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21/10/2021

Trieste e poi

I portuali di Trieste si sono trovati nel mezzo di una lunga lista di problemi – parte internazionali, parte tutti “italici” – che hanno avuto un grande peso sul risultato negativo della loro mobilitazione.

Ma non tutti quelli che si sono espressi su questo sembrano esserne minimamente consapevoli, o almeno informati. E se questo appare tutto sommato “normale” nelle frange qualunquiste o reazionarie che si usano definire “no vax”, è invece sorprendente tra chi – su sponda decisamente opposta – si dichiara orgogliosamente antagonista, rivoluzionario, comunista e via aggettivando.

Come sempre, in qualsiasi conflitto, lo scarto tra conoscenza del contesto e spinte soggettive è a fondamento di cantonate più o meno memorabili.

Proviamo a vedere perciò, a grandi linee, almeno i problemi principali.

Interessi strategici sul porto di Trieste

È nota a tutti i protagonisti l’importanza strategica del porto in questione nelle catene logistiche italiane e mittel-europee, punto di confluenza per molti paesi dell’Est, la Germania e l’Austria.

Una precisa analisi di Gudo Salerno Aletta, sull’agenzia Teleborsa, ne mette in risalto sia gli aspetti storici che quelli futuribili, mettendo in luce gli interessi europei, cinesi, statunitensi e russi intorno ai moli triestini (lo potete trovare in fondo a questo articolo).

Va da sé che quando ci si trova in mezzo a un grumo di interessi così grandi e conflittuali tra loro – che è davvero riduttivo identificare solo con la parola “capitale multinazionale”, ignorandone le dinamiche e le faglie – ogni iniziativa andrebbe studiata con grande attenzione, preparata attentamente, coordinata in base a una ricerca di alleanze sociali in grado di costruire un fronte sufficientemente ampio e robusto da reggere il confronto.

Questo vale sia per le soggettività coinvolte, che devono avere interessi e motivazioni “confluenti”, sia per le “parole d’ordine” messe a simboleggiare la protesta.

Parola d’ordine centrale

“No green pass”, da questa angolatura, è un grido che non poteva e non può raccogliere che appoggi socialmente minoritari (l’85% della popolazione – dunque anche dei lavoratori – è vaccinata), arretrati come cultura e mentalità, senza alcun orizzonte programmatico (né “politico”, né – tanto meno – “di classe”).

L’incidenza negativa del “certificato verde” sui rapporti di lavoro, l’accresciuto potere conferito in tal modo alle aziende, è indubbio. E questo ha spinto molte strutture operaie e sindacali (soprattutto “di base”) a solidarizzare inizialmente con i portuali di Trieste.

Ma fare di questa questione l’epicentro, o addirittura, l’unico tema della mobilitazione – mentre accade di tutto su pensioni, sanità, mercato del lavoro, licenziamenti, fisco, ecc. – non poteva e non può avere alcun effetto aggregativo di un fronte sociale ampio.

Non era difficile neanche all’inizio vedere che il green pass è un diversivo temporaneo, uno straccio agitato davanti agli occhi di un malcontento popolare crescente e ultra-motivato (si è visto anche nella marea di astensionismo alle elezioni comunali). Lo capiscono quasi tutti istintivamente, senza necessità di essere dei “fini analisti”.

Ma soprattutto non era difficile capire che questa questione, per quanto antipatica e “fastidiosa”, non costituiva una molla mobilitante, se non per poca gente, non sempre raccomandabile.

Direzione politica

È evidente, a chi vive a Trieste ma anche a chi guarda da lontano, che l’emergere di una “parola d’ordine” così vuota di prospettive politiche e sociali corrisponde a una situazione particolare.

Due dati oggettivi sono da tener presente: a) solo a Trieste, praticamente, il “partito” 3V-Verità, Libertà, Azione, apertamente “no vax”, ha ottenuto un risultato elettorale significativo; il 4,6%; b) solo tra i portuali di Trieste i lavoratori non vaccinati raggiungono il 40%.

Questo naturalmente non significa che “i portuali triestini sono tutti no vax”, come hanno strumentalmente semplificato tutti i media di regime; ma certamente c’è un “clima”, o un “senso comune triestino”, che ha un peso anche tra i portuali. Anche chi non è d’accordo con il rifiuto del vaccino deve comunque tenerne conto.

Come ci è già capitato di scrivere, e dovrebbe risultare anche “logico” per chi dice di essere marxista, il fatto di essere lavoratori garantisce notevoli possibilità di comprendere la contrapposizione tra interessi propri e interessi padronali, ma al di fuori dei rapporti lavorativi si è esseri umani come tutti gli altri, esposti a idee e mode che magari fanno a cazzotti con la “condizione di classe” che si vive in fabbrica o sul molo.

Sui portuali di Trieste – 950 in tutto – si è riversata una massa di interessi e persone che ben poco hanno a che fare con gli interessi dei portuali. Ma il fatto che facessero dei portuali – e del “no green pass” – la loro bandiera ha finito per imporre una “direzione politica” alla mobilitazione. Una direzione suicida, per esser chiari.

Pretendere “il ritiro del decreto” – di qualsiasi decreto governativo – è un obbiettivo politico, perché non può essere deciso dall’Autorità portuale (la “controparte aziendale”) e mette in discussione l’autorità del governo. Se lo si vuole davvero ottenere bisogna ovviamente che esista una forza sociale all’altezza della sfida, oppure cercare di costruirla.

Non basta insomma che si abbia la possibilità di “bloccare un porto strategico”. Perché proprio il fatto che lo è davvero mette in moto potenti forze contrarie. E tutto alla fine si risolve con i famosi rapporti di forza.

È il problema che incontra ogni situazione di classe, da oltre 30 anni a questa parte. Ogni volta che si arriva ad identificare un problema, un obbiettivo, un bisogno, che può essere risolto solo con un cambiamento delle leggi esistenti, ci si rende conto che le lotte che abbiamo costruito sono ancora troppo poco per vincere. Manca una “rappresentanza politica” autonoma e indipendente che sappia tradurre quelle spinte in progetto politico, ma manca persino una qualsiasi “sponda democratica” in grado di limitare i danni.

Le conseguenze

La repressione poliziesca di questa mobilitazione, però, non è un fatto che riguarda solo i portuali triestini e i loro sostenitori meno credibili. Riguarda tutte le lotte presenti e future. Idranti e cariche contro manifestanti pacifici, seduti a terra, contro lavoratori abbracciati tra loro, hanno rotto un tabù repressivo che separava i regimi “democratici” dal fascismo puro e semplice.

Il doppio standard applicato dal governo nell’uso delle forze di polizia – rivendicato dal ministro Lamorgese e di fatto anche da Draghi, oltre che da quei reazionari del PD – è l’annuncio di una linea politica che verrà applicata in ogni piazza che non sia riempita di “complici”.

I fascisti vengono accompagnati e protetti nelle loro scorrerie. Tutti gli altri – che siano soggetti di classe con obbiettivi incompatibili o squinternati sostenitori di fantasie sanitarie – vedranno levarsi il manganello.

Mentre il green pass sarà un lontano ricordo durato tre mesi.

*****

Trieste: commercio libero e proteste bloccate
Le mani pesanti di Berlino e di Roma

Guido Salerno Aletta – TeleBorsa

A differenza della Repubblica di Venezia che dominò per secoli il Mediterraneo nei suoi rapporti con l’Oriente, la centralità geopolitica di Trieste non è mai venuta meno: deriva dalle sue relazioni con la Mittle Europa.

Trieste è sempre stata il porto dell’Impero Austroungarico, quale che fosse l’origine delle merci che vi arrivassero: e non è un caso che una delle sue ancor oggi più gloriose istituzioni, le Assicurazioni Generali, furono fondate in occasione della apertura del Canale di Suez. E non è un caso, ancora, che la questione del Territorio Libero di Trieste fu una delle pagine più complesse della definizione del Trattato di Parigi, alla fine della Seconda Guerra mondiale. Londra voleva assicurarsi il controllo di Trieste: d’altra parte, l’Impero Britannico era stato sin da metà Ottocento l’arcigno controllore del Mediterraneo, presidiando la rotta che la collegava con l’India, la sua gemma più preziosa, passando da Aden, per Suez e poi da Gibilterra.

Controllare Trieste significa ancor oggi avere in mano le chiavi dell’accesso delle merci e dei rifornimenti di petrolio di una parte rilevante dell’Europa continentale. L’oleodotto che parte dal porto di Trieste rifornisce del 100% il fabbisogno petrolifero della Baviera e del 40% quello dell’intera Germania.

Va poi tenuto conto del ridotto afflusso di gas russo attraverso la pipeline che attraversa la Ucraina, del fatto che fino all’Ungheria i rifornimenti arrivano ora attraverso il Turkish Stream passando attraverso la Bulgaria e la Serbia, e che il North Stream 2 non è ancora in esercizio.

In un momento in cui i rifornimenti energetici sono a rischio e la continuità della catena logistica è interrotta in più punti, la centralità di Trieste emerge con ancora maggiore nettezza: la crisi dei trasporti nel Mediterraneo che è stata innescata appena pochi mesi fa dall’intraversamento nel Canale di Suez della portacontainer Evergreen aveva già fatto scattare l’allarme rosso.

Lo scenario geopolitico in cui si viene a trovare Trieste è assai complesso:

- i cinesi hanno avuto l’ambizione di estendere la Via della Seta fino all’Alto Adriatico dopo aver messo sotto controllo il Pireo, mettendo così a profitto il raddoppio del Canale di Suez che hanno finanziato al fine di consentire il passaggio di navi mercantili di più elevato tonnellaggio, riducendo i tempi ed i costi del trasporto dalla Cina;

- i tedeschi hanno cercato a loro volta di presidiare una parte del porto, quella in fase di avanzato sviluppo infrastrutturale, al fine di evitare una pressione concorrenziale distruttiva nei confronti dei suoi porti sul Mare del Nord, come Amburgo;

- gli Anglo-Americani devono valutare a loro volta l’impatto che queste dinamiche hanno sugli equilibri geopolitici più generali, e sulla pressione che stanno esercitando nei confronti della Cina mediante la nuova Alleanza Aukus (Australia, UK, USA) e l‘accordo a Quattro (Usa, Australia, India e Giappone). Le tensioni nel Mar della Cina meridionale, attorno a Taiwan sono un segnale;

- a Bruxelles, dopo le fanfare per il NGUE, c’è fermento per una possibile crisi dei prezzi energetici e per il conflitto ulteriore, sul piano giuridico, insorto di recente tra la Ungheria e la Commissione europea, circa la prevalenza delle Costituzioni nazionali sul Trattato istitutivo dell’Unione. Non solo riecheggiano i contrasti già insorti con la Polonia, ma diviene ancora più profonda la divaricazione in materia di controllo dell’immigrazione, soprattutto per la preoccupazione di nuovi flussi incontrollabili provenienti dall’Afghanistan.

Soprattutto oggi, Trieste è l’anello di snodo di tante catene: c’è chi tira da una parte e chi dall’altra.

La confusione apparente è frutto del sovrapporsi di fenomeni molteplici, che investono equilibri assai più delicati di quelli che si manifestano all’apparenza.

La questione dell’obbligo del green pass per lavorare, sollevata dai portuali di Trieste, si correla alla libera circolazione garantita invece in ogni caso agli autisti dei camion provenienti dall’Europa dell’est e diretti oltrefrontiera: senza vaccino e senza tampone, vanno e vengono senza controlli.

Se è dunque impensabile bloccare le merci che transitano per le frontiere delle Alpi, il porto di Trieste deve essere sempre accessibile alle merci ed alle petroliere per rifornire la Germania e la Baviera.

Nello stesso tempo, la protesta dei portuali triestini ed ogni altra manifestazione anti-Green pass devono essere stigmatizzate, isolate e represse in modo esemplare. La mano pesante di Roma sulla protesta triestina serve a che vada in frantumi l’intero assetto dei controlli imposti in Italia.

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