La Tristezza del post-operaismo è un articolo scritto da David Graeber è contenuto nel libro, pubblicato da Manni, La rivoluzione che viene.
Il libro contiene diversi articoli, ma quello sull’operaismo italiano, anzi su 3 autorevoli membri e un mezzo di questa storia (Bifo, Negri, Revel e Lazzarato), è davvero curioso e pieno di sorprese.
Intanto, perché ci fa vedere con gli occhi di un americano un mondo e certi personaggi che da bambini abbiamo visto al telegiornale presentati come gente capace di prendere i lupi a calci nel culo. Poi perché ci dice che fuori dall’Italia certi scrittori nostrani hanno non solo un discreto pubblico, ma godono di una certa venerazione, manco fossero delle Rock Star.
Dopo il ’68, dice Graeber, i pensatori radicali misero in discussione i nodi del sistema di pensiero occidentale, (un po’ come aveva fatto il dadaismo) fino a proclamare «la morte dell’Uomo, della Verità, della Società, della Ragione, della Dialettica, persino della Morte stessa».
Ma nel giro di un decennio le posizioni radicali possibili nell’ambito della grande tradizione della filosofia post-cartesiana sono state fondamentalmente esaurite. Il momento eroico era finito. Soprattutto, è diventato sempre più difficile partire dal presupposto che gli atti eroici di sovversione epistemologica fossero rivoluzionari, o comunque particolarmente sovversivi in campo sociale. I loro effetti sono diventati, semmai, depoliticizzanti.
Come l’esperimento formale dell’avanguardia si è adattato perfettamente ad abbellire le abitazioni dei banchieri conservatori, e il montaggio surrealista si è prestato a divenire il linguaggio dell’industria pubblicitaria, così la teoria post-strutturalista si è dimostrata la filosofia perfetta per accademici auto-compiaciuti e senza nessun coinvolgimento politico.
«Se non altro», dice Graeber, «questo spiegherebbe la cifra ossessivo-compulsiva del costante ritorno a simili momenti eroici. Si tratta di una sottile forma di conservatorismo, una nostalgia per i tempi in cui era possibile indossare un vestito di carta stagnola, urlare un verso senza senso, e osservare come un pubblico di placidi borghesi divenisse una folla inferocita.»
Questo tentativo di liberazione è stato fortemente depoliticizzante, e averlo riproposto in tempi recenti ha significato un grosso passo indietro.
Si possono fare molte obiezioni a questa analisi di Graeber. Ma la migliore la fornisce lo stesso Graeber, quando racconta di quella volta che venne regalata una macchina ad un gruppo di agitatori anarchici di New York.
La macchina diventò un problema grosso. Non c’era modo di gestirla. Il gruppo era disorganizzato – anarchico, appunto! – non aveva una personalità giuridica, e quindi non poteva intestarsi una macchina, o sottoscrivere un’assicurazione. Diventarlo avrebbe significato avere un codice, un nome, e dunque essere identificabili.
La macchina non poteva essere intestata neanche ad uno dei membri del gruppo, perché anche in questo caso non poteva essere usata da altri senza deleghe, carte di identità, e tutto l’armamentario di uno stato di polizia.
Non c’era verso di uscire dall’impasse senza declinare l’offerta, senza rifiutare l’affare e ritirarsi, per così dire, dal mondo.
I post-operaisti hanno trovato, a modo loro, un modo di stare nel mondo, un modo di stare sulla cresta dell’onda, che è un modo tutto italiano di interpretare il teleologismo borghese.
Un modo non molto dissimile da quello trovato dagli anarchici di Occupy Wall Street. Mentre i primi hanno persino messo a repentaglio la loro stessa vita per il desiderio quasi morboso del nuovo, del difficile, del proibito, e spesso dello scandalo – ricordiamo tutti quel passo di Dominio e Sabotaggio, dove Negri si squaglia alla sola idea di calarsi il passamontagna; i secondi, come Stirner, hanno finito per inciampare sull’identità – un’identità negata che non fa che ritornare anche nella negazione.
Insomma, entrambi i gruppi, con in testa la rivoluzione, perdono di vista le piccole cose del mondo, la vita spicciola del popolo minuto. Per entrambi vale ancora quel motto di Saint-Just dove forse ha un peso determinante proprio quell’inutile «forse» caduto a caso in mezzo alla frase: «La forza delle cose ci porta forse a risultati che non avevamo previsto».
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