di Gioacchino Toni
Ricostruire sui ruderi di un esperimento fallito ripetendo gli stessi errori
«Questo videogioco [Days Gone] racconta la storia di un operaio assediato dalle forze della globalizzazione, un soggetto in larga parte ignorato dalle forze politiche tradizionali. Un soggetto diffidente delle istituzioni, arrabbiato e impaziente. Un soggetto che prova nostalgia per un’immagine dell’America come terra di opportunità, una terra promessa costruita sui valori dell’espansionismo e della colonizzazione, sul mito della frontiera». In Days Gone i panorami americani vengono rappresentati «attraverso una visione di mondo antropocentrica ed estrattiva, per cui la natura è concepita unicamente come una serie di risorse da sfruttare, come un diritto inalienabile e indiscutibile. I giocatori si muovono tra le rovine dell’America, costruendo una nuova nazione sui ruderi di ciò che potremmo definire un esperimento fallito: anche se il gioco non lo esplicita, sono condannati a ripetere gli stessi errori» (pp. 251-252).
Così, in estrema sintesi, viene descritto il videogioco Days Gone (2019) – sviluppato da SIE Bend Studio e pubblicato da Sony Interactive Entertainment – da Soraya Murray, L’America è morta, viva l’America. L’affettività politica in Days Gone1, in Matteo Bittanti (a cura di), Reset. Politica e videogochi (Mimesis, 2023) [su Carmilla].
Days Gone è un action-adventure open world in terza persona con caratteristiche tipiche del survival horror ambientato nelle zone rurali dell’Oregon, in un’America post-apocalittica, in cui imperversa un’alterità radicale, il freaker, un essere mostruoso geneticamente modificato simile alla figura dello zombie contemporaneo. Il giocatore è tenuto a identificarsi con Deacon St. John, ex-militare bianco, che vagabonda disilluso a cavallo della sua motocicletta tra le rovine di una società piombata in una guerra civile che contrappone le stesse piccole comunità separatiste che si sono venute a creare dopo l’apocalisse che ha dilaniato il Paese a stelle e strisce.
Il protagonista/giocatore è costretto a fare i conti non soltanto con i temibili freaker e con feroci animali selvatici, ma anche – analogamente a quanto avviene nella serie televisiva The Walking Dead (dal 2010) ideata da Frank Darabont, tratta dai fumetti (dal 2003) di Robert Kirkman [su Carmilla 1 2] – con le diverse fazioni di sopravvissuti contraddistinte da specifiche caratteristiche valoriali che spaziano dall’ideologia libertaria (nell’accezione americana anarcocapitalista) al fondamentalismo religioso, dal militarismo fortemente gerarchizzato alla logica concentrazionaria, ecc. Insomma, l’universo messo in scena da Days Gone è caratterizzato dal conflitto pervasivo, dall’inimicizia e da una violenza generalizzata e se per sopravvivere qualche forma di collaborazione reciproca si rende necessaria, occorre però far affidamento sulla diffidenza nei confronti di tutto e tutti.
Se in altra sede Soraya Murray si è preoccupata di interpretare in chiave ideologica la logica di rappresentazione del videogioco2, in questo saggio ha preferito indagarlo nella sua dimensione affettiva espressa da una peculiare esperienza estetica, in quanto convinta che è proprio nello spazio emotivo che, per usare le parole di Jennifer Doyle, “gli effetti devastanti dell’ideologia diventano particolarmente evidenti”3. Secondo Murray «Days Gone esprime in forma estetica una svolta ideologica: dall’espansione globale neoliberista alla spinta verso il nazionalismo e l’autosufficienza» (p. 221).
Alla studiosa «interessa comprendere come l’attraversamento spaziale e la temporalità degli ambienti simulati contribuiscono al portato affettivo complessivo del videogioco [e] come l’atmosfera stessa del videogioco possa comunicare particolari stati d’animo attraverso l’organizzazione dello spazio virtuale» (p. 222). Secondo Murray l’analisi di Days Gone aiuta a comprendere meglio l’ansia diffusa che permea il contesto socio-politico statunitense.
Nel videogioco il collasso sociale ed economico degli Stati Uniti è stato causato da un contagio, tema ricorrente in numerose opere cinematografiche recenti4, in questo caso diffuso involontariamente da Sarah, la moglie del protagonista, costretta pertanto a essere perseguitata dal senso di colpa e a cercare una soluzione scientifica al disastro che ha maldestramente causato. Il videogioco, però, sostiene Murray, più che sul misogino stereotipo dell’incoscienza femminile muove accuse anti-governative e anti-scientifiche: politica e scienza, insomma, sono considerati i veri responsabili del disastro apocalittico.
Murray sottolinea come se da un lato Days Gone, al pari di molti videogame, permette una certa customizzazione dei dettagli, dall’altro propone l’immedesimazione in un personaggio decisamente strutturato degli elaboratori del gioco caratterizzato dai cliché del maschio bianco tradizionalista e normativo incarnante i valori dell’intraprendenza, della forza e della durezza emotiva, reduce di guerra senza aver ricevuto per i sui servigi alla nazione un adeguato riconoscimento.
L’appeal ideologico di Days Gone, secondo la studiosa, si rifà allo stato d’animo rancoroso diffusosi negli Stati Uniti a partire dall’elezione del presidente Barack Obama del 2012 – soprattutto tra i bianchi della classe operaia e della middle class impoverita – in risposta al percepito decadimento dell’America tradizionale. Tale senso di frustrazione, di vittimizzazione del maschio bianco, ha determinato il «desiderio di “riprendersi” a tutti i costi la nazione, rendendola nuovamente grande» (p. 231) scemando facilmente in xenofobia nei confronti di tutte quelle forze aliene che assediano il Paese.
«Nel contesto della crescente polarizzazione tra l’Occidente e gli Altri, lo scenario survivalista attesta l’ansia diffusa di parte della popolazione che si sente vittima della globalizzazione» (pp. 231-232). Nel protagonista Deacon, così come in altri personaggi che popolano Days Gone, non è difficile vedere la «rappresentazione del bianco americano che si sente assediato e perseguitato» (p. 232), sebbene, sostiene Murray, non sia assimilabile alla classica figura del razzista o del suprematista bianco; in diverse occasioni egli disprezza i personaggi più marcatamente razzisti e intolleranti e non manca di allearsi con personaggi di colore con i quali, in alcuni casi, manifesta una qualche prossimità affettiva.
Come avviene in diversi film hollywoodiani post-apocalittici, anche in Days Gone spetta a un protagonista maschile bianco dare un ultima speranza all’umanità di ristabilire l’ordine dei tempi andati: se l’apocalisse è vista come evento che scombussola l’esistenza degli uomini bianchi, non può che spettare a questi il compito di risolvere la situazione. «Days Gone promuove l’idea che l’individuo è un agente libero e autonomo, che il capitalismo sopravviverà all’apocalisse e che lo sforzo umano individuale è più efficace dell’azione collettiva. Days Gone mostra come un soggetto forte possa adattarsi al panico e superare la crisi» (p. 236).
In termini di gameplay, l’intensità affettiva del videogioco alterna fasi di offesa (che prevedono l’eliminazione dell’Altro) e di difesa (sopravvivenza). Days Gone ci dice che il mondo è ostile, siamo soli, non possiamo contare su nessun altro al di fuori di noi stessi, dunque dobbiamo sopravvivere, sopravvivere, sopravvivere. Chi sopravvive? I fanatici delle armi da fuoco, gli ex soldati traumatizzati, i malvagi immorali senza scrupoli. Ci sono inoltre i “lavoratori essenziali”: meccanici, operai edili, carpentieri. In breve, uomini e donne della classe operaia che si sporcano le mani per garantire la sopravvivenza della civiltà, ma che sono sistematicamente sfruttati, sottovalutati e infine sacrificati (p. 236).
Donald Trump ha saputo sfruttare a proprio vantaggio tale immaginario insistendo nell’indicare nella globalizzazione la causa dell’erosione sociale della classe operaia e di quella media proletarizzatasi e prendendo costantemente le distanze dalla classe politica, contribuendo così alla sua delegittimazione.
Trump ha descritto gli Stati Uniti come una nazione inerte di fronte a legioni di criminali, spacciatori e stupratori provenienti dal Messico, disumanizzando gli immigrati con l’epiteto di “bestie”. Tra le soluzioni che ha proposto per arginare “la piaga”, spiccano le deportazioni di massa e la costruzione di un grande muro. Il “flusso” di cui parla può anche essere letto in relazione ai flussi globali di corpi, capitali e informazioni che caratterizzano la globalizzazione, un processo che produce manodopera a basso, anzi bassissimo costo, con la quale i lavoratori americani non possono competere (pp. 238-239).
Una parte importante dell’analisi di Murray riguarda il ruolo politico che viene ad avere il paesaggio in Days Gone. Nel videogioco il paesaggio viene presentato come un ambiente naturale e selvaggio invaso da una forza aliena che deve essere riconquistato, “ripulito dai nemici” al fine di ripristinare le “condizioni iniziali”.
La necessità di tale incombenza non è comunicata in forma verbale bensì spaziale, ovvero attraverso la messinscena di un territorio connotato come una risorsa limitata che appartiene di diritto a un gruppo specifico. In questo contesto, possiamo scorgere ovunque i detriti di una civiltà ormai perduta che tuttavia non si rassegna all’oblio. Laddove la società precedente era fondata sul consumismo, nel “nuovo mondo” il valore delle cose dipende dalla loro utilità pratica. Days Gone è strutturato sulla base di processi “naturali” legati ai comportamenti degli animali, degli infetti e delle persone. Tali comportamenti hanno un effetto diretto sulle azioni dei giocatori, sulle opportunità e sui risultati possibili nello spazio di gioco. […] L’ambiente simulato – che mostra un paesaggio tentacolare e maestoso, ricco di risorse, nella vibrante e grandiosa riproduzione del Pacifico nord-occidentale – promette una reinvenzione degli Stati Uniti come nuovo Eden, una fantasia di abbondanza, l’utopia della vita agreste (p. 248).
In conclusione, sostiene Murray, si può affermare che Days Gone comunica un messaggio autarchico e, pur non scemando nel complottismo, esprime una retorica anti-governativa, promuovendo «un’ideologia libertaria, basata sul primato del singolo rispetto alla collettività, e celebra la libertà personale come valore assoluto» (pp. 249-250). Non a caso sul piano narrativo tale videogioco può essere assimilato a un western in cui il protagonista, una sorta di fuorilegge, non rinuncia alla propria individualità, evita di unirsi in modo permanente con una delle fazioni in lotta e palesa una sorta di atavica diffidenza nei confronti di ogni iniziativa istituzionale: «Forte di una rappresentazione del paesaggio che segue il canone del sublime, combinata all’affetto politico anti-governativo e anti-scientifico, Days Gone mette in scena uno dei miti fondanti dell’America» (p. 250).
L’importanza di Days Gone, afferma la studiosa, «non risiede tanto nel suo messaggio politico, quanto nella capacità di veicolare una specifica affettività politica. […] Immergendosi per un lungo frangente temporale negli spazi di Days Gone, è possibile accedere all’intensità affettiva del sentimento politico che si è sviluppato negli Stati Uniti nel modo in cui si è sviluppato» (pp. 252-253).
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