Dunque, a cominciare dal prossimo 26 gennaio, si dovrà assistere annualmente a una nuova, ennesima, parata di nazionalismo e di esaltazione delle italiche “gesta” che portarono la “civiltà” mussoliniana al di là dei confini patrii: dall’Africa ai Balcani, dalla Spagna all’Europa meridionale e orientale.
Il 26 gennaio è la data stabilita dal Parlamento italiano per l’istituzione della “Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini”. Ancora una Giornata della memoria, oltretutto a ridosso di quella del 27 gennaio per la liberazione di Auschwitz a opera dell’Esercito Rosso.
Perché il 26 gennaio? Perché in quella data, nel 1943, gli alpini combatterono a Nikolaevka (il testo della legge scrive “Nikolajewka”, alla maniera tedesca: d’altra parte, il regime fascista aveva spedito gli alpini in quelle terre per rispondere proprio alla chiamata dell’alleato nazista) e così, ricordare oggi quella battaglia, serve sia a «conservare la memoria dell’eroismo dimostrato dal Corpo d’armata alpino», sia a «promuovere i valori della difesa della sovranità e dell’interesse nazionale».
Proprio così; nero su bianco: sovranità e interesse nazionale si promuovono rievocando l’invasione dell’Unione Sovietica, al servizio delle armate hitleriane, insieme a fascisti ungheresi, rumeni, finlandesi, ecc.
L’art. 2 della legge istitutiva della “solennità” dice che le autorità locali sono invitate a patrocinare eventi con «testimonianze sull’importanza della difesa della sovranità nazionale, delle identità culturali e storiche, della tradizione e dei valori etici di solidarietà e di partecipazione civile».
Ecco: le identità culturali e storiche che, per esempio, prima ancora degli alpini, hanno visto i bersaglieri, «espressione purissima delle virtù guerriere dell’Italica stirpe», prima dar man forte ai franco-turchi sul fiume Čërnaja, inquadrati nell’armi piemontesi, e poi spingersi in Africa, «sotto il soffocante ed accecante alito del ghibli», quasi un secolo più tardi, a conquistare il “bel suol d’amore” libico.
E poi la tradizione, che aveva visto gli alpini mandati a difendere l’interesse nazionale, prima che in URSS, in Etiopia, in Grecia, ecc.; i valori etici insiti nei massacri compiuti dalle camice nere nelle Ambe africane, nei villaggi sloveni e sovietici; la solidarietà verso l’alleato hitleriano.
Ora, ignoranti di storia militare, si è data una scorsa a quelle che sembrano le imprese più rappresentative del corpo alpino, tralasciando guerre coloniali di fine ‘800 e Prima guerra imperialista del 1915-18.
Ebbene, secondo quanto riporta ad esempio il “Gruppo Alpini San Giorgio di Nogaro”, nel 1936 troviamo gli alpini impegnati in Etiopia, «a combattere sugli assolati e aspri rilievi etiopici contro le truppe di Hailé Selassié... Validissimo il contributo degli alpini che parteciparono alle operazioni più importanti: dalla conquista dell’Amba Aradam, all’occupazione dell’Amba Alagi e alla battaglia di Mai Ceu il 31 marzo 1936».
Scrivere «combattere ... contro le truppe di Hailé Selassié », in maniera “neutrale”, dà l’impressione di una guerra condotta nelle manzoniane aere spirabili, nel limbo innocente dantesco, o in qualche profondità oceanica, e non di un’aggressione criminale contro un popolo indipendente, agli ordini del neocolonialismo fascista, quale in realtà fu.
Crediamo non ci sia bisogno di ricordare, in fatto di massacri terroristici mussoliniani ai danni di popoli aggrediti, cosa abbia significato l’Amba Aradam: le documentate ricostruzioni degli storici, a partire da Angelo Del Boca, hanno da tempo messo le cose a posto.
Dopo l’Africa, ecco la guerra mondiale, in cui «gli Alpini conquistano altre glorie»: a ovest, nell’attacco alla Francia, quindi si portano i valori etici in in Grecia e la solidarietà in Jugoslavia, per finire con cotanta tradizione difesa in terra sovietica. Qui, «Eroico fu il comportamento degli Alpini, che a Nikolajewka, riuscirono a rompere il cerchio di ferro e di fuoco dei soldati dell’Armata Rossa».
Non è nostra intenzione oscurare il sacrificio personale di tante migliaia di giovani, spediti dal governo fascista, contro la propria volontà, a invadere un paese indipendente e che in moltissimi casi, dopo quell’esperienza, rivolsero i fucili contro il “nemico di casa nostra”.
Ma la domanda che sorge d’istinto è: perché, con tutte le “imprese” ascritte al corpo degli alpini e con le innumerevoli testimonianze di sacrificio compiuto all’interno dei patrii confini, ad esempio sulle Dolomiti, durante la Prima guerra imperialista, in cui, bene o male, (pur con le mire coloniali a quella connaturate e confermate negli accordi segreti tra Italia e Intesa) si poteva ancora fingere di “difendere il sacro suolo della patria”, perché scegliere proprio il 26 gennaio quale “Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini”?
Sarebbe forse stato sconveniente fissare qualche episodio della Resistenza che vide impegnati reparti partigiani in cui militavano anche ex alpini, come quelli della Divisione “Monte Rosa”, oppure dei tentativi di resistenza di varie Divisioni alpine contro i tedeschi dopo l’8 settembre, per dirne solo una?
È vero che, a Nikolaevka, «Durissimo fu il prezzo pagato dalle Penne Nere per aprire ai superstiti la via della libertà: su 57.000 uomini ben 34.170 non tornarono a casa»; ma anche il «contributo dato dagli Alpini nella Grande Guerra è ampiamente evidenziato dalle seguenti cifre: ufficiali, sottufficiali e alpini morti 24.876, feriti 76.670, dispersi 18.305».
Dunque? Come mai proprio il 26 gennaio e Nikolaevka e proprio alla vigilia del Giorno della memoria, celebrata a livello internazionale con risoluzione delle Nazioni Unite?
Perché si aggiungono sempre nuove date di “memoria” dell’armi italiche o di “ricordo” delle vittime “sol perché italiane”, come si predica ogni 10 febbraio, e al contrario, si ignorano gli appelli di storici, studiosi, associazioni, per ricordare le vittime libiche, abissine, spagnole, jugoslave, greche, sovietiche del colonialismo fascista italiano?
Il 26 gennaio del 1943, parte degli alpini della 8° Armata spedita a invadere l’Unione Sovietica riusciva a sottrarsi al completo accerchiamento (i reparti italiani erano dislocati sulla riva destra del Don, dalla regione di Voronež fino ai limiti della regione di Rostov) nel corso dell’attacco sovietico sulla direttrice Ostrogožsk-Rossoš’ del 13-27 gennaio 1943.
Cinque giorni dopo, reparti sovietici facevano prigioniero il comando della 6° Armata tedesca e questa veniva definitivamente eliminata nella sacca di Stalingrado: i tedeschi non riuscivano a sottrarsi all’accerchiamento e, al completo, quelli ancora in vita, venivano fatti prigionieri dall’Esercito Rosso.
Che nella scelta del 26 gennaio vi sia una punta di patrio orgoglio nei confronti dell’ex “alleato” che ci disprezzava? Non lo si può escludere. Ma non è questo il punto.
La proposta di legge votata pressoché all’unanimità al Senato nell’aprile 2022, “casualmente” poco più di un mese dopo l’inizio delle operazioni militari russe in Ucraina, era stata approvata in prima lettura dalla Camera nel giugno 2019, lo stesso anno cioè della famigerata risoluzione del Parlamento europeo che vorrebbe equiparare nazismo tedesco e comunismo sovietico.
Ora, per quanto ci riguarda, siamo alieni da qualsivoglia comparazione tra Unione Sovietica socialista e Russia capitalista.
Ma nell’ottica borghese della contrapposizione frontale con l’ex “mondo oltrecortina” e in ossequio alle direttive del nuovo “alleato” atlantico, già in guerra per eliminare un pericoloso concorrente geo-economico mondiale, la rievocazione di “glorie” passate, pur se al servizio di un altro “alleato”, serve egregiamente alla retorica bellicista che, dopo gli armamenti italici inviati copiosamente alla junta nazista di Kiev, non esiterebbe a mobilitare le truppe già da anni stanziate ai confini “nemici” nei Paesi baltici, in Polonia, Romania, ecc.
Nel peggiore dei casi, sembrano voler dire i promotori della celebrazione del 26 gennaio, siamo sfuggiti ottant’anni fa all’accerchiamento completo e forse ci riusciremmo anche oggi. L’importante è marciare compatti contro un nemico storico «della sovranità e dell’interesse nazionale», soprattutto ora che quello attenta ai profitti del nostro capitale.
Si tace però sul dettaglio che quel “nemico storico”, cioè la Russia ancora zarista, d’accordo con Parigi e Londra, poco più di cento anni fa, quando gli alpini contendevano ai Gebirgsjäger austriaci i «valori etici di solidarietà e di partecipazione civile», aveva accordato agli italici capitali, purché entrassero in guerra a fianco dell’Intesa, territori quali Sud Tirolo, Dalmazia, Albania, isole egee, ecc.; territori, cioè, che di «identità culturali e storiche» italiche avevano poco o nulla.
E si tace sul fatto che oggi, non solo «l’interesse nazionale», ma anche soltanto quello puramente capitalista, consiglierebbero quantomeno una certa cautela.
Dunque, Nikolaevka.
Ma, cosa ne pensano a Nikolaevka (oggi nella regione di Belgorod), a Rossoš’, Belij Kolodets, Ol’khovatka e nelle altre cittadine e nei villaggi della regione di Voronež che ottant’anni fa rimasero sotto occupazione italiana; cosa ne pensano delle “imprese” ordinate dai comandi fascisti italiani ai danni della popolazione locale?
A Rossoš’, ad esempio, gemellata con Conegliano, dopo anni di tira e molla tra favorevoli e contrari alla conservazione di un monumento a quella che, nonostante ogni assicurazione di amicizia (“Da un tragico passato, attraverso un presente di amicizia, verso una collaborazione fraterna”, recitava la targa sul monumento) buona parte della popolazione della regione di Voronež considera tutt’oggi l’occupazione italiana, poco diversa da quella tedesca, nell’aprile del 2022 “mani ignote” avevano divelto il “monumento al fascista ignoto” (così lo definivano i contrari).
Un basamento con sopra un’installazione metallica raffigurante il cappello degli alpini, inaugurato nel 2003 a cura dell’Associazione nazionale alpini. Successivamente, abbattuta anche la stele con croce cattolica nel cosiddetto “cimitero italiano” della città, oggi però utilizzato per le sepolture, alla pari con gli altri cimiteri cittadini.
Onestamente non sappiamo se l’installazione sia tornata al suo posto. Nel giugno 2022, i resti del memoriale si trovavano in custodia presso il Dipartimento urbanizzazione di Rossoš’, in attesa della conclusione delle indagini sul suo abbattimento, dopo di che sarebbe stata presa una decisione sulla reinstallazione o la definitiva rimozione.
Comunque, poco distante dal parco che ospitava il monumento, c’è l’asilo “Sorriso” che nel 1993 l’Associazione alpini aveva ricostruito a proprie spese sul luogo che un tempo ospitava il comando del Corpo d’armata e, in una parte dell’edificio, un museo con cimeli di guerra, un’intera sala del quale dedicata a reperti alpini, con accento posto non tanto sull’occupazione italiana, quanto sulla “tragica ritirata”: sala che sembra destinata solo alle visite dall’Italia, non riportando traduzione russa.
Qualche anno fa, il senatore del partito presidenziale Russia Unita, Aleksej Puškov, presidente della Commissione per l’informazione, nel corso di una trasmissione del canale TVTs, da lui diretto, a proposito del memoriale a Rossoš’, aveva detto, tra le altre cose, che esso non è una semplice «raffigurazione puramente allegorica, astratta, ma un’installazione in cui sono raffigurati i simboli dell’occupazione militare italiana.
Sorge quindi un dilemma morale: da un lato, l’amicizia con gli italiani di oggi non solleva alcun dubbio; dall’altro, ci si chiede però se questa amicizia debba essere accompagnata dalla comparsa a Rossoš’ di un monumento agli alleati degli hitleriani, che combatterono sul nostro territorio. Non a caso gli abitanti di Rossoš’ hanno definito l’installazione “monumento al fascista ignoto”».
E, in base a un sondaggio condotto dallo stesso Puškov dopo la messa in onda del servizio, su circa 3.500 risposte, oltre tremila avevano giudicato inaccettabile che «sulla nostra terra ci siano monumenti coi simboli degli alpini e altri alleati delle truppe hitleriane» e solo un paio di centinaia consideravano questi monumenti, «simboli della pacificazione postbellica».
Nel 2018, lo storico Aleksandr Djukov aveva definito il memoriale di Rossoš’, un «tentativo di eroicizzazione mascherata degli alpini. Non è un simbolo di conciliazione, di consapevolezza della tragedia. È un tentativo di dar vita, in modo dissimulato, a un luogo di culto. L’idea di collegarlo all’asilo non è che un metodo per mascherare le vere intenzioni».
Pavel Gusev, presidente dell’Unione moscovita dei giornalisti, diceva che se in Italia «si onorano come eroi i soldati che combatterono contro il nostro popolo, uccidendo la nostra popolazione, massacrando i nostri soldati, sterminando i civili... noi, dopo tutto ciò, non dobbiamo permettere simili monumenti qui... penso non sia giusto».
Dopo tutto, osservava allora la cronista di TVTs, proprio in questi luoghi, ottant’anni fa era allestito un campo di concentramento in cui nazisti tedeschi e fascisti italiani avevano massacrato almeno duemila persone.
E, un centinaio di km a nordovest di Rossoš’, in quella Livenka, di cui oggi Nikolaevka è parte, cosa pensano gli abitanti, del ponte realizzato dall’Associazione alpini nel 75° della “tragica ritirata”, un ponte le cui arcate riproducono, sul modello del monumento di Rossoš’, figure di alpini stilizzate e il cappello con la penna nera?
In realtà, cosa ne pensino, lo si era già visto un anno fa, dopo l’avvio delle operazioni militari russe in Ucraina: l’opinione dei cittadini di Rossoš su quel ponte aveva ovviamente sollevato la patriottica indignazione dei media nostrani, alzatisi a «difesa della sovranità e dell’interesse nazionale».
A Rossoš’, per la verità, l’insofferenza popolare nei confronti delle ripetute visite degli alpini covava da molto più tempo, e a occhio e croce, sembrava aver raggiunto l’apice quando gli alpini erano filati in parata per le vie della città nel 10° anniversario della costruzione dell’asilo “Sorriso”, portando le insegne delle formazioni che occupavano l’area nel 1942.
Gli occupanti di Rossoš’, dice la storica Tat’jana Maljutina, «indipendentemente dalla nazionalità, si comportarono da invasori. Si può parlare del diverso atteggiamento di tedeschi e italiani verso la popolazione civile, ma non si deve scordare che tutti vennero sul Don da aggressori... con saccheggi, violenze contro operai e kolkhozniki, esecuzioni e fucilazioni di prigionieri di guerra e civili».
Una risposta indiretta a quanto scritto da Luca Zaia, che il 26 gennaio 2020 sosteneva che a Nikolaevka «molti soldati, alpini e fanti, morirono, sacrificando le proprie vite per gli ideali di democrazia e libertà». Incredibile ma vero; anche se poco dopo Zaia, incalzato dallo sdegno pubblico, cancellava le parole «gli ideali di democrazia e libertà», a fianco dei nazisti.
Più o meno negli stessi giorni del 2020, lo storico russo Nikolaj Sapelkin ricordava che, nonostante i miti che circolano anche in Russia, sui soldati italiani «amanti della pace», gli archivi testimoniano tutt’altro.
Come, ad esempio, i 23 civili che nel dicembre 1942, nell’area del sovkhoz granario del distretto di Bogučar, erano stati costretti a scavarsi la fossa e fucilati da un reparto italiano; oppure, come ricorda la targa, affissa sull’edificio della scuola N. 2 di Rossoš’, dedicata al giovanissimo partigiano Arkadij Sigaev, torturato nel seminterrato del comando alpino (accanto all’attuale asilo “Sorriso”) e fucilato alla fine del 1942 dai fascisti italiani.
Nel 2018, Aleksandr Nikitin, segretario dell’Associazione per la cura dei monumenti della regione di Voronež, pur non contrario al monumento di Rossoš’, diceva che gli amministratori locali degli anni ’90 commisero un evidente «errore di calcolo, deponendo le ossa (non si sa se resti di soldati sovietici o italiani) in una nicchia sotto il memoriale.
Non si devono eroicizzare le azioni degli invasori italiani. Stessa responsabilità ricade su ungheresi, rumeni, tedeschi, per crimini di guerra e uccisione di civili. Sono documentati casi di azioni tutt’altro che umane degli italiani nei confronti dei civili. Ma non è il caso di parlare dello smantellamento del monumento».
D’altronde, all’epoca, tra fine anni ’80 e inizi anni ’90, quella che in periodo sovietico era definita preklonenie pered inostranščinoj, o esterofilia, precipitava a valanga sulla Russia, dal Cremlino fino ai più lontani maggiorenti locali, ansiosi di ricevere ospiti occidentali e di farsi ospitare poi a loro volta in ambite trasferte all’estero. Ben venissero dunque anche gli alpini, coi loro labari, a Rossoš’, Livenka e un po’ dappertutto.
In definitiva, per quanto riguarda più specificamente gli italici confini, c’è da aspettarsi, per il 26 gennaio, una slavina di omelie, dai pulpiti più diversi, su «sovranità e interesse nazionale» promossi a svariate latitudini, in una gara fra armi diverse su chi, come e quando abbia maggiormente testimoniato le italiche «identità culturali e storiche»; una competizione tra chi, per cielo, terra o mare abbia portato, e a quali popoli, i patrii «valori etici di solidarietà e partecipazione».
Come per il 10 febbraio, allorché di anno in anno si moltiplica geometricamente il numero degli “infoibati sol perché italiani”, così, d’ora in poi, a ogni 26 gennaio, si farà a gara a chi si sia maggiormente distinto a portare ordine in giro per il mondo contro la plebaglia violenta e riottosa: dalla regia marina contro i Boxer cinesi a inizi ‘900, alla regia fanteria e regi carabinieri a Murmansk e Vladivostok, durante l’intervento delle potenze imperialiste contro la giovane Russia sovietica; dai “volontari” mussoliniani in Spagna, a quelli in Africa e così via. Tutti vorranno godere della propria Giornata della memoria, per “glorie” conquistate sui campi di battaglia d’oltremare.
D’altronde, ormai da tempo cercano di convincerci che oggi l’interesse nazionale si difende anche e soprattutto al di fuori dei confini della patria; cercano di convincerci che la NATO e i suoi membri difendono libertà e democrazia andando a bombardare paesi lontani migliaia di chilometri.
Dunque ben vengano le rievocazioni e le glorificazioni anche delle imprese mussoliniane, pur se presentate dietro la cortina dell’effettiva immolazione di decine di migliaia di giovani, sacrificati in nome dell’espansionismo e della “gloria” nazionale.
Che quella del 26 gennaio sia una premessa, e una promessa, di altre glorie per le «identità culturali e storiche» del capitale italiano?
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