Da Trieste a Milano, passando per Bologna e per altri paesi non solo europei: l’introduzione della misura del green pass ha scatenato reazioni e proteste che coinvolgono ampi strati della popolazione. Ad accomunare le mobilitazioni, oltre al rifiuto del certificato verde e un diffuso scetticismo verso i vaccini, c’è l’insistenza sul concetto di “libertà”. Una libertà spesso intesa come individuale, privatistica, libertà come autonomia dalle strutture comunitarie e statali.
Un’intervista a Sergio Bologna per discutere insieme a lui di mutualismo, di salute pubblica e del ruolo del sindacato a partire dalla dissoluzione della middle class e della frammentazione e scomposizione della working class.
Da Trump fino ai no-vax, passando per l’ideologia neoliberale, in tanti oggi si rivendicano il concetto di “libertà”. Vedi delle contraddizioni nel suo utilizzo così diffuso?
Le contraddizioni in cui si può cadere usando il termine libertà è un argomento che mi tormenta dalla fine degli anni ‘80 quando ho cominciato a ragionare sul lavoro autonomo. Un lavoro libero e indipendente, si diceva, lontano dalla schiavitù del lavoro salariato. Ho cercato di fare chiarezza e di mettere in evidenza che il grado di libertà era più apparente che reale. Ma questo è stato il primo passo, diventato di senso comune con il volume sul lavoro autonomo di seconda generazione. Il secondo passo, che a mio avviso pochissimi hanno percepito, è quando ho cercato di approfondire l’idea di professione, perché è l’attaccamento alla professione quello che porta il freelance a preferire la partita Iva al salario, non è l’idea di libertà. Ho iniziato una ricerca sul professionalismo, campo quasi sconosciuto agli studiosi marxisti. Ed è stata una ricerca assai feconda perché mi ha portato, tra l’altro, a dare un giudizio storico non mainstream sul '68 e sul problema se sia finito con una sconfitta totale oppure no.
Veniamo all’oggi. Quando ho sentito quelle piazze gridare “libertà, libertà” ho fatto un salto sulla sedia e mi sono ricordato dei miei primi studi sui freelance in un contesto, quello odierno, radicalmente diverso. E ho pensato immediatamente all’assalto al Campidoglio di Washington perché freedom è l’argomento che la canea trumpiana mette sempre in mezzo, di qualunque cosa si tratti. Era quello il mantra che li aveva guidati all’assalto di Capitol Hill, al di là della protesta contro l’esito delle elezioni. Tant’è, per fare un esempio, che oggi i repubblicani ostacolano la proposta di legge di Biden di sostenere l’organizzazione sindacale sui luoghi di lavoro (Protecting the Right to Organize Act) con l’argomento che questa impedirebbe la libertà di lavorare ed avrebbe lo scopo recondito di forzare un ritorno al lavoro salariato mentre tutta l’America vuole lavorare da freelance senza sindacati tra i coglioni. I freelance sono diventati un mito repubblicano, come eroi della libertà nel lavoro.
In questo contesto, penso che torni d’attualità in maniera forte il tema del mutualismo su cui si dovrebbero scrivere pagine e pagine. La fondatrice del sindacato dei freelance negli Usa, Sara Horowitz, la Freelancers Union con cui noi dell’Associazione italiana dei freelance (Acta) siamo gemellati, ha da pochi mesi pubblicato un libro sul mutualismo, definendolo the next economy. Diventa attuale perché si sostituisce a un welfare state che sta andando in pezzi? No, diventa necessario perché è la negazione del welfare state come assistenzialismo. L’idea di welfare state che qualche politico tenta di rilanciare (vedi reddito di cittadinanza, sul quale comunque sono d’accordo) è quella della persona che vive in condizioni difficili alla quale la Potenza Benefica Stato tende una mano, perché altrimenti lui non ce la fa a venirne fuori. L’assistenzialismo è lo specchio dell’individualismo. L’idea di mutualismo è che la solidarietà dei simili, l’aiuto reciproco, il senso della collettività, possono sopperire alla solitudine dell’individuo. Solidarietà, sottolineo, non condivisione – termine del solito vocabolario di merda del politically correct.
Nel tuo intervento su “il manifesto” critichi giustamente la gestione governativa dell’emergenza esclusivamente limitata alle campagne vaccinali. In che modo il campo medico e sanitario – e quello ambientale – potrebbero diventare terreno per un nuovo movimento di lotta per la salute pubblica?
Quando si è diffusa la notizia della pandemia sono rimasto sconcertato come tutti. E adesso, che facciamo? Sono cominciate le prime misure di ordine pubblico e ho reagito con scetticismo e diffidenza. È stata mia figlia e sua madre, la mia prima moglie, medico ospedaliero di grande esperienza a dirmi: che non ti vengano strane idee, qui bisogna che tutti seguano certe regole, non è un’influenza virale, non è un morbo qualsiasi, è un’epidemia di un virus ancora poco conosciuto. L’immunità di gregge? È un’idiozia criminale (Boris Johnson docet). Allora mi sono detto: il fenomeno “epidemia” è un fenomeno con una sua logica specifica, da affrontare con un quadro mentale sui generis. Chi mi può aiutare se non chi se n’è occupato sistematicamente? La mia esperienza con il gruppo di “Sapere” negli anni ’70 è stata un riferimento importante, che mi diceva una sola cosa: il problema del vaccino è solo “uno” dei problemi, bisogna affrontare un’epidemia con una strategia complessa e opposta alle scelte fatte dal sistema sanitario negli ultimi trent’anni.
Perciò non me la prendo tanto con Conte o con Speranza, come hanno fatto gli sciacalli della Lega e di Fratelli d’Italia, né me la posso prendere oggi solo con Draghi, visto che la politica della sanità pubblica è responsabilità dei governi degli ultimi decenni, è responsabilità dell’ambiente accademico degli ultimi decenni, è responsabilità soprattutto dei governi regionali, è qualcosa dove ci sono dentro tutti, destra, sinistra, Confindustria, sindacati, ordini professionali. È l’Italia che ha rinnegato tutto ciò che d’innovativo hanno prodotto gli anni ’70, è l’Italia dei pentiti, di quelli che praticano le “contaminazioni culturali”, degli ecologisti da strapazzo, l’Italia di chi ha sputato sulla tomba dei suoi padri.
Mi chiedete in che modo si può riprendere una lotta per la salute pubblica. Sicuramente attingendo in parte alla tradizione di quel movimento che è partito negli anni settanta ma non solo, un movimento, oltre che di scienziati, di operatori sanitari, di delegati sindacali, di tecnici con grande esperienza, di operatori del diritto, di docenti, di operatori dell’informazione. Allora ha un senso, altrimenti si protesta contro singoli provvedimenti governativi e ci si perde dietro alle sciocchezze delle “infiltrazioni” ma “la lotta generale”, quella la gestisce e la egemonizza chi gioca in grande su uno scacchiere mondiale (un mio intervento sul “Fatto Quotidiano” del 19 ottobre è stato distorto a partire dal titolo appioppatogli).
Nelle mobilitazioni “No Green Pass” sembra verificarsi una convergenza fra differenti blocchi sociale e differenti aree politiche che, però, ora sembra sul punto di sciogliersi (visti gli ultimi sviluppi proprio a Trieste). Quali possono essere secondo te gli scenari futuri?
Avevo scritto due articoli sull’argomento prima della conclusione di quel ciclo di proteste, ma avevo già fatto cenno in ambedue al punto che a mio avviso mi sembra più importante. Quello del “movimento no vax” inteso come strumento di strategie che hanno obiettivi del calibro Presidenza degli Stati Uniti, Papato di Roma, controllo delle risorse naturali del pianeta e simili.
Qualche amico, letti i miei scritti, mi chiese se non stavo andando fuori di testa anch’io. Poi a Trieste la piazza si è trovata ad ascoltare e applaudire, con gente addirittura che cadeva in ginocchio, l’allocuzione di mons. Carlo Maria Viganò e finalmente si è capito che fuori di testa non ero io ma semmai qualcun altro. Questo Viganò, ex-nunzio apostolico del Vaticano in Usa, ci riporta oltre che all’Opus Dei – entità che ha avuto un certo peso nel determinare la politica sanitaria e ospedaliera italiana – a Steve Bannon e dunque a Trump. Come diavolo è arrivato a lanciare un messaggio ai triestini? Chi lo ha chiamato?
Rispetto alla composizione sociale delle proteste No Green Pass, sappiamo bene che un tale movimento è il prodotto della frantumazione di due classi, la middle class e la working class, non può che esprimersi con forme di azione collettiva indefinite, dentro le quali possono fare i loro giochi i vari movimenti o le varie frange più “etichettabili”. Tra cui quei balordi di neofasci e neonazi nostrani che rappresentano un pericolo infimo, ridicolo, se paragonato con quello costituito dalla filiera che, passando da monsignor Viganò e magari dal no vax pentito Boris Johnson arriva a Trump. Ma è proprio l’indefinitezza di queste forme a costituirne il collante, anche la cosiddetta “apartiticità” non è quella di chi non va a votare ma quella di chi rifiuta programmaticamente dei tratti identitari.
Quella del forzanovista che grida «Ora e sempre resistenza» e del lettore de “Il manifesto” che urla «Boia chi molla!». Pertanto questa manfrina delle infiltrazioni, dei distinguo (ma io non sono fascista, sono un vegano, bevo solo in bottiglie di vetro) lascia il tempo che trova. Lì dentro tutti rinunciano ai loro tratti identitari, tranne loro, i “no vax”, che dunque restano e resteranno egemoni. E quando parlo di «movimento mondiale no vax» non solo parlo di quel prete anti-Papa, ma di un certo Bolsonaro che con la sua politica anti-vaccini rischia di sterminare l’unico popolo che rappresenta un presidio rispetto alla minaccia della distruzione del polmone d’ossigeno del pianeta.
Nelle vicende triestine e in generale negli sviluppi del movimento No Green Pass, gioca molto il ruolo dei sindacati nel nostro paese e il loro peso nei rapporti di forza attuali della nostro società. Quali potrebbero essere le linee d’azione del mondo sindacale nella fase presente, considerando anche il crescente protagonismo di realtà di base e autorganizzate?
Quello che dite è solo in parte vero. Sia nel sindacato che tra i Cobas si è fatta luce ormai la consapevolezza che intrupparsi nelle manifestazioni contro il Green Pass si rischia solo di farsi male. Pensare di prenderle in mano è ancora più illusorio che pensare di servirsene. Sono manifestazioni dove la forma sindacale non ci entra dentro, perché rappresentano una composizione di classe che rifiuta tratti identitari, ideologici, culturali, comportamentali e dunque anche o soprattutto di classe.
Io penso che la lotta sindacale e il problema della rappresentanza degli interessi, la presa di coscienza dell’espropriazione o della negazione di certi diritti siano sull’agenda dell’agire collettivo ormai da parecchio tempo. In Italia la conflittualità determinata da situazioni lavorative è a livelli alti ormai da parecchi anni, i processi di ricomposizione sono evidenti. Proprio nel settore del lavoro autonomo e delle professioni la pandemia ha visto un salto in avanti notevole. Una realtà come Acta, per esempio, ne sta beneficiando e per la prima volta si riempie di giovani. E come potrebbe essere altrimenti quando ti trovi di fronte a politiche industriali inesistenti o catastrofiche (basti pensare all’operazione Stellantis), a un dilagare della gig economy, a una mancanza di minimi salariali di legge? È ora però di far pesare questi numeri anche sul piano dell’amministrazione del bene pubblico.
Non è possibile che ci sia un alto grado di conflittualità (che implica sempre un grado di riflessione alternativa sull’ordine sociale) e quando si tratta di gestire risorse pubbliche a mettersi in fila per acchiapparle ci siano i soliti zombi. E ti ritrovi poi con dei servizi pubblici a livello locale gestiti in subappalto, al massimo ribasso, dove scorrazzano caporali di ogni risma. O si comincia a trovare dei legami tra lotte sindacali e lotte per il bene pubblico o rischiamo di buttare a mare un grande potenziale d’innovazione. Credo che l’esperienza e l’esempio del movimento di lotta per la salute qualche spunto anche su questo ce lo possa dare (si pensi solo al tema delle deontologie professionali, tanto per riportare il discorso alle professioni). Ed è proprio qui che si scopre tutto la falsità del definirsi “apartitici”. Non m’interessa sapere se uno vota o non vota, se uno considera i partiti una banda di parassiti e le elezioni un imbroglio legalizzato. M’interessa sapere se accetta l’idea di servizio pubblico o no (e magari se ha una pallida idea di come dovrebbe funzionare).
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