Anche stavolta, il tempo poteva essere galantuomo, ma non lo è stato. Mentre assistiamo ad un decisivo cambio di passo nel percorso di riforme in chiave neoliberista, le ultime notizie sul fronte dell’entità del sostegno pubblico all’economia non lasciano particolari dubbi su quale sarà l’atteggiamento dell’esecutivo Draghi in tema di politiche di bilancio per i prossimi anni. Come nostro solito, procediamo per gradi e cerchiamo di comprendere cosa sta accadendo in questi mesi concitati del primo, si spera, post-pandemia.
La crisi sanitaria ed economica generata dalla diffusione del Coronavirus e amplificata da un sistema sanitario a dir poco inadeguato a reggerne l’impatto, ha portato con sé la più grave perdita di reddito e di occupazione registrata negli ultimi 50 anni: una caduta del PIL di circa 10 punti nel 2020, associata a circa 1 milione di posti di lavoro persi nel nostro Paese (specialmente donne). Nei giorni più feroci del lockdown, ha iniziato ad aleggiare, in Italia e non solo, l’idea di un ritorno alla centralità dello Stato nell’economia, di un keynesismo non solo di facciata ma fatto di importanti, cospicui e rapidi interventi in campo economico volti a sostenere redditi e occupazione e a permettere al Paese di risollevarsi dalla crisi. Si è parlato di ‘sospensione del Patto di Stabilità’, ossia di qualche anno di accantonamento delle rigide regole europee che impongono ai Governi di spendere per garantire diritti, lavoro e reddito solo nella misura in cui incassano attraverso le tasse. Attenzione, però: le ferree regole di bilancio non sono state abrogate o cancellate, ma soltanto sospese. Come a dire: passata la festa, gabbato lo santo, un concetto già chiarito in estate dalla stessa Commissione europea (su questo torneremo in seguito).
Fiore all’occhiello di questi interventi che avrebbero riportato lo Stato interventista al centro del villaggio sarebbe dovuto essere il Recovery Plan, Recovery Fund e/o Next Generation EU, che si traduce a livello nazionale, nel caso italiano, nel PNRR. Purtroppo, all’abbondanza di nomi ed etichette non ha fatto seguito una gran quantità di risorse, oltre al fatto che diversi interventi finanziati dai fondi elargiti dalla beneamata Europa hanno avuto carattere sostitutivo rispetto a quanto il Governo avrebbe comunque speso facendo riferimento ad altre fonti di finanziamento. Sappiamo, tuttavia, che le risorse del PNRR hanno portato con loro una serie di condizioni capestro, ben peggiori di quelle del MES, e che l’Italia si è impegnata, sottoscrivendo con la Commissione europea l’accordo a monte del Next Generation EU, a rispettare ben 528 condizioni nei prossimi anni: in altre parole, ogni euro di risorse prestato o omaggiato dall’Europa nell’ambito del PNRR porta con sé una lista dettagliata e sconfinata di riforme del sistema economico che servono a ridurre ulteriormente il perimetro dei diritti delle classi meno abbienti per favorire l’espansione dei profitti dei ricchi.
Viene da chiedersi, allora, se accanto a questo spietato smantellamento dei residui di Stato sociale presenti nel nostro Paese vi sia, almeno, una politica di bilancio sufficientemente espansiva, volta a sostenere l’economia e a favorire uno sperato processo di ripresa post-pandemica. Sappiamo infatti che lo Stato potrebbe avere tutte le armi necessarie per favorire la crescita economica e occupazionale attraverso la leva della politica fiscale: immettendo nel sistema economico più risorse (attraverso spesa pubblica e investimenti) di quante ne preleva (riscuotendo le tasse), lo Stato può creare – senza particolari prezzi da pagare in termini di inflazione – reddito e lavoro. Si tratta, tuttavia, di una leva di crescita che trova un limite, del tutto artificioso e con precise finalità politiche, nei trattati europei, uno su tutti quel Patto di Stabilità e Crescita che impone il pareggio di bilancio e che era stato solo ‘sospeso’ agli albori dell’emergenza per evitare un completo tracollo dell’economia. E infatti, per gli anni in corso (2020 e 2021) il Governo – beneficiando di questa ‘sospensione’ – è ricorso alla spesa in deficit, seppur, come abbiamo visto in più occasioni, in misura largamente insufficiente ad evitare una copiosa crescita della disoccupazione, il crollo dei redditi, l’esplosione della povertà e dell’inattività, e l’aumento delle disuguaglianze.
Nonostante ciò, in questi giorni assistiamo a esternazioni che lasciano intendere come, per il prossimo futuro, il Governo sia intenzionato a ritornare pedissequamente sui binari dell’austero pareggio di bilancio previsto dai dettami europei. A conferma di ciò, intervenendo alla Giornata del Risparmio, il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ha rimarcato la necessità di ‘accelerare’ il percorso di rientro del debito. Le prese di posizione di Visco assumono i tratti di un vero programma politico. Il monito, che non lascia spazio ad interpretazioni, è chiaro: nel prossimo futuro, “sarà necessario accelerare il rientro, anche ricostituendo adeguati avanzi primari”. L’esatto contrario di quello che lo Stato dovrebbe fare per stimolare l’economia. Detto in maniera più immediata, perseguire adeguati avanzi primari significa che lo Stato dovrà tornare a spendere MENO di quello che incassa con le tasse. L’austerità nuda e cruda è alle porte. Non è tutto però, perché sostenere che “le misure di sostegno alla domanda non possono essere utilizzate per stimolare permanentemente l’attività economica” infatti, significa non solo preannunciare il “ritorno” pedissequo dell’austerità, ma anche di tutti suoi corollari. Ridurre il sostegno pubblico alla domanda aggregata infatti, significherà anche proseguire il percorso di politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro, le privatizzazioni dei servizi pubblici e la progressiva uscita dello Stato dall’economia, con la scusa, ormai smentita dai fatti, che ciò aiuti la crescita.
Si potrebbe pensare che siamo di fronte a delle suggestioni, a delle parole a cui, speranzosamente, non seguiranno dei fatti concreti. Tuttavia, l’ultima Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e Finanza (NADEF) ci viene, purtroppo, in soccorso, e ci aiuta a sgombrare il campo da equivoci. Il documento, approvato ad inizio ottobre 2021, fotografa l’orientamento di bilancio che lo Stato intende perseguire per i prossimi anni. Ecco che le grigie parole di Visco si tramutano in dura realtà: il deficit (al netto della spesa per interessi) programmato per i prossimi anni, ossia l’ammontare di risorse che lo Stato effettivamente inietterà nell’economia per sostenere redditi e lavoro, si assottiglierà di anno in anno, fino a tornare ad una cifra prossima allo zero già nel 2024. In altre parole, non solo ogni euro di PNRR porta con sé un preciso decalogo di riforme dello Stato sociale, ma porta con sé, oggi o domani, decine di euro di tagli alla spesa sociale. Sullo sfondo, resta comunque la fine della sospensione del Patto di Stabilità e Crescita, che sancirà il rientro definitivo nello steccato dell’austerità di matrice europea.
La pandemia si esaurirà definitivamente, prima o poi. Quello che non cambierà, nemmeno dopo un’emergenza sanitaria ed economica della portata di una guerra, è l’attuale assetto politico-istituzionale in cui i Governi, tutt’altro che contro le proprie intenzioni, si trovano ad operare: un combinato disposto di austerità e riforme, in ossequio al neoliberismo incarnato dalle istituzioni europee, che non può far altro che alimentare la povertà e la precarietà di molti, a scapito degli interessi di pochi. Gli accadimenti degli ultimi mesi ci indicano, plasticamente, come il Governo Draghi (nonostante qualche fanatismo sensazionalista) sia perfettamente instradato su questo sentiero, con il pieno benestare delle istituzioni europee.
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