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17/10/2021

La guerra che verrà

“Una nuova guerra al terrorismo se sarà necessario”; questa l’espressione che ha utilizzato a margine dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il ministro degli Esteri italiano Luigi Di Maio qualche settimana fa.

L’ha definita una fra le priorità che l’Italia ha messo in agenda e che rientra negli impegni che il nostro paese ha preso, quando ha accettato di contribuire alla difesa dei diritti umani in Afghanistan, dopo l’abbandono delle truppe statunitensi.

E negli ultimi giorni, dopo i continui attentati, l’ipotesi che prima o poi si dovrà di nuovo “intervenire” in Afghanistan, si fa sempre più realistica.

Sugli attori si accettano scommesse.

Con un balzo indietro nel tempo sembra di essere tornati a venti anni fa, a riparlare della vecchia ricetta di inizio secolo, conseguenza dell’attacco alle Torri Gemelle: l’esportazione della “pace duratura”.

Il focus necessariamente si sposta su quale tipo di intervento militare sarà messo in pratica.

Senza dubbio verranno utilizzati processi più moderni, alla luce dei progressi fatti nel settore bellico ed in special modo nella tecnologia militare, innovata negli anni a favore di strumenti sempre più sofisticati, atti ad evitare il più possibile le perdite di interventi “boots on the ground”, a meno che non siano ritenuti strettamente necessari.

Il vecchio modo di “fare guerra” continua a cambiare sensibilmente e le tecnologie che vengono utilizzate sono sempre più “disumanizzate” e “meno militari” nel senso stretto del termine: non si tratta più solo di guerra cibernetica, ma anche di metodi dissuasivi, come la manipolazione dei mercati finanziari o l’attacco normativo alle catene di fornitura strategiche (pensiamo alle terre rare, al litio o al cobalto, minerali vitali in ambito di industria civile o militare).

Quali saranno gli scenari prossimi venturi non è difficile immaginarlo. Ormai le necessità hanno aggiunto qualcosa al vecchio panorama.

I conflitti, armati e non, da diverso tempo non si risolvono più solo per terra, cielo o mare, ma anche nello spazio e oltre, fino al cyberspazio.

I teatri di battaglia sono divenuti almeno cinque e per muoversi con facilità in questi scenari, la necessità di avere tutti i dati (i Big Data, ma in versione militare) che riguardano ciascun ambito diventa il sogno di ogni stratega, e di conseguenza di ogni governo.

Gli Usa ci stanno provando da tempo, ma come vedremo più avanti stanno avendo la peggio di fronte ai progressi che stanno facendo Russia o Cina.

Archiviato il Progetto Jedi [1], che prevedeva una sorta di cloud militare e aveva visto Microsoft uscire a testa alta dalla fase di selezione nell’ottobre 2019, in questi ultimi anni gli Stati Uniti stanno sviluppando il JADC2 [2] (dove il due sta per Comando e Controllo).

Il Comando è il livello primario di ciascuno scenario ed il Controllo il secondario.

Consideriamo allora di avere sotto un’unica consolle i dati che provengono da questi cinque terreni di battaglia frammentati e aggregati in grappoli per piano di battaglia, intelligence operativa, logistica, comunicazioni, operazioni tattiche etc.

Il tutto fornito non solo dalle unità biologiche sul campo – i soldati in carne ed ossa – ma anche da unità a base di silicio, dai droni, sino alle “unità di acquisizione dati” agganciate come moduli aggiuntivi a unità militari (carri armati, aerei etc.).

Questi dati ovviamente, dopo essere stati acquisiti, vanno valutati e il compito lo si deve necessariamente delegare ad una AI, se si vuole risparmiare tempo. Una volta ciascun campo si evolveva in settimane, ora i processi si sono velocizzati e si parla non di giorni né ore, ma addirittura di minuti.

Solo soluzioni di calcolo avanzate, sostengono i vertici militari, possono compensare questo sbilanciamento temporale. In pratica, a fronte di un massivo aumento di dati da processare dai cinque scenari primari e secondari, è auspicabile un aumento di capacità di calcolo.

Nel frattempo la tecnologia ha ridotto l’utilizzo di esseri umani sul campo di battaglia perché, soprattutto per i “governi democratici”, il costo di vite umane è sempre più un tema politicamente caldo.

Negli ultimi decenni abbiamo assistito ad un’evoluzione della “democrazia dei droni”: l’impiego, anche da parte di potenze un poco a corto di risorse economiche, di unità militari a controllo remoto, la cui distruzione sul campo di battaglia non ha alcun impatto sull’umore dei cittadini elettori, è andato crescendo esponenzialmente ed in modo estremamente veloce.

Ma si continuano a fare progressi: l’industria militare, ormai da un po’ di tempo, sta investendo nel mondo delle proto AI (algoritmi più o meno evoluti, spesso rinominati low AI, quindi intelligenze artificiali di basso profilo, per così dire limitate).

Quasi tutte le armi più innovative e tecnologiche sviluppate dalle grandi potenze ne sono oramai provviste.

Fortunatamente, come già accennato in altri articoli, non siamo ancora entrati nell’epoca dei robot killer, che decidono da soli, sfruttando il deep learning, se e quando colpire il nemico.

Per il momento, tutti gli eserciti occidentali prevedono che sia sempre un essere umano a dare il comando di fare fuoco, anche per evitare incidenti causati dagli inevitabili errori di strumenti che non sempre sono precisi e che possono facilmente essere ingannati.

Come verificato dall’uso di questi dispositivi in Iraq e Afghanistan, anche gli “umani” sono diventati però piuttosto “automatici” quando si tratta di sparare su bersagli non chiari a migliaia di chilometri di distanza. E i “danni collaterali” provocati da questi “combattenti da tastiera”, ossia le stragi di civili, sono aumentati invece di diminuire.

Un modulo da combattimento che grazie all’intelligenza artificiale, è in grado di identificare e colpire i bersagli in autonomia però esiste già: lo aveva progettato Michail Kalašnikov (l’inventore di armi russo celebre per i suoi AK-47). Il robot includerà una mitragliatrice da 7,62 millimetri dotata di telecamera, collegata a sua volta a un sistema informatico; quest’arma (presentata all’ultima expo del settore a Mosca) può fare fuoco anche senza essere controllata da alcun essere umano.

In che modo utilizzarla diventa solo un problema “etico”.

Il timore che eserciti irregolari o nazioni meno rispettose delle convenzioni internazionali decidano di impiegare questi sistemi autonomi per guadagnare in rapidità, senza tenere troppo conto dell’efficacia e dei danni collaterali, non è questione di secondo piano.

Lo scenario mondiale rivela dei dati rilevanti, ma che mettono in dubbio le aspettative più “classiche": secondo analisti di settore, gli Stati Uniti starebbero nuovamente sbagliando il loro approccio alla guerra e alle innovazioni in campo bellico, consentendo ad attori come Cina e Russia di ridurre gradualmente il divario che ancora li separa dalla superpotenza americana.

Secondo la rivista Foreign Affairs “il modello tradizionale del potere militare Usa sta venendo travolto, nello stesso modo in cui il modello di business di Blockbuster è stato travolto dall’ascesa di Amazon e Netflix.

Una forza militare che consiste in un piccolo numero di sistemi costosi e difficili da sostituire non potrà sopravvivere sui campi di battaglia del futuro, dove sciami di macchine intelligenti agiranno con un volume di fuoco e una velocità superiore a quanto si sia mai visto”
.

Non si tratta di progetti avveniristici, ma di realtà già in attività. Dal 2018 è per esempio in funzione il Long Range Anti-Ship Missile o LRASM [3], sviluppato dalla statunitense Lockheed Martin e in grado – secondo quanto scrive l’accademico Mark Gubrud su Spectrum, rivista specializzata dell’Institute of Electrical and Electronic Engineers“di inseguire gli obiettivi, facendo affidamento solo sul suo software per distinguere le navi nemiche da quelle civili e di operare in maniera completamente autonoma, anche attaccando con forza letale”.

Non sono soltanto gli Stati Uniti – che per le le autonomous weapons hanno stanziato un budget di 3,7 miliardi di dollari – a sviluppare al momento armi di questo tipo.

Israele ha messo a punto IAI Harpy, un drone armato in grado di riconoscere da solo i radar nemici e distruggerli; mentre il Sgr-A1 di Samsung è un vero e proprio robot statico dotato di mitragliatrice, utilizzato dalla Corea del Sud nei 4 chilometri di zona demilitarizzata che la divide dalla Corea del Nord.

Con l’avvento delle armi tecnologicamente avanzate e autonome ci troviamo di fronte alla terza rivoluzione militare, dopo quella della polvere da sparo e del nucleare.

Nonostante questo, ci sono altri aspetti fondamentali che attengono specificamente al campo di battaglia.

Secondo un report di The Economist, “Le battaglie saranno sempre più combattute negli ambienti urbani, se non altro perché entro il 2040 due terzi della popolazione mondiale vivrà in città”.

“La guerriglia urbana ad alta intensità, come si è visto nelle battaglie di Aleppo e Mosul, rimarrà logorante e indiscriminata, e continuerà a presentare grandi difficoltà per le forze d’intervento occidentali. La tecnologia cambierà la guerra nelle città come qualunque altra forma bellica, ma sempre di più si dovrà combattere quartiere per quartiere”.

Con il rischio che le vittime innocenti, invece di diminuire grazie all’impiego delle cosiddette “armi di precisione”, continuino ad aumentare.

Trattando un aspetto destinato a determinare il futuro non della guerra, ma del pianeta, prosegue The Economist “sia la Russia che la Cina sembrano sempre meno disposte ad accettare il dominio internazionale degli Stati Uniti, dato per scontato negli ultimi vent’anni”.

“Entrambe hanno tutto l’interesse a mettere in discussione l’attuale ordine internazionale dominato dagli Usa ed entrambe hanno recentemente mostrato di essere pronte ad applicare la forza militare per difendere quelli che considerano i loro legittimi interessi”.

Alla luce della crisi nell’indo-pacifico e di quella in Asia Centrale, le parole del ministro Di Maio suonano perciò particolarmente sinistre.

Note

[1] Acronimo di Joint Enterprise Defense Infrastructure. L’idea di creare un’intera infrastruttura digitale che colleghi la logistica fino all’ultimo soldato sul campo di battaglia. Una sorta d’industria 4.0 in versione militare.

[2] Acronimo di Joint All-Domain Command & Control (JADC2) connects distributed sensors, shooters and data from and in all domains to all forces to enable distributed mission command at the scale, tempo, and level to accomplish commander’s intent — agnostic to domains, platforms, and functional lanes.

[3] LRASM è un missile da crociera antinave furtivo sviluppato per l’United States Air Force e la Marina degli Stati Uniti dalla Defense Advanced Research Projects Agency.

Fonte

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