La normalizzazione dei rapporti tra gli Stati Uniti e Bashar al-Assad sembra essere ancora un’ipotesi estremamente inverosimile, ma l’evolversi degli scenari nel paese in guerra e nel resto del Medio Oriente sta mettendo di fronte all’amministrazione Biden l’imperativo di riformulare il proprio approccio alla crisi siriana, con la possibilità non del tutto remota di prendere in considerazione iniziative all’insegna del pragmatismo nei confronti del governo di Damasco.
Una recente analisi apparsa sul sito di Al Jazeera ha sintetizzato il dilemma di Washington spiegando che la Casa Bianca deve bilanciare il rifiuto di legittimare Assad con il perseguimento di obiettivi “realistici” in Siria e nella regione. La realtà sul campo, nonostante gli sforzi e gli investimenti per il rovesciamento del regime di Damasco di tre amministrazioni americane, dice quindi che Assad non si muoverà dal proprio posto tanto presto e che, in conseguenza di ciò, alcuni paesi arabi si sono già mossi per ristabilire rapporti diplomatici, economici e commerciali con la Siria.
A livello ufficiale, la posizione americana resta comunque improntata alla chiusura pressoché totale. Il segretario di Stato, Anthony Blinken, ha recentemente confermato pubblicamente l’intenzione di negare l’appoggio del suo paese a “qualsiasi tentativo di normalizzare i rapporti [con la Siria] o di riabilitare Assad”. Allo stesso modo, Blinken ha escluso la sospensione delle sanzioni punitive imposte alla Siria o un allentamento delle misure che impediscono la ricostruzione del paese, almeno fino a quando non ci saranno “progressi irreversibili verso una soluzione politica”.
Già il fatto che il capo della diplomazia USA abbia ritenuto di dover ribadire pubblicamente la posizione americana è tuttavia un segnale delle pressioni a cui l’amministrazione Biden è sottoposta per modificare la propria attitudine verso Damasco. Per il momento, svanita l’ipotesi di un ribaltamento del governo legittimo con la forza, l’obiettivo resta quello del cambio di regime o, comunque, di orientare l’esito della crisi nella direzione più favorevole agli Stati Uniti tramite altri mezzi, primo fra tutti la guerra economica.
Retorica a parte, le difficoltà delle politiche mediorientali degli USA dipendono esclusivamente dalle loro scelte. Uno degli analisti americani più competenti sulla Siria, il docente dell’università dell’Oklahoma Joshua Landis, ha spiegato che i governi di Washington “si sono infilati per conto loro in questa scomoda posizione”, basandosi sull’ipotesi sbagliata del crollo imminente del regime di Assad. Più precisamente, l’amministrazione Obama aveva alimentato sporadiche proteste in Siria nel 2011, per poi fornire, assieme agli alleati arabi sunniti, armi e denaro a gruppi armati fondamentalisti per combattere una guerra contro un governo poco disposto ad assecondare gli interessi strategici americani in Medio Oriente.
Le testimonianze più significative del fatto che il vento sia parzialmente cambiato in Medio Oriente circa la posizione della Siria di Assad riguardano le mosse di un certo numero di paesi arabi. Gli Emirati Arabi Uniti sono finora quelli che hanno preso le iniziative più importanti a questo proposito. Dopo avere appoggiato a lungo e con i propri alleati l’opposizione anti-Assad, Abu Dhabi ha mostrato ormai da tempo di volere aggiustare il tiro nei confronti di Damasco. Nella capitale siriana questo paese ha riaperto l’ambasciata già nel 2018 e, a riprova del cambiamento dei rapporti, a inizio ottobre i rispettivi ministri dell’Economia sono stati protagonisti di un vertice durante “Dubai Expo 2020” per discutere di investimenti e scambi commerciali.
In parallelo agli Emirati Arabi, altri paesi come Bahrein e Kuwait hanno da qualche tempo riaperto le rispettive rappresentanze diplomatiche e in molti chiedono sia il ritorno della Siria nella Lega Araba sia un atteggiamento più morbido degli Stati Uniti, in particolare l’allentamento del cosiddetto “Caesar Act” che impedisce di fatto l’avvio della ricostruzione del paese devastato da oltre un decennio di guerra. La riapertura della rappresentanza diplomatica a Damasco da parte del Bahrein comporta inoltre quasi certamente il consenso di una potenza come l’Arabia Saudita, visto che il piccolo paese arabo è in pratica un protettorato di Riyadh.
Più recentemente anche la Giordania si è mossa per riparare i legami con Damasco, dopo che anche il regno hascemita aveva svolto un ruolo di primo piano nelle manovre regionali per rovesciare il governo siriano. Per la prima volta dall’inizio del conflitto, un paio di settimane fa il sovrano Abdullah II ha avuto un colloquio telefonico con il presidente Assad e, prima ancora, Amman aveva riaperto il principale valico di frontiera con la Siria per far ripartire gli scambi commerciali tra i due paesi. Simbolicamente di rilievo è stato infine il faccia a faccia tra il ministro degli Esteri egiziano, Sameh Shoukry, e la sua controparte siriana, Faisal Mekdad, a margine dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite lo scorso settembre a New York.
Un altro evento ha ancora di più mostrato i movimenti in atto a livello regionale che coinvolgono la Siria e del quale sono stati proprio gli Stati Uniti i promotori. Il governo americano ha proposto e incoraggiato la fornitura di gas naturale egiziano al Libano sfruttando un gasdotto che attraversa la Giordania e, appunto, la Siria. Per attuare il progetto è stato necessario creare un’eccezione alle sanzioni applicate contro la Siria.
Decisamente meno discusse sui media ufficiali ma altrettanto indicative delle intenzioni americane sono state almeno tre recenti situazioni inedite relative a Damasco che hanno visto l’intervento diretto o indiretto del governo USA. La prima è la decisione del governo britannico di sospendere le sanzioni contro un uomo d’affari legato ad Assad. Le altre due sono state anch’esse influenzate da Washington e riguardano la riammissione della Siria nell’Interpol e l’assegnazione a Damasco di un seggio nel consiglio esecutivo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).
Per alcuni osservatori, questi segnali dimostrano che la Casa Bianca starebbe forse valutando un qualche allentamento delle pressioni su Assad. Oltre che alla realtà sul terreno, a spingere Washington in questa direzione sono considerazioni di carattere strategico e, qualsiasi iniziativa dovesse essere implementata, l’obiettivo primario resterà la difesa degli interessi USA nella regione. In altri termini, l’eventuale riavvicinamento degli Stati Uniti a Damasco sarebbe da ricondurre in primo luogo ai timori per la creazione di un rapporto di fatto di dipendenza tra la Siria e l’Iran, così come per il passaggio del Libano sempre più verso l’asse della “resistenza” anti-americana. L’altro fattore da considerare potrebbe essere l’opportunità di avere un interlocutore, come appunto Assad, da utilizzare per fare leva su Teheran, sia nel quadro dell’accordo sul nucleare (JCPOA) in fase di rinegoziazione sia, più in generale, in relazione al ruolo della Repubblica Islamica in Medio Oriente.
Queste stesse considerazioni sono in cima ai pensieri anche dei paesi arabi che hanno rotto il ghiaccio da tempo con Assad. Dal loro punto di vista, la necessità di bilanciare l’espansione iraniana in Medio Oriente si accompagna alle frustrazioni per il relativo disinteresse mostrato dall’amministrazione Biden per gli affari regionali, essendo gli Stati Uniti orientati in prospettiva verso la competizione con le grandi potenze, a cominciare dalla Cina. In questo scenario, la normalizzazione dei rapporti con la Siria è dettata anche dalla necessità di propiziarsi i favori della Russia, com’è noto decisiva per la sopravvivenza di Assad e ben intenzionata a consolidare la propria presenza nella regione partendo proprio dalla partnership con Damasco.
Per il prossimo futuro, in ogni caso, è improbabile che ci saranno cambi di rotta drastici da parte di Washington. Pur mantenendo un atteggiamento esteriore di freddezza nei confronti di Assad, è però possibile che in una certa misura la Casa Bianca si astenga dal porre veti su aperture di altri paesi mediorientali e non solo. Nel frattempo gli Stati Uniti potrebbero restare alla finestra, continuando a cercare di destabilizzare il governo di Damasco e di influenzare il faticoso processo diplomatico che ha recentemente registrato un piccolo passo avanti.
Nei giorni scorsi è circolata infatti la notizia dell’accordo raggiunto tra il governo siriano e i rappresentanti dell’opposizione per iniziare a Ginevra e con la mediazione dell’ONU le trattative sulla stesura di una nuova Costituzione. Con l’obiettivo di liquidare Assad per mezzo del processo politico, il governo americano ha subito espresso il proprio apprezzamento per questi ultimi sviluppi tramite un comunicato ufficiale del dipartimento di Stato.
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