. Di fatto, ci ricorda Melotti, l’utilizzo di questo concetto può avere due esiti opposti: da una parte la conferma dell’eccezionalismo della società occidentale di fronte al dispotismo orientale, soprattutto se la riproposizione di quest’ultimo nell’Unione Sovietica e nella Repubblica Popolare Cinese viene interpretata come una sorta di meccanica fatalità; dall’altra la confutazione di una visione unilineare della storia incentrata sull’eurocentrismo in considerazione del fatto che larghe porzioni dell’umanità hanno seguito uno sviluppo storico differente rispetto a quello che ha portato alla modernità capitalistica.
Le forti resistenze delle società caratterizzate dal modo di produzione asiatico o semi-asiatico alla penetrazione del capitalismo hanno inoltre posto i marxisti di fronte ad un profondo dilemma: questi sistemi dovevano passare sotto le forche caudine del capitalismo prima di poter aspirare a uno sviluppo socialista o potevano, a partire dalle proprie forme comunitarie ancora persistenti, incamminarsi su un percorso autonomo verso la società senza classi? Marx, con riferimento all’impero zarista, si è espresso per la seconda ipotesi, anche se ha segnalato la necessità di una rivoluzione in Russia che interagisse per tempo con quella occidentale anche al fine di potersi appropriare delle forze produttive più moderne.
Come risulta chiaro dal testo di Melotti la posta in gioco non è meramente teorica ma ha a che fare con questioni direttamente politiche. Per sostenere la concezione dell’URSS come stato guida, per esempio, Stalin obliterò completamente l’idea di un modo di produzione asiatico perché essa avrebbe indicato la specificità del percorso storico russo, mettendone in dubbio la replicabilità universale. Sta di fatto che la rimozione della specificità storica della Russia ha avuto come contrappasso la replica, sebbene in forma nuova, di alcune delle sue caratteristiche: l’URSS, secondo la concezione di Bruno Rizzi, ripresa parzialmente da Melotti, si è trasformata in un collettivismo burocratico che riproduceva in forma differente la centralità dispotica dello stato, tipica delle società asiatiche. L’URSS, dunque, non era né capitalista né socialista, ma un nuovo tipo di società antagonistica caratterizzata da una “nuova classe” sfruttatrice che, grazie alla proprietà collettiva, si era “saldamente insediata nello Stato” assicurandosi il controllo dei mezzi di produzione e del plusprodotto.
E questo vale anche per la Cina nonostante il tentativo di Mao di contrastare l’involuzione burocratica del paese, promuovendo la “grande rivoluzione culturale proletaria”. Ma quel movimento, sostiene Melotti, era in realtà un’ambigua e contraddittoria iniziativa, configurandosi come una sorta di “rivoluzione per decreto reale”, disposta a rientrare nei ranghi non appena se ne fosse impartito l’ordine relativo.
Ciò detto, secondo Melotti, sarebbe un errore ritenere, come ha sostenuto Rizzi, che il collettivismo burocratico sia stato regressivo rispetto al capitalismo. In realtà capitalismo e collettivismo burocratico sono formazioni economico-sociali parallele che, in diversi contesti, hanno assolto, e assolvono, la funzione primaria di assicurare un forte sviluppo delle forze produttive. Oggi sappiamo che il collettivismo burocratico alla lunga non si è dimostrato capace di fronteggiare la concorrenza economico-militare del capitalismo. E questo spiega sia la dissoluzione dell’Unione Sovietica sia le riforme sempre più significative che hanno introdotto in Cina elementi di capitalismo di Stato e di capitalismo privato, inserendola nel processo di globalizzazione e rendendola, con sorprendente rapidità, la seconda potenza economica del mondo.
In conclusione, la concezione multilineare della storia porta Melotti a sostenere che “Il passaggio a quel socialismo di cui parlava Marx è possibile tanto nei paesi economicamente più avanzati che negli altri, anche se a determinate condizioni, date anche le loro specificità strutturali e culturali”.[4] A dire il vero, per argomentare fino in fondo questa posizione, sarebbe stato utile, quantomeno, accennare a quelle forze sociali e politiche interne alle rivoluzioni extraeuropee che, in alcuni frangenti storici cruciali, avrebbero potuto avviare una traiettoria storica diversa da quella che ha portato al collettivismo burocratico. In mancanza di ciò una concezione unilineare ed eurocentrica della rivoluzione si può ancora nascondere sotto il manto della storia multilineare, contro le intenzioni dello stesso autore. Per comprendere la traiettoria della rivoluzione russa, per esempio, è necessario richiamare il mancato scoppio della rivoluzione in Europa: dall’Occidente si aspettavano alleati in grado di mettere a disposizione della rivoluzione i frutti dello sviluppo capitalistico, ma di lì vennero potenti nemici che si sommarono a quelli interni. Certamente queste circostanze condizionarono pesantemente gli esiti della rivoluzione. Ma altra cosa è sostenere che li determinarono tout court, quantomeno perché si innestarono su dinamiche endogene alla rivoluzione stessa, favorendone alcune (la centralizzazione del potere e la taylorizzazione dei rapporti di produzione) a scapito di altre (la pluralità dei poteri rappresentata dai Soviet e dalle forme di autogoverno contadine).
Se accettiamo l’idea che esista un’unica via per la rivoluzione, d’altra parte, la pretesa esemplarità dell’Occidente può essere facilmente ribaltata. E questo è effettivamente accaduto con la Russia stalinista. Uno schema che qualcuno oggi prova a ripetere con la Cina. Se, invece, coerentemente con il multilinearismo storico, assumiamo la molteplicità delle possibili traiettorie rivoluzionarie, non possiamo che essere diffidenti, insieme a Melotti, nei confronti di “ogni residuo mito di ‘paesi guida’. Russia e Cina non sono mai state, né sono, più avanti dell’Occidente sulla strada del socialismo, così come l’intendeva Marx”.[5]
Ciò detto, una cosa è parlare di modelli da replicare pedissequamente, cosa assai diversa è sostenere che certe realtà possono rappresentare uno sprone, un’ispirazione e un concreto aiuto per altre. Differenti esperienze possono, anzi devono, dialogare tra di loro, essere reciprocamente traducibili. Certamente, ci dice l’autore, sul piano valoriale i paesi extraeuropei sono portatori di istanze importanti per l’affermazione del socialismo come lo spirito solidaristico e comunitario, la concezione di un necessario equilibrio fra uomo e natura, l’idea dell’integrazione del mondo sociale nell’ordine naturale, ma li hanno spesso elaborati in chiave repressiva. Per questo è importante che tali istanze possano dialogare con la migliore eredità del mondo occidentale, come il rispetto dell’individuo e delle libertà personali o la concezione laica del potere e della conoscenza. A condizione di non dimenticare, aggiungiamo, quanto scriveva Fanon a proposito dell’Europa che non la finisce mai di parlare dell’uomo pur massacrandolo dovunque lo incontra.
Note:
1) Umberto Melotti, Marx passato, presente, futuro. Una visione alternativa dello sviluppo storico, Meltemi, Milano 2021, Introduzione, edizione Kindle.
2) K. Marx, La sacra famiglia, cit. in U. Melotti, Marx passato, presente, futuro, Introduzione, ed. Kindle.
3) U. Melotti, Marx passato, presente, futuro, Introduzione, ed. Kindle.
4) Ivi, Premessa, ed. Kindle.
5) Ivi, Indicazioni conclusive, ed. Kindle.
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