di Leonardo Bargigli (docente di Economia politica presso UniFI)
Il volume di Brancaccio, Giammetti e Lucarelli La Guerra Capitalista [1] ha il notevole merito di affrontare un argomento molto complesso e poco trattato dalla letteratura economica, quale la centralizzazione del capitale.
Nella prima parte, e nell’appendice 1, gli autori introducono efficacemente il proprio oggetto di studio, fornendo al lettore una utile guida alla letteratura. In particolare, sottolineano opportunamente la differenza tra concentrazione della ricchezza e centralizzazione del capitale.
Con il primo termine, si indica l’accumulazione della ricchezza nelle mani di un numero sempre più ristretto di proprietari. Con il secondo termine, si indica invece la concentrazione, in poche mani, del controllo sull’impiego della ricchezza accumulato da tutte le classi sociali. Mentre l’evidenza empirica sul primo fenomeno è abbondante, lo stesso non può dirsi per il secondo [2].
Nella seconda parte del volume gli autori presentano i propri originali risultati, che si riferiscono ad una particolare definizione di centralizzazione in termini di net control. Quest’ultima grandezza è definita come “il valore intrinseco del capitale controllato seguendo tutti i percorsi diretti e indiretti delle partecipazioni azionarie” (p. 107).
Mettendo tra parentesi i problemi metodologici [3], concentriamoci sul messaggio principale. I risultati presentati dagli autori evidenziano che la proprietà delle imprese quotate a livello internazionale è concentrata nelle mani di un nucleo ristrettissimo di azionisti. In particolare, nel 2016 l’80% del valore del mercato azionario globale era controllato dall’1% degli azionisti (p. 115), e questa quota si era in precedenza ridotta del 25% a partire dal 2001, con un’accelerazione a partire dal 2006 (p. 116).
Tra i principali controllori del mercato troviamo Vanguard, BlackRock e Fidelity (p. 119), ovvero le maggiori società di investimento statunitensi (Asset Management Firms – AMFs), insieme a molte altre società specializzate nella gestione di asset finanziari (Figura 5a).
Questo risultato è tutt’altro che sorprendente visto che il business di queste società è proprio quello di creare fondi di investimento che acquisiscono partecipazioni in altre società. Le quote di questi fondi sono collocate presso i sottoscrittori dei fondi stessi, che possono essere individui più o meno ricchi o investitori istituzionali (fondi pensione, hedge funds, compagnie di assicurazioni, banche etc.).
Questo vuol dire che le AMFs non gestiscono pacchetti azionari in proprio ma per conto dei loro clienti. In altri termini, svolgono una funzione di intermediazione che può essere, in una certa misura, assimilata all’attività bancaria. Non a caso le AMFs sono spesso associate al cosiddetto sistema bancario ombra (shadow banking system), ovvero all’insieme di entità che svolgono funzioni bancarie pur non essendo banche [4].
Il loro peso sui mercati finanziari è cresciuto dopo la crisi del 2007, perché hanno beneficiato del ridimensionamento del ruolo delle banche, maggiormente colpite dalla crisi finanziaria globale. Poiché le AMFs sono uscite rafforzate dalla crisi, non ci dovrebbe stupire che dal 2006 il controllo del mercato si sia ulteriormente concentrato nelle loro mani.
Certamente si può mettere in dubbio che le AMFs agiscano da intermediari corretti, operando nell’esclusivo interesse dei propri numerosi clienti. In effetti, molti osservatori paventano gli effetti anticompetitivi derivanti dal monopolio che queste imprese esercitano come collettori del risparmio a livello globale.
D’altra parte, proprio i risultati presentati dagli autori confermano la secolare tendenza delle imprese nel settore finanziario a costituirsi in concentrazioni monopolistiche sempre più grandi. Contrariamente a quanto pensano gli autori, tuttavia, questo non è necessariamente un male. Infatti, potrebbe darsi il caso che la tendenza verso il monopolio dipenda dal fatto che questo assetto economico sia il più efficiente per il settore finanziario, così come accade per molti altri settori.
A questo riguardo, è bene ricordare che né Marx né Lenin davano del monopolio una valutazione assolutamente negativa. Ad esempio, per Marx la centralizzazione del capitale determina la “soppressione del capitale come proprietà privata nell’ambito del modo di produzione capitalistico” prefigurando “una forma di transizione verso un nuovo modo di produzione” (p. 39). Per Lenin, invece, “il socialismo non è altro che il monopolio capitalistico di stato messo al servizio di tutto il popolo” [5].
Da un punto di vista marxista, è naturale che la società socialista prenda le mosse dal livello più elevato di sviluppo delle forze produttive raggiunto dal modo di produzione capitalistico ovvero, appunto, dal monopolio capitalistico.
La definizione di Lenin è particolarmente illuminante perché individua due condizioni fondamentali per il passaggio dal monopolio capitalistico alla costruzione del socialismo. La prima è che il monopolio sia esercitato dallo Stato. Ma questo ancora non basta, perché lo Stato stesso potrebbe essere a servizio della borghesia capitalistica. Per questo, la seconda condizione è che lo Stato sia genuinamente democratico, ovvero agisca nell’interesse della maggioranza della popolazione [6].
Se questi argomenti sono corretti, anche il monopolio nel settore finanziario richiede una valutazione articolata. I mercati finanziari assolvono al compito essenziale di far fluire velocemente i risparmi là dove servono, valutandone le migliori opportunità di impiego.
Nelle odierne economie occidental-liberiste, queste migliori opportunità sono definite dall’obiettivo della massima crescita della ricchezza di una ristretta classe borghese. In questo specifico contesto, i monopolisti privati, che controllano i mercati finanziari, agiscono nell’interesse della classe a cui essi stessi appartengono, mentre lo Stato si ritira in disparte.
Le cose stanno diversamente nelle economie in cui lo Stato mantiene il controllo sui gangli principali del sistema finanziario. Seguendo Lenin, se lo Stato in questione è borghese, agirà comunque nell’interesse prevalente della borghesia, e avremo un capitalismo borghese di Stato. Se invece lo Stato è autenticamente democratico, agirà nell’interesse della maggioranza della popolazione.
Solo in quel caso, il monopolio finanziario, esercitato dallo Stato nell’interesse del popolo, potrà diventare uno dei pilastri dell’edificazione del socialismo.
Il conflitto tra “democrazia” e “autocrazia” diventa centrale nella terza parte del volume, che abbozza una ipotetica connessione tra centralizzazione del capitale e guerra. In termini politici, il capitalismo liberaldemocratico si distingue dal capitalismo borghese di stato perché, in esso, la grande borghesia esercita un comando diretto.
Questo significa che il ruolo politico della piccola e media borghesia è ridotto ai minimi termini, e che lo Stato non svolge una funzione di mediazione tra le classi ma opera esclusivamente al servizio degli interessi della grande borghesia.
Purtroppo, le lamentele per la disgregazione dell’ordine liberaldemocratico (p. 7) e l’avversione per il “livello di accentramento dei poteri che è tipico dei sistemi politici orientali” (p. 174), espresse dagli autori, richiamano pericolosamente la profonda avversione della grande borghesia occidentale nei confronti di un potere politico che possa contrapporsi ai suoi interessi. La minaccia rappresentata da un potere di questo tipo è il contenuto reale del termine “autocrazia” che viene utilizzato dalla propaganda occidentale per denigrare i Paesi non allineati.
Per descrivere la natura delle supposte “autocrazie”, risultano nuovamente utili le distinzioni proposte da Lenin. Partiamo dalla Russia. Oggi, in quel Paese, non comanda più quella componente di borghesia che si accontenterebbe di accreditarsi con l’Occidente attraverso la svendita delle risorse naturali. Per questa componente, la privatizzazione completa dell’economia, a beneficio dei monopoli esteri, è stato il programma economico ottimale.
Il regime russo attuale è espressione di una componente più ambiziosa, che vorrebbe confrontarsi con l’Occidente su di un piano di parità e spinge per ricavarsi un maggiore spazio a livello internazionale. La Federazione Russa esercita il monopolio capitalistico di stato nell’interesse di questa componente della borghesia russa e delle sue, relativamente deboli, ambizioni.
Di conseguenza il capitalismo di Stato, in quel paese, è la conseguenza diretta della debolezza di una borghesia domestica bisognosa di protezione. È importante rilevare che l’azione dello Stato borghese russo ha delle ricadute positive, in termini relativi, per le classi popolari, perché evita la svendita delle risorse economiche nazionali, allontanando i peggiori scenari che quel Paese ha vissuto negli anni Novanta.
Tuttavia, l’affinità ideologica tra il regime russo e quelli occidentali è molto maggiore di quanto questi ultimi sono disposti ad ammettere, perché la loro natura ultima, in termini di classe, è la medesima.
Molto diverso è il caso della Cina, dove la grande borghesia è forte sul piano economico, ma impotente sul piano politico [7]. Nell’ultimo decennio la Cina è, tra i Paesi del G20, quello che maggiormente ha aumentato i salari reali (+260%), riuscendo a incrementarli anche dopo il Covid [8]. Mentre i salari reali aumentavano, e con essi i consumi della maggioranza della popolazione, il tasso di profitto diminuiva [9].
Nello stesso periodo, il governo ha intrapreso un’immensa opera di riequilibrio dello sviluppo a beneficio delle regioni interne, redistribuendo i dividendi della crescita verso tutti gli angoli del suo immenso territorio e a tutti i gruppi etnici che lo popolano. Questo sforzo è stato coronato dall’abolizione della povertà assoluta nel 2021.
La pandemia è stata gestita nella maniera comparativamente più efficace, mettendo la salute al primo posto ma consentendo al tempo stesso la prosecuzione dell’attività economica essenziale. Il governo ha mantenuto salda la sua politica di apertura e cooperazione pacifica verso tutti i Paesi, nonostante l’atteggiamento sempre più ostile e aggressivo dell’Occidente.
Per chi abbia la mente sgombera da pregiudizi, questi fatti rappresentano un’indicazione sufficiente del fatto che la Repubblica Popolare sia uno Stato autenticamente democratico e progressista, che esercita il potere politico nell’interesse della maggioranza della popolazione, facendo leva su un settore pubblico forte, trasparente ed efficiente [10].
Quando si dice che non la Russia, ma la Cina, è il vero nemico dell’Occidente, si dovrebbe intendere ciò non tanto in termini di competizione economica, ma piuttosto in termini politici. La Cina, non la Russia, è il buon esempio che la borghesia occidentale non vuole che il mondo segua.
La Russia e la Cina. Questi due Paesi, così profondamente diversi in termini economici, sociali e politici, possono davvero rappresentare, come sostengono gli autori, un nuovo asse imperialista contrapposto a quello occidentale? Quali prove concrete esistono di questa ambizione?
In effetti, gli autori non ne offrono nessuna. Implicitamente, sembrano proporre quale prova dirimente l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Ma il carattere imperialista del conflitto in Ucraina dipende dalla natura imperialista dei soggetti coinvolti, ovvero sia della NATO che della Russia [11]. Per cui quest’argomento è circolare.
In alternativa, gli autori propongono l’argomento generico secondo cui questi Paesi, in quanto creditori dell’Occidente, dovrebbero necessariamente volerne acquisire i declinanti capitali. Il conflitto sarebbe allora causato dalle barriere economiche erette dall’Occidente per impedire quest’acquisizione.
Ma le cose stanno veramente così? L’aspetto più importante da considerare, a questo riguardo, concerne la sovrapproduzione di capitale, che rappresenta la base materiale dell’imperialismo perché, secondo il ragionamento canonico, pone la borghesia di un Paese di fronte alla necessità di esportare i capitali in eccesso e quindi di assicurarsi le condizioni politiche per la loro valorizzazione all’estero, tramite la sottomissione di altri Paesi.
Ebbene, considerando i flussi di investimenti diretti esteri, ovvero quelli propriamente orientati al controllo del capitale, risulta che sia la Russia sia la Cina siano importatrici nette di capitali [12].
Come si spiega allora la posizione creditoria complessivamente positiva di questi Paesi? Al riguardo occorre considerare che la struttura delle loro attività estere è molto diversa da quella delle loro passività verso l’estero.
Tra le attività predominano quelle detenute a titolo di riserva, ovvero a scopo precauzionale, da soggetti pubblici, quali la Banca Centrale o i Fondi Sovrani [13]. Tra le passività predominano invece gli investimenti diretti dall’estero, orientati a sfruttare la manodopera e le risorse naturali dell’economia domestica.
Mentre gli investimenti diretti sono molto redditizi, i titoli detenuti come riserva sono generalmente più sicuri e a basso rendimento, come i titoli di Stato. Quindi, a parità di capitale investito, detenere riserve comporta una perdita per l’economia domestica e un trasferimento netto di risorse a beneficio degli investitori esteri.
Inoltre, le riserve non possono essere massicciamente convertite per l’acquisto di beni e servizi provenienti dall’estero, perché gli Stati Uniti e altri paesi capitalisti sviluppati non hanno la capacità per produrre i beni e servizi corrispondenti al valore delle riserve detenute da Russia e Cina.
In definitiva, come sottolinea l’economista Minqi Li riferendosi alla Cina (ma il ragionamento vale allo stesso modo per la Russia), “dal punto di vista degli Stati Uniti, l’accumulo di riserve di valuta estera da parte della Cina […] le ha essenzialmente permesso di acquistare migliaia di miliardi di dollari di beni cinesi in gran parte stampando denaro senza fornire in cambio alcun bene materiale.
Le attività di riserva della Cina, piuttosto che essere una parte della ricchezza imperialista cinese, costituiscono essenzialmente il tributo informale della Cina all’imperialismo statunitense pagando il “privilegio di signoraggio” di quest’ultimo.” [14]
Data questa situazione, gli autori sembrano suggerire che Russia e Cina possano essersi stufate di pagare il proprio tributo e per questo abbiano intrapreso la via della guerra contro l’Occidente. Sembra però sfuggire loro il fatto che non esiste un legame necessario tra la premessa (emanciparsi dalla tutela occidentale) e la supposta conseguenza (muovere guerra all’Occidente).
Lungi dall’interessarsi di quest’ultimo, l’attenzione del nuovo, ipotetico, polo imperialista russo-cinese sembra andare piuttosto nella direzione della cooperazione Sud-Sud. Dalla crescente importanza di piattaforme multilaterali alternative, quali i Brics e l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, al rapido sviluppo di rapporti commerciali e finanziari sganciati dalle infrastrutture occidentali, i segnali che vanno in questa direzione si stanno moltiplicando.
A ben vedere, la via della cooperazione Sud-Sud è senz’altro più promettente, perché le potenzialità di sviluppo del Sud globale sono molto maggiori di quelle del Nord globale. Ma, se questo è vero, il controllo sui capitali occidentali non ha affatto per l’asse russo-cinese quel valore irrinunciabile che gli autori gli attribuiscono.
Con ciò viene a cadere la motivazione principale alla base della loro supposta aggressività. Al contrario, è proprio l’Occidente ad aumentare sempre di più la propria aggressività sul piano economico, finanziario, diplomatico e militare, allo scopo di far deragliare le aspirazioni di emancipazione e di sviluppo di un Sud globale non più relegato al ruolo di periferia occidentale.
Sottomettendo la Russia e la Cina, l’Occidente imperialista potrebbe riuscire ad affossare queste aspirazioni per un altro secolo ancora. Ne consegue che la politica russo-cinese vada interpretata in termini difensivi e non offensivi, all’opposto di quanto sostengono gli autori.
Note
1) E. Brancaccio, R. Giammetti, S. Lucarelli, La guerra capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista, Mimesis, 2022.
2) Sulla concentrazione della ricchezza si veda ad esempio il World Inequality Database: https://wid.world/. Tra le evidenze più recenti si veda https://www.oxfam.org/en/research/survival-richest.
3) A bene vedere, i dettagli del calcolo di questa quantità sono piuttosto intricati. In particolare, l’algoritmo di calcolo adottato richiede numerosi aggiustamenti discrezionali (vedi Appendix S1 in Vitali S, Glattfelder JB, Battiston S (2011) The Network of Global Corporate Control. PLoS ONE 6(10): e25995.). Inoltre, la nozione di controllo indiretto è piuttosto aleatoria, perché si basa non su un controllo effettivo ma su una presunzione di controllo derivante da partecipazioni concatenate. Queste limitazioni suggerirebbero l’opportunità di confermare la validità dei risultati presentati dagli autori confrontandoli con quelli che si possono ottenere da altri algoritmi o da modificazioni dello stesso algoritmo. Questo allo scopo di escludere che si possano ottenere risultati significativamente differenti dai loro se si impiega una metodologia diversa.
4) Le AMFs cercano di respingere questa assimilazione a causa del rischio di maggiore regolazione che ne potrebbe derivare. Vedi https://www.blackrock.com/corporate/literature/whitepaper/viewpoint-taking-market-based-finance-out-of-the-shadows-february-2018.pdf.
5) Vedi https://www.sinistrainrete.info/marxismo/11954-vladimiro-giacche-il-concetto-di-capitalismo-di-stato-in-lenin.html.
6) “Ma provatevi un po’ a sostituire allo Stato degli Junker e dei capitalisti, allo stato dei grandi proprietari fondiari e dei capitalisti, uno Stato democratico rivoluzionario, uno Stato, cioè, che distrugga in modo rivoluzionario tutti i privilegi e non tema di attuare in modo rivoluzionario la democrazia più completa! Vedrete che il capitalismo monopolistico di Stato, in uno Stato veramente democratico rivoluzionario, significa inevitabilmente e immancabilmente un passo, e anche più d’un passo, verso il socialismo”, Ibid.
7) Per capire la differenza tra il sistema politico occidentale e quello cinese basterebbe in effetti considerare le recenti vicissitudini del fondatore di Alibaba, Jack Ma, contrapponendole all’intoccabilità dei vari Bill Gates occidentali. In generale, il socialismo con caratteristiche cinesi si appoggia sulla possibilità che “l’espropriazione politica […] della borghesia non implica necessariamente l’espropriazione del suo intero capitale economico”, vedi Herrera, R., Zhiming, L., “La Cina è Capitalista?”, MarxVentuno Edizioni, 2021, p. 79.
8) Vedi p. 52 in https://www.ilo.org/digitalguides/en-gb/story/globalwagereport2022-23.
9) Vedi Figure 2 e 4 in Macheda, F., & Nadalini, R. (2022). China’s Escape from the Peripheral Condition: A Success Story? Review of Radical Political Economics, 54(1), 59–82.
10) In questo giocano un ruolo di primo piano le incisive campagne anticorruzione che, non a caso, sono additate dalla stampa occidentale come uno dei più evidenti segni della natura autocratica del regime cinese.
11) Vedi https://www.retedeicomunisti.net/2022/09/19/la-russia-e-un-paese-imperialista/.
12) Per il 2020 i dati della Banca Mondiale evidenziano posizioni nette negative rispettivamente di 581 miliardi di dollari per la Cina, e di 68 miliardi per la Russia.
13) La funzione primaria delle riserve in valuta estera è quella di proteggere l’economia domestica dalle fughe di capitali, sostenendo all’occorrenza il valore della valuta nazionale.
14) Minqi Li, China: Imperialism or Semi-Periphery?, in Monthly Review, July-August 2021, 73(3).
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