I just wanted to be one of The Strokes (Alex Turner)Retromania è il termine azzeccatissimo e adeguatamente un po’ fashion che il geniale critico inglese Simon Reynolds – uno che di nomenclature rock, poi diventate di uso comune, ne ha coniate un discreto gruzzolo – ha trovato per indicare la tendenza degli anni 00, in musica e in costume, di fagocitare il passato e risputarlo fuori rinnovato. Se oggi la retromania è un animale imbizzarrito che sfugge a ogni regola, moda e catalogazione, che si agita in ogni direzione, divenuto però incapace di segnare il suo tempo, all’inizio del millennio i suoi tempi li ha cambiati eccome. Basti pensare a tutto quello che per un buon decennio abbiamo chiamato indie-rock, riconoscendolo come tale, che altro non era però che la sfavillante ricucitura su misura dei nuovi alternativi di mode musicali vecchie decenni.
Si può affermare senza temere di esagerare, che il disco con cui tutto è iniziato, perlomeno a livello midstream sia proprio “Is This It” degli Strokes. Forse soltanto un altro disco ha avuto una portata simile, ossia “Turn On The Bright Lights” degli Interpol, uscito l’anno successivo e decisamente virato su atmosfere più dark. La portata dell’esordio degli Strokes è però maggiore. Non soltanto ha preparato il campo a una nidiata di decine e decine di band dai simili propositi, da una parte dell’oceano e dall’altra, ma ha anche riportato il rock al centro della pop culture e della moda. È colpa degli Strokes se un’intera generazione di indie kid ha indossato chiodi di pelle, magliette a strisce orizzontali e skinny jeans. Un’estetica curatissima, la cui genesi ed evoluzione assume talvolta riscontri da capogiro grazie al frontman Julian Casablancas, figlio di John, imprenditore newyorkese di origini spagnole, fondatore con Alan Kittler della Elite Model Management, società al centro delle passerelle che contano con oltre 2000 modelle tra Parigi, Milano, Londra e ovviamente New York, e di Jeanette Christensen, ex-Miss Danimarca nel 1965. Un figlio d’arte, insomma. Ma soprattutto un prodigio. E non solo al microfono e in sede di scrittura e composizione, ma anche intrigante visual e de facto stilista della band.
Negli anni 00 gli Strokes erano ovunque, dai palchi dei migliori festival del mondo alle pagine di Vogue, invadevano il jet set come le testate di gossip. Il successo non fu tuttavia istantaneo, “Is This It” non fu infatti un bestseller immediato, specie negli Stati Uniti, ma grazie anche alla strategia di Rca di distribuirlo gradualmente in giro per il mondo, con tanto di tour paralleli, infettò il globo gradualmente, generando proseliti praticamente ovunque. Alex Turner degli Arctic Monkeys, non esattamente uno qualunque, avrebbe cantato “I Justed Wanted To Be One Of The Strokes” (“Star Treatment”) incorniciando alla perfezione la portata generazionale della band.
Formatisi come trio nel 1998, gli Strokes erano tutt’altro che dei prototipi di rockstar, anzi. Erano invece i figli di una New York trendy e irresistibile, dal fascino ambiguo e deviato. Basti pensare al sopracitato Julian. Un figlio di papà vissuto nel lusso e finito in rehab per abuso di alcol e sostanze stupefacenti a soli 15 anni. E non sono da meno l’amico di infanzia Nikolai Fraiture (basso) e Albert Hammond Jr. (chitarra), entrambi suoi compagni di scuola in un prestigioso collegio svizzero (l’istituto Le Rosey). Completano la line-up il secondo chitarrista Nick Valensi e il batterista di origini brasiliane Fabrizio Moretti. Cinque campioni di coolness oltre che musicofagi compulsivi sin da quando erano in fasce.
Cambiare tutto inventando nulla. È questa la formula semplice ed efficace di “Is This It”. Unire i punti di stili che attraversano decenni, con baricentro unico e indiscutibile la loro meravigliosa New York, al solito un po’ mamma, un po’ amica, un po’ amante e un po’ puttana. Gli irresistibili groove scheletrici dei Velvet Underground, la rivoluzione cazzona dei Ramones e gli affilati intrecci chitarristici dei Television. È questa la ricetta alla base della “rivoluzione”. Una rilettura personalizzata dall’ugola sorniona e volutamente sbandata di Casablancas. Un modo di cantare e intonare strofe, il suo, praticamente unico nel suo genere. Si potrebbe pensare, giusto per rendere felici i più fantasiosi, a un ibrido birichino tra Alan Vega e David Yow. Dunque rock’n’roll acido e conturbante. Ma anche secchiate di garage e la new wave più cazzuta.
Il leggendario Cbgb come stella polare e via, verso ettolitri di alcol e fan in delirio: “The Modern Age” grida Velvet Undergound in ognuna delle sue parti, dalla batteria à-la Maureen Tucker ai ga-ga-ga-ga di Casablancas; mentre la ciondolante e sguaiata “New York City Cops” è praticamente un classico garage degli anni 00, con tanto di esclusione dalla versione americana del disco grazie agli smargiassi versi, ripetuti ancora e ancora, “New York City Cops/Ain’t too smart”. Mutazione nella versione statunitense a "When It Started" per la suddetta frase del ritornello ritenuta potenzialmente offensiva nei confronti dei poliziotti della città, ovviamente all'epoca ancora sotto shock per i fatti dell’11 settembre.
Oltre alla grandezza della tracklist, che non conosce punti deboli, la forza del disco è nella sua cruda, ruvida secchezza. Inizialmente affidata alle cure di Gil Norton, che tra le tante cose ha prodotto i Pixies, tuttavia, la prima produzione dell’album parve a Casablancas troppo laccata, addirittura pretenziosa. Mostrando una determinazione e una faccia tosta rari in una band all’esordio, i cinque licenziarono il produttore e cestinarono tutto quanto avevano registrato coni Norton, scegliendo il ben meno noto Gordon Raphael.
Stabilitisi nel malconcio scantinato del Transporterraum di Manhattan, i musicisti e il produttore dettero così vita alle 11 tracce di “Is This It”, seguendo una regola sulla quale tutti erano d’accordo: no tricks. Non solo la musica fu registrata rifiutando trucchetti di produzione e infarinature varie, ma anche all’insegna dell’essenzialità. Già, perché “Is This It” non contiene una nota in più di quante ne necessitino. Non si ricorre a effettistiche eccessivamente marcate. Tutto suona il più reale possibile. Tutto è all’insegna di un edonismo naif. Una formula studiata a tavolino ma allo stesso tempo istintiva. Ed è forse in questo paradosso di fondo che nasce l’alchimia Strokes. Il segreto del loro successo è tutto qui. Ma non solo. La maestria tecnica di Albert Hammond Jr. è oggettivamente lampante. “Is This It” contiene quindi undici diamanti “grezzi”. Forse l’unico brano che appare un filo più processato, più che altro grazie alla propulsione della drum machine, è la sfavillante “Hard To Explain”, una brillante hit in scia dei memorabili Cars.
New York non è soltanto un punto di riferimento estetico-musicale per gli Strokes, ma anche il cuore pulsante dei testi del disco, tutti incentrati sulla cosiddetta urban youth. Frenesia, luci abbaglianti, vicoli oscuri, sensualità, eccessi, mode e stravaganze, difficoltà a interfacciarsi col prossimo, instabilità relazionali: l’efficacia del messaggio arriva fortissima, ancora una volta grazie all’intonazione versatile, ora lamentosa ora stridente e arrembante di Casablancas.
Julian sembra finito al microfono per caso, ci parla in prima persona. Di un amico o di una ragazza, dei suoi propositi, di come li ha mandati a puttane. Ci parla a tu per tu, come se fossimo al bar tracannando cocktail, come conoscessimo di chi diamine sta parlando. È teatrante e commediante. Chansonnier e brigante. Di certo un genio narrativo. Un personaggio tarantiniano. Uno di quelli che salterebbero la fila semplicemente azionando la lingua. Un prestigiatore, ma anche un domatore di serpenti. Demoni conosciuti troppo in fretta, quelli di Julian, e che rimbombano tra uno slang e l’altro. L’effetto è trascinante e spesso ti fa sembrare di essere lì, in una festa nell’Upper East Side, passeggiando in autunno a Central Park o facendo shopping tra le vetrine scintillanti della Quinta Strada.
Per un’ambigua “Barely Legal” che immagina i pensieri di una ragazza che ha appena raggiunto l’età del consenso, abbiamo dunque una scatarrata sulla difficoltà di intrattenere relazioni normali, la succitata “Modern Age”. C’è poi “Soma”, che ruba il nome alla droga immaginaria di Aldous Huxley (da “Brave New World”) per parlarci dell’uso di sostanze stupefacenti e sentirsi a proprio agio in una folla modaiola alla quale non ci si sente adeguati. Meravigliosa e potente è qui la ripidissima frana di chitarre à-la Television costruita dal duo Hammond Jr./Valensi.
Abbiamo soprattutto però l’inno generazionale “Last Nite”, nient’altro che il racconto di una serata no, ritmato da una batteria upbeat e da un basso guizzante che ha fatto scuola. Niente di speciale, vero? Ma chi può non immedesimarvisi? Chi avrebbe il coraggio di uscire dalla festa? Nessuno, specie se ci sono in mezzo un paio di fendenti di chitarra semplicemente perfetti e un ritornello gracchiato il giusto che strilla dell’incomprensione imperante tra i giovani. Nessuno capisce nessuno, “They Don’t Understand”, “They Can’t Understand”: tua mamma, la tua ragazza, tuo nonno e i tuoi nipoti. Nemmeno gli alieni dall’alto di un’astronave. Niente è comprensibile e per di più le parole sembrano intavolare discorsi che seguono traiettorie meno afferrabili della danza caotica del celebre sacchetto di plastica mosso dal vento in “American Beauty“ e che permette a Ricky di intravedere l‘agognato ordine superiore. La patafisica degli Strokes è dunque servita.
Un’altra cascata di sensualità arriva invece con “Alone, Together”, che sciorina dritte su un buon cunnilingus in una geometrica selva di chitarre frenetiche e taglienti. Il sesso nella sua necessaria ambiguità permea difatti l’intero disco sin dall’iconica copertina, anche questa censurata nella versione americana che invece raffigura il Big Bang, ossia un particolare della collisione di particelle effettuata nell'acceleratore di particelle del Cern. Ma per quella europea, per fortuna, è rimasta fedele all’originale, parliamo del fondoschiena più famoso dell’indie rock, quello della fidanzata del fotografo Colin Lane, appena uscita dalla doccia e con un ammiccante guanto di latex adagiato sulle natiche.
L’unica concessione a ritmiche e suoni più rilassati, ma comunque incalzanti, arriva con “Someday”, brano soavemente musicale, in cui Casablancas narra i suoi buoni propositi per una relazione barcamenandosi tra un cantato tra i denti e un falsetto morbidissimo. È l’ennesimo di una serie di registri coinvolgenti che mantengono la promessa del moniker della band, ossia i colpi: ora forti come una scudisciata e ora morbidi come una carezza guantata.
“Take It Or Leave It” è la chiosa definitiva. Sia per il riff ormai inconfondibile del gruppo che per il cambio di ritmo. Ma in particolare per le parole, mai così dissacranti, pungenti. Una sorta di live and let die aggiornato alle smanie erotiche dei Duemila. Il proclama ultimo di un esordio che farà epoca e a cui seguirà due anni dopo l’altrettanto totalizzante “Room On Fire”, disco contenente nuovi inni generazionali come l’irraggiungibile “Reptilia”, prima che Casablancas comincerà a saltare da un gruppo all’altro, in cerca di una redenzione perpetua e di nuove formule magiche, senza tuttavia mai abbandonare la nave madre. Che Dio benedica gli Strokes. In sæcula sæculorum.
Leave me aloneFonte
I'm in control, I'm in control
And girls act too much and boys act too tough
Enough is enough
Well, on the minds of other men, I know she was
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