Due vertici mondiali in due giorni danno la misura dei problemi che non trovano soluzione e che ogni potenza, o macroarea economica, vorrebbe risolvere a spese di qualcun altro.
Economia, rapporti internazionali, pandemia, ambiente… Non c’è un tema che non sia sorgente di crisi, e il peggio è che sono tutti globali e interconnessi.
Due vertici da paura, insomma, tra soggetti che ogni giorno perdono forza e presa sul mondo (Usa e Unione Europea, fondamentalmente) ed altri che salgono in forza e autostima (Cina su tutti, ma anche altri, con molte meno possibilità), altri che inseguono sogni regionali (la Turchia, in pieno delirio erdoganiano).
C’è una differenza sostanziale – al di là delle somiglianze esteriori (polizia nelle strade, “zone rosse” blindatissime, droni, elicotteri e carri armati) – con Genova 2001 e i G8 di quel tempo.
Allora si celebrava la vittoria del “pensiero unico” liberal-liberista, il comando Usa sul mondo, la “compattezza” del mondo occidentale che aveva da poco sconfitto il suo nemico storico (il “socialismo reale”) e aveva perciò il pianeta a sua completa disposizione.
Putin – a rappresentare la Russia, non l’Unione Sovietica – sembrava un trofeo esibito dal vincitore, più che un interlocutore di rilievo.
Oggi Putin neanche si presenta, interverrà in video, forse. E così Xi Jinping. Ossia i due “vincitori oggettivi”, senza muovere un dito, dopo l’ingloriosa fuga degli Usa dall’Afghanistan, appena due mesi fa.
Questo G20 romano ha proprio il destino talebano di Kabul tra i suoi temi principali. E le assenze segnalano che non c’è molto da discutere, se visto da un’altra angolazione (Russia e Cina hanno l’Afghanistan alle proprie frontiere, sono potenze asiatiche; gli Usa – e l’Europa asservita fin qui – sono di nuovo “l’estraneo” che si era intrufolato a forza in un territorio incompreso, dopo averne sollecitato e finanziato gli umori “anticomunisti”.
I sauditi e gli altri paesi musulmani di rilievo osservano ora silenziosi. Finito il tempo dall’alleanza blindata contro Mosca, finito anche il tempo della centralità assoluta del petrolio e del gas (il cambiamento climatico impone il cambio di paradigma o una fine lunga e dolorosa), impantanate nella savana le ambizioni di allargare all’Africa il segno dell’Islam, devono ancora trovare un’altra dimensione economica, finanziaria, strategica.
L’Unione Europea sogna di poter diventare in pochi anni un soggetto imperialista autonomo, dotandosi di un esercito continentale, oltre che di moneta unica e trattati comuni ancor più inflessibili.
Ma sconta un’arretratezza istituzionale proprio sul terreno che più conta in situazioni incerte: unicità del comando politico (e militare); catene di trasmissione delle decisioni operative snelle, veloci e funzionanti; unità di intenti e “patriottismo continentale” (in mancanza di altri valori “vendibili”, resta solo quello dei gaglioffi).
Due vertici con molti soggetti impauriti, dunque. Pieni di dubbi e con interessi contrastanti su ogni dossier.
Giustamente “i movimenti” – rappresentanti più o meno efficaci degli interessi esclusi da questi vertici – si organizzano per manifestare il proprio dissenso complessivo. Ma non hanno ancora colto quella differenza essenziale tra Genova 2001 e oggi: davanti non hanno UN nemico, ma diversi, in lotta fra loro. E non in grado di “fare muro” – come nel 2001 – contro chi chiede ascolto, rispetto, dignità, una vita migliore.
È una condizione strategica migliore, anche se meno facile da inquadrare, capire, interagire. La tentazione di prendere il G20 come un “tutt’uno” denota coazione a ripetere e pigrizia intellettuale, che inibisce sviluppi nel conflitto.
Sono due vertici da paura, e proprio questa coazione a ripetere è evidente nel modo di gestire la scadenza di oggi da parte dei “poteri italiani”. In assenza di soluzioni ai grandi problemi, si semina la paura e si criminalizza preventivamente ciò che si muove e occupa le piazze (e ovviamente non ci riferiamo al fuoco di paglia “no vax”).
Non c’è giornale e televisione che non si dilunghi soprattutto sui “pericoli” (gli eterni black bloc, gli “opposti estremismi”, gli “infiltrati violenti”, e via fantasticando), sorvolando allegramente sui “contenuti”.
Più un augurio, si può dire, che non una previsione. Si nota in superficie la “manina” governativa che suggerisce i servizi, in puro stile Minculpop. E in effetti, in assenza di soluzioni credibili per ognuno di quei problemi sistemici che tolgono il futuro alle nuove generazioni, poter gestire il previsto fallimento di entrambi i vertici in termini di “fermezza nella gestione dell’ordine pubblico” deve sembrare l’unica possibilità per distrarre ancora una volta “le masse”.
Ma è un gioco vecchio. Può servire a dilazionare il redde rationem. Non a invertire il declino di un potere capitalistico accecato dalla propria avidità.
Lo si vedrà, non paradossalmente, proprio a Glasgow, nel Cop26, più ancora che a Roma. Sull’ambiente e il cambiamento climatico, infatti, è ogni giorno più difficile nascondere che i governi occidentali – soprattutto – non sono in grado di decidere nulla.
Solo qualche ballon d’essai, qualche frase “green”, tipo la “transizione ecologica” del governo Draghi, che rinvia persino una misura propagandistica come la “plastic tax” per non disturbare il business di una filiera locale.
Ogni scelta in questo campo comporta infatti un rovesciamento completo del rapporto tra capitale privato e scelte politiche, una assoluta prevalenza della dimensione pubblica su qualsiasi interesse privato, di qualsiasi dimensione.
Un rovesciamento che sta cominciando ad avvenire in parte in Cina, oltre che in qualche altro paese socialista. Ma che resta tabù per chi fa della “logica del mercato” la propria guida verso un avvenire perso nei fumi tossici.
Ci state rovesciando addosso la vostra paura. La rispediremo al mittente, con gli interessi.
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