Al reiterato impasse delle cancellerie occidentali sull’Afghanistan, certificato dal vertice fallimentare del G20 svoltosi alcune settimane fa a Roma e voluto fortemente da Draghi, corrisponde una progressione evidente della diplomazia che non ha più i propri perni a Washington o in qualche capitale della “Vecchia Europa”.
Come riporta l’agenzia stampa russa Tass, Muhammad Suhail Shaheen – nominato dai talebani ambasciatore afghano all’ONU – venerdì ha twittato l’urgenza del versamento di 1,2 miliardi di dollari d’aiuti promessi al G20, scrivendo che l’Emirato è pronto a “cooperare completamente attraverso i canali delle agenzie e altre ONG sui terreno”, ribadendo la necessità che vengano sbloccati i circa 10 miliardi di fondi stanziati dalla “comunità internazionale” alla Conferenza di Ginevra del 2020.
Dopo la conclusione del secondo meeting dei Paesi confinanti con l’Afghanistan, tenutosi questo mercoledì a Teheran, Ahmadullah Vasik – un importante funzionario talebano – si è detto soddisfatto dell’incontro perché ora possono cercare di stabilire rapporti con i propri vicini e con la comunità internazionale.
Il funzionario degli “studenti di teologia” ha rilasciato un intervista esclusiva a China Media Group, in cui afferma che il governo ad interim spera di essere riconosciuto dalla comunità internazionale.
All’incontro, che ha visto la presenza virtuale dei ministri degli Esteri russo e cinese, e la presenza di quelli di Iran, Pakistan (che aveva ospitato l’incontro precedente a settembre), Tajikistan, Uzbekistan, Turkmenistan – nonché del vice-presidente iraniano Mohammed Mokhber – i sette paesi hanno posto di fatto le condizioni per un riconoscimento del governo transitorio: un taglio netto con la galassia jihadista, il tema dei diritti alle donne ed una maggiore inclusione nell’esecutivo provvisorio delle altri componenti della società afghana, ma dimostrando comunque una certa apertura nei confronti dei Talebani.
Anche il Segretario Generale dell’ONU Antonio Guterres è intervenuto all’incontro con un video-messaggio.
Iran e Cina si sono espressi contro le sanzioni che strangolano l’Afghanistan, che ha visto congelati i propri conti – aggiungiamo noi – nonostante la drammatica condizione umanitaria frutto dei disastri di un ventennio di occupazione militare, della corruzione dilagante negli apparati “collaborazionisti”, della palese incapacità di risollevare un Paese che ha di fatto vissuto per quasi quaranta anni in guerra.
Gli asset congelati depositati nella Federal Reserve ed in alcuni istituti bancari europei – tra cui mezzo miliardo in Germania ed una cifra ancora più considerevole in Svizzera – ammontano a 9,5 miliardi di dollari, mentre i prelievi ed i trasferimenti di denaro dall’estero non possono superare i 200 dollari.
Bisogna ricordare che gli USA, negli anni dell’occupazione, per una “ricostruzione” fallimentare hanno speso 146 miliardi di dollari, di cui ben più della metà – 89 miliardi – solo per le Forze Armate del paese, poi dissoltsi come neve al sole davanti all’avanzata talebana.
Come riporta Al Jazeera, gli USA sono fermamente determinati nel voler continuare la politica sanzionatoria contro i Talebani, come ha affermato Wally Adeyemo, Segretario al Tesoro statunitense, alla Commissione bancaria del Senato, ed allo stesso tempo – paradossalmente – contribuire al sostegno monetario del Paese.
Il portavoce ministeriale talebano Ahmad Wali Haqmal ha dichiarato alla Reuters: “I soldi appartengono alla nazione afghana, ridateci i nostri soldi. Congelare questi soldi è immorale e contro le leggi ed i valori internazionali”.
Tornando al vertice iraniano, in una dichiarazione finale congiunta, tutti i partecipanti hanno ribadito la necessità di aiuti umanitari al Paese, di supporto rispetto all’emergenza pandemica, di cui si deve far carico la comunità internazionale.
Bisogna ricordare che Russia e Cina, molto prima della caduta di Kabul questa estate, avevano avviato rapporti diplomatici con i talebani. L’intelligence iraniana che godeva di propri terminali sul terreno anche grazie alla numerosa comunità sciita hazara, aveva precedentemente certificato – escluse una dozzina di città – il sostanziale controllo del territorio da parte dei talebani, ripiegati fuori dalle zone urbane ma di fatto con la funzione di “governo ombra” nella vita quotidiana.
Ciò aveva spinto Mosca e Pechino ad un pragmatismo diplomatico verso i capi degli insorti, ben prima della precipitosa fuga occidentale.
Il vice-presidente iraniano, all’incontro di mercoledì, ha usato parole molto dure contro gli USA, accusati di utilizzare l’ISIS come “proxy force in region”, e fa di certo pensare l’intensa attività dell’ISIS-K nell’Emirato come principale fattore di destabilizzazione, insieme allo strangolamento economico che potrebbe portare nei prossimi mesi il Paese ad avere il 90% delle persone sotto la soglia di povertà.
Con gli USA ed i Paesi occidentali che non hanno ormai più i “gli scarponi sul terreno”, e pressoché nessuna influenza politica, i due maggiori “poli d’attrazione” per la diplomazia talebana sembrano essere da un lato l’asse Turchia/Qatar – che ha nel Turkmenistan un suo importante terminale – e l’asse euro-asiatico in via di consolidamento tra Russia, Cina ed Iran, con il Pakistan cooptato a vari livelli nella sfera di influenza di Pechino.
India ed Arabia Saudita, con la fuga dell’Occidente dal Paese, pagano un prezzo diplomatico altissimo, considerato il ruolo che avevano storicamente giocato.
I sauditi, infatti insieme ai nord-americani, dalla fine degli anni '70 ad inizio anni '90, sono stati i maggiori finanziatori della destabilizzazione del Paese insieme al Pakistan. Paesi che tra l’altro portano le maggiori responsabilità per l’incubazione dello jihad come fenomeno globale.
Questi due poli, Turchia-Qatar da un lato e Cina-Russia-Iran dall’altro, possono trovare punti di convergenza ma hanno notevoli punti d’attrito, e il profilo dell’Afghanistan del futuro sarà senz’altro anche un prodotto della bilancia di potenza tra questi attori, oltre che l’output della spinta della popolazione afghana stessa.
Significativo che, proprio il giorno prima del vertice a Teheran, ci sia stato in Qatar un incontro diplomatico ad alto livello tra Pechino e Doha, teso a rafforzare i già buoni livelli di collaborazione anche attraverso la cornice della “Nuova Via della Seta”. Uno scambio che ha avuto tra gli argomenti di discussione anche l’Afghanistan.
Il rappresentante cinese ha incontrato anche una delegazione di talebani, che hanno da tempo nel paese una rappresentanza diplomatica che ha gestito le trattative per il ritiro degli USA, conclusosi con l’accordo del febbraio del 2020.
Pechino sembra ora fare la parte del leone nei giochi diplomatici, agendo da “apripista” per una ridefinizione dei rapporti regionali dell’Afghanistan. In Cina, si svolgerà infatti nel 2022, il terzo incontro, dopo quello tenutosi in Pakistan e poi in Iran.
Il Consigliere di Stato e Ministero degli Esteri cinese, Wang Yi, ha fatto appello ai vicini del Paese perché aumentino i rapporti con Kabul al fine di integrarlo nello sviluppo regionale, promuovere la pace e accelerare la ricostruzione post-bellica.
Wang ha posto l’attenzione sullo sviluppo delle connessioni infrastrutturali tra i Paesi e sulla possibilità di includere l’Afghanistan nella cooperazione sviluppata grazie alla “Belt and Road”.
Così, mentre l’Occidente – dopo 20 anni di occupazione – vuole ridurre letteralmente alla fame il popolo afghano e sembra non proprio “infastidito” dall’attività jihadista dell’ISIS in loco, la diplomazia extra-europea lavora per porre le basi per una uscita del paese dalla sudditanza politica e dalla dipendenza economica, cercando di strappare condizioni migliori per le donne e alcune componenti della popolazione, che gli ex-occupanti – con la “strategia della fame” – non sembrano proprio poter assicurare.
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