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Siamo alla vigilia di un triste anniversario. Da circa un anno, la Russia ha in vaso parte del territorio dell’Ucraina. Da allora i combattimenti, tra alti e bassi, non si sono mai fermati. Si contano oramai migliaia di morti, l’Ucraina è diventato uno stato totalmente militarizzato, mentre continua l’escalation di provocazioni sapientemente foraggiate dalle forniture militari elargite da USA e UE. Gli Stati Uniti sembrano essere, sempre di più, i burattinai di uno scontro in cui l’Unione Europea, con tutti i distinguo del caso (più volte espressi ma mai agiti in concreto), si è accodata. Sulle ragioni immediatamente politiche di quello che dovremmo chiamare il secondo tempo del conflitto russo-ucraino (la guerra è iniziata nel 2014 con il colpo di stato in Ucraina e con le manovre NATO di accerchiamento nei confronti della Russia, senza considerare gli effetti di tutte le sanzioni economiche di una guerra che da ibrida si è trasformata in “materiale” con decine di migliaia di vittime concentrate soprattutto nella regione del Donbass) ci siamo già espressi tempo fa e vi rimandiamo al nostro testo(1).
La questione però, oggi, assume dei connotati, che si rivelano sempre più inquietanti. Le analisi politiche, che secondo noi vanno ribadite, non risultano più del tutto esaurienti. Appare infatti evidente che, dietro al velo delle intenzioni più o meno espresse, si celano delle cause di fondo. Quelle cause che ci raccontano di un conflitto che non è limitato a un quadrante pur importante, ma che fa balenare l’idea di una generalizzazione, fino all’estremo rappresentato dal rischio di una guerra nucleare.
Sulla base di questo assunto, ci pare interessante ragionare sulla lettura e sullo studio di due importanti testi usciti da pochi mesi. Due testi molto diversi tra loro ma accomunati dal discorso di fondo: cercare le cause reali del conflitto.
I due libri sono: “La guerra Capitalista” di Brancaccio, Giammetti, Lucarelli edito da Mimesis e “Stati Uniti e Cina allo scontro globale” di Raffaele Sciortino edito da Asterios. Cominciamo quindi con una breve ricognizione sui due testi e cerchiamo poi di sviluppare alcune considerazioni in base al loro confronto e al tipo di analisi che sviluppano.
“La guerra Capitalista”, competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista, di Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti, Stefano Lucarelli, Editore Mimesis
I tre autori, pubblicano un testo che non parla solo della guerra in Ucraina ma, in generale, del sistema uscito dalla globalizzazione capitalista che, iniziata negli anni ‘70 del ‘900, prosegue ai giorni nostri. La tesi di fondo è che il conflitto, per paradosso, si origina dai risultati di una globalizzazione in cui il sistema vincente degli USA si è indebolito con il tempo, mentre gli ex prtner, in particolare la Cina e, in parte la Russia, si sarebbero rafforzati, pur partendo da una posizione subordinata. Questo paradosso risulta evidente laddove si consideri la bilancia dei pagamenti dei soggetti analizzati. Il paese guida della globalizzazione, gli USA, è un paese con un gigantesco debito pubblico e un ancor più grande deficit commerciale; i paesi asiatici, in particolare la Cina sono invece paesi creditori. Nel libro non si fa cenno a come si è creato questo squilibrio, ma se ne analizza invece uno dei fattori che lo caratterizza: la tendenza alla centralizzazione del capitale in pochissime mani.
Il meccanismo, nelle sue fondamenta è il seguente: vi è un fenomeno di concentrazione del capitale industriale con la creazione di trust e monopoli industriali, contemporaneamente si assiste a un fenomeno analogo dal punto di vista del capitale finanziario. Tra i due settori, produttivo e finanziario, vi è differenza ma non separazione. Il credito finanziario è infatti fondamentale per il capitale produttivo. Il meccanismo che qui viene analizzato, (ma si tratta di un meccanismo che risale a più concause(2)) attraverso il quale si crea centralizzazione è quello del credito e del tasso di interesse. Una azienda produttiva deve restituire un debito ai finanziatori, se non riesce va in sofferenza. Se fallisce o se i problemi di solvibilità diventano troppo grandi, l’azienda in difficoltà può essere assorbita da una impresa le cui condizioni di solvibilità non hanno problemi. Lo stesso meccanismo agisce anche all’interno del sistema finanziario. Le banche infatti, se rientrano dai prestiti – o dagli investimenti – con difficoltà possono fallire come le aziende produttive ed essere assorbite da altre banche o istituti finanziari. In tal caso avviene un fenomeno di centralizzazione con la creazione di grossi monopoli finanziari.
Questo meccanismo, che nel pensiero economico neoclassico è, in qualche modo, considerato virtuoso in quanto eliminerebbe soggetti non in grado di garantire un buon funzionamento produttivo o finanziario si incrocia con il ruolo degli stati o degli aggregati statali. In particolare emerge il ruolo della regolazione finanziaria gestita dalle banche centrali. Qui gli autori hanno buon gioco nello spiegare, in modo semplice ma molto esaustivo, che il ruolo della banca centrale non è banalmente quello di regolare l’erogazione e la restituzione di denaro per mantenere equilibri che garantiscano tutti (magari attraverso il riequilibrio della dinamica salariale e dell’inflazione), ma quello di regolare il fenomeno della centralizzazione del capitale. Favorendolo in alcuni casi, ritardandolo in altri.
Va da se, anche per chi non sia particolarmente avvezzo alle analisi marxiste, che il fenomeno della centralizzazione del capitale, rimanda al concetto di imperialismo. Nella prima parte infatti, dopo aver spiegato come si instaura la centralizzazione, gli autori si occupano di una ricognizione sul termine usato, tra gli altri, da Lenin in suo mirabile testo. Le differenti teorie vengono messe a confronto, usando autori marxisti e non marxisti. L’idea che l’imperialismo sia correlato alla concentrazione del capitale è comunque diffusa, anche se, negli ultimi anni, il termine è stato parzialmente accantonato, in parte sostituito da concetti divergenti anche negli ambiti degli studi marxisti o da questi derivati(3).
Nella seconda parte del testo, gli autori si pongono il problema di una spiegazione empirica del fenomeno. Spiegazione necessaria in quanto si parte dalla considerazione che, nell’economia neoclassica, si tende ad accantonare il problema o direttamente a negarlo sulla basi di dati usati in un modo definito semplicistico. Per gli autori è invece possibile misurare la centralizzazione in un modo che, usando i mezzi di analisi computerizzati e i dati disponibili, permetta di sfruttare gli studi sui sistemi complessi, usati spesso in ambito scientifico (fisica, chimica, biologia) e non direttamente economico. Si tratta infatti di una analisi che non si limita a sommare i dati disponibili relativi ai pacchetti percentuali nel controllo delle società finanziarie e industriali ma ne analizza, invece, la correlazione. In tal modo, le varie partecipazioni societarie si pesano sulla base dell’importanza, delle alleanze industriali e finanziarie tra gruppi, sulla base del controllo di settori affini. Tutti questi parametri permettono di effettuare simulazioni in tempi lunghi. Senza entrare nei dettagli, la conclusione è che, attualmente, l’80% circa del patrimonio mondiale risulta concentrato nelle mani di circa il 2% degli azionisti. Questa parte di super capitalisti governa in maniera quasi assoluta il movimento dei capitali nel mondo.
Nell’ultima parte, si arriva alla conclusione richiamata nel titolo del libro. Dove viene esplicitato come questo fenomeno, già al centro di altri testi di Brancaccio che ne analizzavano il rapporto con il concetto di democrazia(4), sia al centro della fase di turbolenza che stiamo vivendo, in cui la guerra in Ucraina è soltanto l’ultimo capitolo.
Qui si apre la parte più controversa del testo.
L’idea di fondo, che semplifichiamo per ovvi motivi, è che i paesi creditori (nel quale sarebbe in atto un fenomeno di centralizzazione dei capitali di diversa portata ma sostanzialmente della stessa natura), a questo punto della globalizzazione, anche a causa delle sanzioni economiche o strumenti affini messi in campo dagli USA, come il tentativo di ricollocazione delle industrie nel campo occidentale o il protezionismo interno con l’introduzione dei dazi anche verso i propri partner, siano costretti a contrattaccare. L’attacco russo all’Ucraina si inquadrerebbe quindi in un cosiddetto imperialismo dei creditori contro l’imperialismo dei debitori rappresentato dagli USA e alleati.
Questa ipotesi, che nel libro viene articolata in modo molto più dialettico e problematico rispetto a quanto riportiamo in queste note, metterebbe quindi in campo una situazione in cui il primo obiettivo di chi ha a cuore la pace diviene quindi quello di uscire dal campo dei tifosi di una o dell’altra fazione, di uscire da una versione totalmente idealistica del conflitto (attribuibile sia a chi pensa che ci sia uno scontro di civiltà tra il bene – la democrazia liberale occidentale – contro il male rappresentato dall’autoritarismo asiatico, sia a chi considera necessario giustificare la Russia e la sua aggressione in nome della lotta a un rinascente nazismo concentrato in Ucraina), sia da una versione geopolitica che, pur avendo il merito di trattare le questioni senza tifoserie e con il necessario cinismo analitico, non va oltre la superficie in quanto nega che alla base ci siano le storture di un sistema, quello capitalistico, ritenuto l’unico possibile e immaginabile.
“Stati Uniti e Cina allo scontro globale”, struttura, strategia, contingenza, di Raffaele Sciortino, editore Asterios
Il libro di Raffaele Sciortino(5), parte da una analisi più generale dello scontro tra USA e Cina che caratterizzerebbe, in modo quasi esclusivo, la fase di turbolenza globale che stiamo attraversando. A differenza del testo analizzato in precedenza, che cita il conflitto fin dal titolo, la guerra russo-ucraina appare sullo sfondo. All’autore preme infatti condurre una ricognizione, a consuntivo, della cosiddetta globalizzazione, andando ad analizzarne le varie fasi dello sviluppo negli ultimi 50 anni. La globalizzazione è vista da Sciortino come un processo che è la caratteristica peculiare assunta dell’accumulazione capitalista partire dalla seconda metà degli anni ‘70 del secolo scorso.
All’interno di questa analisi, si concentra sul rapporto tra il paese che ha guidato l’intero processo (gli USA) e quello che è stato, per anni, il suo principale alleato, se non altro per convenienza: la Cina.
Anche il libro di Sciortino ha una struttura tripartita. Nella prima fase si accenna a una storia della globalizzazione centrata sui due protagonisti, si analizza il paradosso di un sistema guidato da un paese estremamente indebitato come gli USA, si esplicitano i punti di snodo che hanno fatto suonare i primi campanelli di allarme riguardo alla sostenibilità di un tale meccanismo. Nella seconda parte lo studio si concentra sugli USA da Obama a Biden, passando per Trump (la precedente storia è inserita all’interno della “grande strategia” statunitense all’indomani dall’uscita dal pantano della Guerra in Vietnam).
Nell’ultima parte il focus viene centrato sulla Cina di cui si analizzano struttura e sovrastruttura a partire dalla Rivoluzione del 1949 fino ai giorni nostri.
L’analisi separata delle azioni e di come cambiano USA e Cina nell’ultimo periodo sono necessarie per riannodare i fili nelle conclusioni finali. Ma andiamo, anche in questo caso, per ordine.
Il paradosso degli Stati Uniti come paese guida del mondo dal punto di vista economico, militare e, almeno dalla caduta dell’URSS in poi, anche dal punto di vista politico e, contemporaneamente, stato con debito pubblico elevatissimo e strutturale deficit commerciale, non viene considerato come un effetto della globalizzazione in quanto tale, ma come una scelta che viene compiuta consapevolmente agli inizi degli anni ‘70 dall’amministrazioni statunitensi, segnatamente da quella Nixon (20/01/1969 – 08/08/1974).
La guerra in Vietnam, tra le altre cose, consegna agli USA un enorme debito pubblico, in un mondo dove nelle metropoli imperialiste il conflitto sociale è elevato e dove, nelle periferie, è in atto la fase finale della decolonizzazione, processo, quest’ultimo, che gli USA e il mondo occidentale subiscono e che l’URSS sostiene. Il riavvicinamento tra USA e Cina nel lontano 1972, viene visto come l’atto iniziale di una strategia che, almeno all’inizio, è tutta giocata in termini geopolitici. Come atto in grado di isolare l’URSS e dividere il movimento che, a diverso titolo, giocava nel campo avverso rispetto all’alleanza dell’occidente uscita dal secondo conflitto mondiale.
La “grande strategia” USA si consolida poi con l’uscita unilaterale dal sistema monetario di Bretton Woods(6). Uscita che consegna al Dollaro, non più ancorato all’oro, il ruolo nel tempo crescente di moneta globale per ogni tipo di transazione, a cominciare dal mercato fondamentale delle materie prime. Nel 1978, con la svolta di Deng Xiao Ping, si precisano i termini dell’accordo USA-Cina che diviene, anche e soprattutto, una relazione economica. A quel punto, complice la caduta del Patto di Varsavia, la globalizzazione a guida USA ha sostanziale mano libera. Quella tra Cina e USA si caratterizzerà, per lunghi anni, come una alleanza solida con la quale i due attori contribuiranno a fare della globalizzazione un sistema mondiale in cui gli USA fermano un declino che altrimenti sarebbe stato inevitabile e la Cina si inserisce in un mercato mondiale in posizione subordinata ma comunque, lo vedremo, molto diversa rispetto ad altri paesi emergenti o periferici.
Nel frattempo, il consolidarsi dell’alleanza di fatto tra Cina e USA assume, fin da subito, evidenti risvolti politici. Innanzitutto l’esaurirsi del movimento e delle lotte anticoloniali, la fine del conflitto di classe nelle metropoli, la finanziarizzazione estrema dell’economia mondiale. Del lungo ‘68 rimane solo quell’anelito libertario e legato alle rivendicazioni individuali che vengono messe a valore, diventando poi la cifra costitutiva di una sinistra liberale che governerà alternandosi alla destra reazionaria; presunte alternative che condivideranno, almeno in Occidente, una visione del mondo, delle relazioni internazionali ed economiche sostanzialmente coincidente.
In tutta una fase, almeno fino al 2008, si ricostruisce completamente il sistema dell’estrazione del valore a livello globale. La globalizzazione comporta il fenomeno della delocalizzazione della produzione dai paesi a capitalismo avanzato, mentre in Occidente si mantiene la parte di processo a più alto valore aggiunto (sostanzialmente la progettazione, le fasi di lavorazione più tecnologiche e soprattutto la direzione dei processi produttivi). Ciò significa che il plusvalore assoluto sarà estratto soprattutto in Cina mentre in Occidente si lascerà spazio all’accumulazione basata sull’estrazione del plusvalore relativo.
Ma il fenomeno più impressionante è lo sviluppo quasi incontrastato del predominio del dollaro come unica moneta di scambio globale. In grado di accompagnare tutti i commerci e le transazioni. Ma altresì in grado di garantire l’utilizzo delle leve finanziarie con le quali i pesi dell’accumulazione e dei suoi contrasti vengono scaricati sui paesi emergenti e periferici. Dall’aumento dei debiti, fino alle manovre che consentono il ritorno dei capitali negli USA causando veri e propri fallimenti di aziende, settori produttivi, e interi stati.
Economia centrata sul dollaro come unica moneta globale e finanziarizzazione estrema: una opportunità per qualcuno, ma anche il sintomo di una crisi del sistema di accumulazione generale in cui, ad un certo punto, la quantità di denaro che gli USA per primi immettono nei circuiti economici globali non entra più direttamente nei cicli produttivi, ma alimenta speculazioni fino a diventare insostenibile. La crisi finanziaria del 2008 è – l’ultimo – risultato di questa situazione. Ma anche il campanello di allarme decisivo sia per gli alleati statunitensi sia ed in particolare per la Cina. Il cui sistema appare, per vari motivi, più solido ma avverte comunque l’esigenza di una maggiore autonomia e indipendenza. Termina qui la fase che viene definita come globalizzazione ascendente.
A questo punto è importante fermarci e riepilogare i termini del discorso.
Nella globalizzazione ascendente, attraverso il rapporto con la Cina, gli Stati Uniti con la loro “grande strategia” non risultano affatto perdenti nella sfida della globalizzazione. La delocalizzazione produttiva corrisponde infatti a varie esigenze ma in particolare le fondamentali sono due:
1) l’estrazione del plusvalore diviene globale. Ma la stragrande maggioranza dei profitti affluisce nel centro occidentale. Ovviamente solo in minima parte finisce nelle tasche dei lavoratori occidentali;
2) attraverso la produzione decentralizzata, il centro capitalista è invaso di manufatti e prodotti ottenuti laddove il costo del lavoro, le condizioni di contorno, l’accesso alle materie prime consente l’abbassamento dei prezzi. Ciò consente di ritardare il più possibile il fenomeno di impoverimento generalizzato della classe lavoratrice all’interno dei paesi capitalisti. Il tutto unito alla facilità di accesso al credito fornito dallo sviluppo impetuoso di strumenti finanziari sempre nuovi.
Il processo è quindi la trasformazione di una debolezza in forza che consente agli USA (e in termini subordinati ai suoi alleati) di continuare la rapina imperialista in nuove condizioni. Come spesso accade, nel capitalismo la forza estrema si trasforma in debolezza. Una “contraddizione in processo” per parafrasare Karl Marx.
Gli USA senza strategia
Dal 2008 in poi la situazione cambia anche per gli USA. È evidente che la strategia di accumulazione della fase ascendente della globalizzazione è in crisi. È necessaria una nuova grande strategia ma non è alle porte. In quanto è il sistema di accumulazione che è in crisi e questo ha evidenti ricadute interne. Obama agisce in questo contesto ma le proposte che ha da offrire non sono una novità: da un lato cerca di ricostruire una alleanza interna andando a sviluppare recuperi di welfare, dall’altro comincia a intervenire in contrasto della Russia ma anche della Cina attraverso il pivot to Asia. Incomincia il tentativo di reshoring delle imprese manifatturiere che diventeranno poi centrali sotto la presidenza Trump.
Il sostanziale fallimento del change di Obama si riverbera nel trionfo di Trump. La sofferenza interna si è trasformata in una dinamica direttamente populista, riflesso, tra l’altro, del cambio della composizione sociale interna durante il primo periodo della globalizzazione. La nuova fase politica che da un lato promette il ritorno di ampi settori del processo produttivo in patria, dall’altra sfrutta un risentimento verso le élite considerate come vere e proprie sanguisughe. Dal punto di vista internazionale, Trump cerca di raggiungere i propri obiettivi raffreddando lo scontro con la Russia e concentrando l’azione verso la Cina sottoposta a sanzioni, soprattutto con l’idea di bloccare il tentativo cinese di risalita delle catene del valore, soprattutto nel settore dell’high tech, del controllo dei big data, nel settore militare.
La pandemia, lo sviluppo delle mobilitazioni antirazziste, ma soprattutto il sostanziale fallimento del progetto di reshoring, indeboliscono Trump e trasformano la sfida con Biden in uno spareggio, che finisce con il cambio della presidenza senza però far uscire di scena né Trump né la situazione politica che lo ha prodotto.
Con il ritorno al potere del Partito Democratico si affinano le tattiche ma la strategia non cambia. Per Biden ritorna la necessità di una alleanza interna più ampia, la Russia ridiventa il primo obiettivo da colpire. Ma sullo sfondo, l’esigenza è bloccare lo sviluppo della Cina, tentativo da percorrere rinsaldando i rapporti con la UE costretta a rivedere la strategia di collocazione intermedia tra USA e Asia perseguita in risposta ai venti di crisi e quasi forzata dall’ostilità USA nel precedente mandato di Trump.
Ciò che non si vede ancora all’orizzonte è una grande strategia simile a quella dell’inizio degli anni ‘70: tutte le mosse sembrano rimandare a una politica in cui le caratteristiche dell’accumulazione del precedente ciclo non sono messe in discussione. Le difficoltà vengono imputate alle manovre scorrette di altri paesi. Sullo sfondo, l’unica idea è il rinnovo della rapina imperialista sottoponendo, ancora di più l’intero pianeta ai dettati USA.
La Cina: struttura e sovrastruttura nel mercato globale
La parte sulla Cina è decisamente la più corposa del testo in esame. E non può essere altrimenti in quanto a essere indagata, per evidenti necessità, è la natura stessa della Cina che esce nel 1949 con una Rivoluzione contadina e nazionale che non può seguire vecchie strade ed è sempre costretta a inventarsi un proprio futuro. Con alle spalle la tradizione sovietica, la Cina ne ha presenti i limiti, la forza contadina nella Rivoluzione ha un ruolo che giocherà e gioca a oggi una parte fondamentale. Senza entrare in particolari, di cui il libro abbonda e rimandiamo quindi direttamente alla sua lettura, è evidente che l’accumulazione di cui la Cina ha bisogno fin dall’inizio della sua storia rivoluzionaria non si può ottenere seguendo il metodo staliniano degli anni ‘30 ma neppure ci si può permettere di risolvere la questione agraria nel modo classico in cui il capitalismo si impone: l’esproprio delle terre. Questa contraddizione peserà non consentendo di sostenere in pieno gli sforzi del grande balzo, né di risolvere, almeno per un lungo periodo, il problema dell’uscita dalla povertà.
Lo spostamento cinese verso un più compiuto capitalismo è quindi frenato dalla questione agraria i cui successivi aggiustamenti consentiranno, a un certo punto, di favorire l’afflusso ordinato di manodopera verso le città in via di industrializzazione. Con un sistema che da un lato consentirà, nel periodo di Deng e fino agli anni ‘10 anni del 2000, di avere mano libera nell’uso di una forza lavoro operaia sottoposta a condizioni addirittura feroci, dall’altro costituirà una via di uscita per garantire comunque che lo sforzo premi anche i lavoratori e i contadini. I meccanismi con i quali questo avviene ci parlano di un paese in cui non si sfugge all’applicazione, anche brutale, della teoria del valore ma si rimane in una situazione in cui la stragrande maggioranza dei salariati e dei contadini non è espropriata totalmente dei propri mezzi di produzione.
Questo consente alla Cina di superare momenti di difficoltà notevole, di mantenere comunque un elevato livello di riconoscimento da settori sociali, tutt’altro che dimessi o disposti ad accettare qualsiasi condizione. E qui sta l’altro punto fondamentale: la sostanziale dialettica che opera tra le mobilitazioni sociali di varia natura e la risposta dello Stato che non è mai di chiusura ma opera per sfruttare il potenziale delle lotte per correggere le storture di uno sviluppo accelerato e contemporaneamente spingere per nuove ondate di modernizzazione. Altro elemento fondamentale è la questione della sovranità monetaria. Che diviene centrale dal 2008 quando suona il primo allarme sull’esposizione di una economia sostanzialmente ancorata al dollaro. Ma che, rispetto ai paesi vicini i cui boom economici si sono rivelati molto volatili, resiste molto di più in quanto può basarsi su una struttura che, per gran parte, combatte la volatilità dei capitali.
Dal 2008 e con maggiore vigore sotto la guida di Xi Jinping, la governance cinese cambia, pur continuando a basarsi sul proprio peculiare sviluppo storico. Qui il testo si dilunga elencando le linee guida fondamentali per un maggiore sviluppo dell’economia interna, per una maggiore azione esterna con le teorizzazioni legate alla Via della Seta, con una più decisa proiezione verso i paesi emergenti dell’area asiatica. Ma soprattutto con il tentativo di affrancamento progressivo da una economia esclusivamente dollarocentrica e con un tentativo di risalire le catene del valore con propri marchi e non solo più come assemblatore di marchi altrui o per conto terzi.
Questa scelta appare dunque come il risultato di una analisi complessiva dello stato mondiale del sistema di accumulazione e come il risultato di una dialettica tra classi all’interno della Cina. Non un tentativo di sfida egemonica che appare per lo meno lontana. E qui sta la conclusione del testo: quella della Cina non può essere (e probabilmente non vuole essere) una sfida per sostituire il dominio statunitense ma diviene, suo malgrado, una sfida sistemica di fatto. Per il fatto di agire da disgregatore di fatto di un sistema la cui crisi è strutturale.
Il capitalismo, le crisi, le guerre
Tentiamo adesso un sunto di quanto emerge dai due testi che abbiamo analizzato. Un sunto che non può che essere una serie di domande più che di affermazioni. Entrambi i testi hanno l’enorme merito di rivolgere il proprio sguardo in una prospettiva sistemica. In tal senso l’analisi non può che partire da un fatto: è in crisi il sistema di accumulazione. E qui sta il richiamo forte, in entrambi a testi, al pensiero di Marx. Nel libro di Brancaccio, Giametti e Lucarelli il focus si concentra sulla legge di centralizzazione del capitale. In tal senso la novità reale del testo è l’analisi empirica che la conferma. Nel testo di Sciortino l’analisi è invece politica in senso ampio. È un libro sulla struttura economica ma è anche un libro che si richiama continuamente al nesso tra struttura e sovrastruttura. In tal senso non separa nettamente il campo dell’analisi economica dalla lettura geopolitica ma mette ordine e stabilisce una gerarchia tra le due visioni. E ha il grande merito di far capire quale ruolo gioca la lotta tra le classi nel determinare i cambiamenti che poi si riverberano dal piano interno al piano internazionale per poi compiere il percorso inverso.
Ciò che ci appare evidente sono anche le differenze tra i due testi riguardo al concetto di crisi del capitale. Se per Brancaccio, Giammetti e Lucarelli la crisi odierna sembra ricondotta alla causa determinante della centralizzazione di capitali, a noi pare di intendere che per Sciortino la crisi del capitalismo è un fenomeno che risulta di più difficile definizione. Dalla contraddizione interna relativa alla definizione di saggio di profitto, che appariva già nei testi originari di Marx come una contraddizione endogena del sistema più che una causa definitiva di crisi, alla crisi di sovrapproduzione.
La domanda che ci poniamo, quindi, è: la centralizzazione dei capitali può essere sganciata dal ragionamento complessivo sulla crisi e divenire una legge indipendente?
Questa differenza di approccio si sostanzia in un diverso ragionamento sull’imperialismo. Che è importante non per mere ragioni ideologiche ma perché la sua definizione attuale determina la qualità dell’intervento delle forze di classe.
A noi appare evidente che la definizione di imperialismo non possa essere forzata o imposta. È un concetto politico, non è una legge fisica. Nella “guerra capitalista” questo è ben spiegato quando si analizzano le varie interpretazioni del concetto stesso. Sulla base di questo assunto ci limitiamo a sottolineare che la definizione “volgare” del termine basato quasi esclusivamente sull’aggressività militare sia fuorviante(7) ma anche una definizione che si basi esclusivamente su una tendenza insita al modo di produzione capitalista slegata da situazioni generali e dalle relazioni sociali interne e internazionali di uno Stato non risulti esaustiva.
È in tal senso che la teoria di uno scontro tra imperialismo dei debitori e dei creditori ci pare una semplificazione che non aiuta la comprensione del fenomeno.
Non perché si tratti di fare il tifo per una fazione o per l’altra ma perché non fornisce strumenti adeguati di intervento se non la sacrosanta richiesta della pace.
Richiesta legittima e centrale da tutti i punti di vista ma che non può fare dimenticare che tale concetto va esteso al sistema mondo e non soltanto all’occidente. Che la pace basata sull’ingiustizia globale non solo non è sufficiente ma non può garantire nulla se non l’accumulo di contraddizioni verso la prossima guerra.
Note al testo
1) Calp e Genova City Strike: la pace tra gli oppressi, la guerra gli oppressori.
2) Sul fenomeno della centralizzazione e della concentrazione del capitale le cause sono da ricercare a vari livelli. Da quelle più neutre e tecniche come la necessità di realizzare adeguate economie di scala a quelle più legate alla legge del valore. Concentrazione e centralizzazione spesso sono usate come sinonimi, in realtà sarebbe opportuno parlare di concentrazione nel settore produttivo e di centralizzazione nel settore finanziario.
3) Ci si riferisce, in particolare, alle teorizzazioni sull’Impero e sulle moltitudini elaborate, tra gli altri, da Toni Negri e Michael Hardt.
4) Si rimanda al precedente testo di Brancaccio: “Non sarà un pranzo di gala, Crisi, Catastrofe o Rivoluzione” editore Meltemi 2020. Sul testo abbiamo condotto una conversazione con Emiliano Brancaccio che trovate qui.
5) L’autore si era già, in parte, cimentato su questi temi in un testo precedente: “I 10 anni che sconvolsero il mondo, crisi globale e geopolitica dei neopopulismi” editore Asterios di cui questo testo rappresenta una evoluzione e un approfondimento.
6) Gli accordi di Bretton Woods furono siglati nel
1944 dopo lunghe discussioni. All’interno degli accordi era previsto
che le monete si ancorassero al dollaro il quale era ancorato, a sua
volta, all’oro con il gold exchange standard. Gli accordi vennero
accantonati nel 1971. Per una analisi più completa, qui.
7) In effetti, in tal caso, la definizione di imperialismo assegnata esclusivamente agli USA sarebbe inattaccabile da chiunque, considerando aggressioni, colpi di stato e altri “svaghi” di cui i governi USA si vantano volentieri anche in pubblico.
Collettivo Comunista City Strike – Genova
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