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31/01/2023

Trainspotting (1996) di Danny Boyle

Te la do io la Cool Britannia. Ovvero, la storia di come quel guastafeste di Daniel Francis Boyle riuscì a distruggere l’immagine patinata e sorridente della nuova golden age britannica degli anni Novanta, consegnandone però ai posteri - forse inconsapevolmente - una delle icone più celebri. Un cortocircuito reso possibile da una particolare convergenza di circostanze e incastri cronologici. Nel 1996, infatti, il Regno Unito si stava avviando a un crocevia storico: dopo gli anni delle dure riforme economiche della Lady di Ferro Margaret Thatcher e la più grigia gestione conservatrice di John Major, l’astro nascente Tony Blair si accingeva a riportare il (New) Labour al numero 10 di Downing Street dopo 17 anni e a traghettare il paese nella modernità del Duemila, rimodellandone l’immagine anche attraverso un’abile operazione di marketing, cui contribuivano la rinascita musicale griffata britpop e un più complessivo fermento culturale e sociale. Una ritrovata vitalità che avrebbe portato all’utilizzo dell’espressione “Cool Britannia” per indicare proprio quel generale senso di euforia nazionale, particolarmente marcato tra le nuove generazioni. Un fenomeno in gran parte mediatico ma che oggi, dopo lo strappo doloroso della Brexit, non può non essere ricordato con struggente nostalgia.

Non era tutto oro quel che luccicava, però, e lo stesso britpop nelle sue pieghe più politiche l’aveva già ampiamente denunciato, con testi pungenti, grotteschi ma anche fortemente polemici, ben distanti dall’immaginario fracassone dei fratelli Gallagher o dalla spensieratezza dei Blur di “Girls & Boys”. Nessuno però aveva ancora osato tanto come Danny Boyle, il più anarchico e sfrontato esponente del nuovo cinema britannico, deciso a far sprofondare la coolness albionica in un baratro di degrado, idealmente simbolizzato dal “peggior cesso della Scozia” che farà chiudere gli occhi agli spettatori in una delle scene più disturbanti di “Trainspotting”.

“Io ho scelto di non scegliere la vita: ho scelto qualcos’altro. Le ragioni? Non ci sono ragioni. Chi ha bisogno di ragioni quando ha l’eroina?”

Choose life

Fin dal suo esordio dietro la macchina da presa, l’irresistibile noir grottesco “Piccoli omicidi tra amici”, Danny Boyle ha messo in campo la sua idea anarchica di cinema come “fuga dalla realtà” (anche letteralmente: la corsa è infatti un topos ricorrente nella sua filmografia). Figlio di emigranti irlandesi, rigidamente formato presso il collegio dei Salesiani di Bolton (al punto da subire persino la tentazione di prendere i voti), quindi spinto dagli studi presso la Bangor University ad assecondare la sua vena artistica sul palcoscenico fino a dirigere il Royal Court Theatre di Londra, il regista di Manchester persegue ossessivamente l’idea (quasi sempre illusoria) di un ribaltamento sociale, di una via d’uscita dalla società dei consumi e dai suoi asfissianti dogmi. Se nel debutto a offrirla era una prospettiva criminale (per caso), in “Trainspotting” è la più seducente e autodistruttiva delle realtà alternative: la droga, nella fattispecie l’eroina.

Questa volta però il canovaccio c’è già: l’omonimo romanzo di Irvine Welsh, cult generazionale che nel titolo allude all’abitudine di osservare i treni sfrecciare sui binari e darne notizia da una città all’altra, vizio perdigiorno che accomunata sbandati e ammalati di noia d’ogni angolo del Regno Unito. Dietro la stravaganza del titolo, si celano però le crude vicissitudini dei protagonisti: un gruppo di balordi eroinomani che si aggirano per la Edimburgo di fine anni Ottanta. Boyle scolpisce in modo memorabile i suoi protagonisti, a partire dall’ormai iconico Mark Renton (Ewan McGregor), il “frontman” del gruppo che è anche voce narrante del film e nel celebre monologo iniziale dichiara di aver scelto “una sincera e onesta tossicodipendenza” in quanto preferibile alla banalità di una vita socialmente accettabile; assieme a lui ci sono il viscido Sick Boy (Jonny Lee Miller), donnaiolo ossessionato da 007 e Sean Connery, il goffo e imbelle Spud (Ewen Bremmer), l’ingenuo Tommy (Kevin McKidd) che, pur resistendo a lungo al richiamo della droga, finirà col pagarne il prezzo più alto, così come Allison, ragazza madre con figlia di poco più di un anno. Vivono tutti di espedienti, di piccoli crimini per pagarsi le dosi, ad eccezione di Francis Begbie (Robert Carlyle) che però è il più pericoloso, con le sue tendenze violente e rissaiole. Sono tutti perdenti nati, proprio come la nazionale di calcio del loro paese, quella Scozia che odiano dal profondo perché “colonizzata dalle mezze seghe inglesi”.

Le loro esistenze al margine si consumano tra serate in discoteca, incontri sessuali e risse, tra droga, alcol, tentativi di disintossicazione e ricadute, con lo spettro dell’Aids che inizia a serpeggiare, in un percorso narrativo che ricalca più o meno fedelmente la struttura del romanzo, priva di linearità ma costruita su una serie di episodi in bilico tra dramma e ironia. Una struttura riadattata sapientemente dal taglia e cuci del fido sceneggiatore John Hodge, con la distaccata voce narrante a fungere da collante. Meno politica del romanzo, ma forse ancor più caustica e divertente – tra battute fulminanti e incidenti surreali (la videocassetta porno scambiata con quella dei migliori cento gol della storia del calcio!) - la riduzione filmica a cura del duo Hodge-Boyle convince Welsh, fino ad allora restio a concedere i diritti cinematografici del suo romanzo, temendone una trasposizione troppo realista e depressa, in stile “Christiane F.”, che ne avrebbe snaturato lo spirito. Welsh aveva anche intuito il potenziale commerciale del film, che pur con un risicato budget di 1,5 milioni di sterline, sarebbe diventato un blockbuster, con incasso globale di circa 72 milioni di dollari. Ringrazierà regalando anche un cameo da spacciatore.

Cinema punk

Impostando la pellicola come una sorta di biopic punk nel solco del “Sid & Nancy” di Alex Cox (con dinamiche di gruppo simili a quelle di una rock band), il regista di Manchester in sole 7 settimane e mezzo di riprese costruisce una parabola temporale che spazia da quel che resta dei turbolenti e glamorous 70’s agli strascichi della recessione e dell’era thatcheriana, per approdare nelle assordanti discoteche londinesi impasticcate di ecstasy dei primi anni Novanta.

Dopo la prima fase ambientata a Edimburgo (che nella realtà è Glasgow), dedicata a illustrare lo stile di vita del gruppo e le sue sciagurate conseguenze, la vicenda infatti si trasferisce assieme al suo protagonista nella capitale inglese, il cui stile di vita, scintillante ma spietato, è contrapposto al degrado della derelitta Scozia. Un eldorado ammiccante e illusorio, in cui l’auspicata redenzione si trasformerà in un tradimento (altro trait d’union con “Piccoli omicidi tra amici”) a dispetto di tutti i sensi di colpa.

Punk è anche lo stile di Boyle: nichilista e quasi amorale nel descrivere il brivido della cultura della droga (“Non volevamo fare un film depressivo, volevamo riflettere anche sul divertimento che la droga può dare, l’aspetto più scioccante del libro”, spiegherà), e spregiudicato anche dietro la macchina da presa, con i suoi virtuosismi da videoclip, i suoi ammiccamenti televisivi, la sua costante oscillazione tra iper-realismo (con una crudezza degna del Darren Aronofsky di “Requiem For A Dream”) e sequenze oniriche da allucinazione psichedelica, i suoi colori sgargianti e un montaggio sempre forsennato e implacabile. Uno stile artigianale, anche furbo e greve all’occorrenza, con tanto di ormai celebri derive scatologiche, ma sovversivo nel vero senso del termine. Forse troppo per la rigidità di alcuni critici che non riusciranno mai a metabolizzarlo e soprattutto a comprenderne la portata innovativa. Eppure potrebbe bastare un rapido elenco delle scene-cult del film per definirne la grandezza.

La prima, anzitutto. Il film si apre infatti con la celebre corsa a perdifiato di Renton e Spud inseguiti dalla polizia dopo un furto, sulle martellanti note di “Lust For Life” di Iggy Pop, mentre il protagonista declama il lungo monologo sulla sua “scelta di vita”. Due minuti da antologia che mettono subito in chiaro un altro dogma di Boyle: la pari dignità (se non prevalenza) delle musiche rispetto alle immagini. Una simbiosi totale, fin nei dettagli: “Ogni percussione in battere della sezione ritmica basso-batteria del brano corrisponde a un passo posato sull’asfalto, a un libro che cade dalle tasche rigonfie di tascabili appena rubati, allo scontro momentaneo con un passante che, urtato, esce di scena” (Luca Lombardini, “Brucia ragazzo brucia”).

Ma non meno memorabile è la scena dell’overdose di Renton, che sprofonda in un tappeto persiano cullato dalla struggente “Perfect Day” di Lou Reed, fino all’iniezione di adrenalina grazie alla quale rivedrà la luce, mentre scorrono profetici i versi “You’re going to reap just what you sow” (“Raccoglierai ciò che hai seminato”), con successiva e inevitabile crisi d’astinenza, ritratta in una stanza che si muove acuendo, assieme al rimbombo sonoro, il senso d’angoscia del protagonista, con riprese fin da dentro le lenzuola. E ancora la scena finale, con la trasfigurazione dell’espressione di Renton, dalla paura al sorriso, con il suo volto fuori fuoco accompagnato dal ritorno della voce fuoricampo, per un monologo surrealmente eguale e contrario a quello iniziale.

Sono tutti tasselli dell’approccio visuale di Boyle, vero illusionista dell’immagine che si diletta tra il dondolio della macchina a mano e improvvisi fermi fotogramma, in un costante gioco di manipolazione che mira a spiazzare lo spettatore. Ad esempio “posizionando la camera nella prospettiva di oggetti inanimati, quindi negando totalmente la possibilità di immedesimazione, con l’uso di lenti molto larghe o grandangoli che danno il senso di distorsione della realtà, con l’intenzione di svelare il gioco cinematografico e strizzare l’occhio allo spettatore che in questo caso non è più in relazione con il protagonista ma è cosciente del proprio ruolo e partecipe” (Gianluigi Perrone, “L’impero dei sensi”). È ciò che accade, ad esempio quando Renton guarda in camera in freeze frame alla fine della sua corsa. Un cinema fortemente “visivo” al quale contribuisce la fotografia suggestiva di Brian Tufano, ispirata alle opere di Francis Bacon in una sorta di via di mezzo tra realtà e fantasia.

Generazione Trainspotting

È un mix astuto ed efficacissimo ad avere reso “Trainspotting” un film generazionale. Una vera e propria operazione semiotica che mescola cinema, letteratura e musica in un unicum capace di fissarsi nell’immaginario collettivo per tanti anni a venire. Nel forgiare la sua idea di cult-movie, Boyle fa uso di un citazionismo quasi tarantiniano, a partire dal prediletto, “Arancia meccanica” di Stanley Kubrick, dal quale mutua diversi aspetti: dall’approccio grottesco (con continuo avvicendarsi dei registri drammatico e comico) all'accento sulle scene disturbanti, dalla critica sociale – che si esprime nella violenza per Alex e i drughi, nella droga per Renton & C. – all’idea del gruppo/gang come alternativa al disagio del nucleo familiare, fino al conclusivo riallineamento alle regole del sistema: per la nausea indotta dalla “Cura Ludovico” nel primo caso, per un conscio e cinico fatalismo nel secondo. C’era infine la comune esigenza di affrancarsi dalla matrice letteraria di partenza – il romanzo di Anthony Burgess per “A Clockwork Orange”, quello di Welsh per “Trainspotting” – puntando su una forte integrazione tra immagini e musiche. E, come detto, Boyle allestisce una colonna sonora a prova di bomba: uno scintillante juke-box intergenerazionale che spazia dai suddetti evergreen di Iggy Pop e Lou Reed ad altri classici firmati Brian Eno (“Deep Blue Day”), David Bowie (“Golden Years”), Blondie (“Atomic” nella cover degli Sleeper), Joy Division (“Atmosphere”), fino alle hit di alcune tra le principali band britanniche del periodo: dai Blur (“Sing”) ai Pulp (“Mile End”), dai Primal Scream (l’omonima “Trainspotting”) agli Elastica (“2:1”) fino alla techno-trance degli Underworld, con quella “Born Slippy” destinata a divenire uno dei tormentoni definitivi dei 90’s.

Ma il citazionismo non si esaurisce con il palese riferimento ad “Arancia Meccanica” (omaggiato anche nella scena della serata al Volcano, con sala identica a quella della prima sequenza del film di Kubrick, con tanto di dialoghi surreali che ricordano quelli di Alex e compari). Boyle cita anche “C'era una volta in America” (1984) di Sergio Leone (la scena in cui Spud trova i soldi nell'armadietto), nonché alcuni feticci musicali come i Clash del video di “Bankrobber” (1980) e i Beatles di “Abbey Road” (la scritta nelle casa del pusher “Madre Superiora” ripresa dal verso “Mother superior jump the gun” di “Happiness Is A Warm Gun”). Non a caso ai Beatles il regista inglese dedicherà il folle e nostalgico “Yesterday” (2019) immaginandosi cosa potrebbe succedere in un mondo (tristissimo) che non li avesse mai conosciuti.

Last but not least, Boyle indovina il cast, confermando il suo pupillo Ewan McGregor, destinato a divenire un divo di Hollywood (da “Moulin Rouge!” a “Star Wars”), e affiancandogli alcuni promettenti attori britannici del periodo, come Ewen Bremner (che aveva interpretato Renton in teatro e venne reclutato per la parte di Spud), Jonny Lee Miller (poi moderno Sherlock Holmes nella serie tv “Elementary”), Robert Carlyle, che spazierà da Ken Loach e “Full Monty” a 007, e una diciannovenne Kelly McDonald nei panni di Diane, girlfriend di Renton. Tutti si sarebbero affermati in seguito sfruttando l’enorme popolarità del film.

Così fuori dagli schermi e al tempo stesso umani, nel loro essere criminali per caso (e di mezza tacca), quei personaggi iconici daranno vita a un’istantanea di gruppo tra le più vivide e impietose del cinema britannico. Ne sarà un adeguato corrispettivo dieci anni dopo quella di “This Is England” (film e serie) scattata da Shane Meadows, indubbio allievo di Boyle per la sua capacità di scandagliare le sottoculture della gioventù scapestrata d’Albione tra desolazione proletaria e sfascio morale.

Secondo capitolo della sua “Bag of money trilogy”, dedicata agli effetti del denaro sulle persone, “Trainspotting” otterrà un successo mondiale capace di rivitalizzare un cinema d’oltremanica in piena crisi d'incassi, proiettando Boyle verso una mecca hollywoodiana tanto seducente quanto insidiosa, un po’ come la Londra di Renton. Qui realizzerà il terzo capitolo della trilogia, il deludente “Una vita esagerata” (1997), e l’interessante ma incompreso “The Beach”, in cui si consumerà la rottura con il suo attore-feticcio McGregor, rimpiazzato da un rampante Leonardo DiCaprio.

La carriera di Boyle proseguirà a fasi alterne, tra pregevoli film di genere (“28 giorni dopo”, 2002; “Sunshine”, 2007; “127 ore”, 2010), qualche passaggio a vuoto (“Millions”, 2004, “T2 Trainspotting”, 2017) e l’altro clamoroso exploit del brillante “The Millionaire” del 2008, realizzato a Bollywood, che gli varrà ben 8 Oscar 8 statuette, tra cui Miglior film e Miglior regista (ma non il favore dei soliti oltranzisti della critica che continueranno a snobbarlo). Del resto, anche la stampa britannica userà con Boyle il metro adottato solitamente con le next big thing musicali, pompando all'inverosimile “Trainspotting” (spacciato come una sorta di risposta britannica a “Pulp Fiction”) e dimenticando frettolosamente il suo artefice nelle prove successive.

Peccato soprattutto per l’occasione mancata del sequel di “Trainspotting”, il succitato “T2”, che si risolverà solo in una rimpatriata nostalgica senza verve né senso. Niente a che vedere con lo sberleffo punk dell’originale: uno sprazzo di “no future” cinematografico capace, al contrario, di fissarsi nel tempo, facendosi fenomeno pop. Candidato all'Oscar per la miglior sceneggiatura non originale, sarà anche inserito nel 1999 dal British Film Institute tra i migliori 100 film britannici del XX secolo. Invecchiato? Forse un po’ sì. Ma rimane la testimonianza sincera di un'epoca e uno degli spaccati più crudi e autentici sulla vita di chi non sceglie la vita.

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