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30/10/2012

L’Iran, la sua politica estera e il programma nucleare

Il costante allarmismo per una possibile azione militare israeliana, contro gli impianti nucleari iraniani, ha caratterizzato il dibattito mediatico nei mesi appena trascorsi. In realtà sono fermamente convinto che così come oggi non è imminente un’azione militare contro Teheran, non lo sarà nemmeno nei prossimi mesi. La complessità della situazione richiederebbe un’analisi approfondita, su questioni specifiche come la politica estera iraniana (effettivo contesto all’interno del quale deve essere considerato e commisurato il programma nucleare iraniano), le caratteristiche specifiche di tale programma nucleare, nonché le strategie di contenimento attuate da Stati Uniti e Israele e le conseguenze che un Iran dotato delle tecnologia nucleare miliare causerebbe sulla scena politica internazionale. Per motivi di spazio suddivideremo questa analisi in più articoli. Oggi ci limiteremo a trattare alcuni aspetti fondamentali della politica estera iraniana, doverosa premessa ad ogni futura considerazione.

Considerazioni sulla Politica Estera Iraniana

Da circa un decennio è in corso un rinnovato tentativo, da parte della teocrazia iraniana, di porsi come principale attore politico regionale. Un obbiettivo perseguito tramite una politica estera a tratti aggressiva, volta all’espansione delle proprie sfere di influenza.

In un’analisi oggettiva della situazione, non può non essere sottolineato come i vertici del regime iraniano abbiano percepito il proprio stato come costretto in una condizione di accerchiamento, contrastato da attori ostili e obbligato alla reazione di fronte a sfide non eludibili. Il regime iraniano ha quindi caratterizzato la sua azione sul piano diplomatico come diretta conseguenza di questa percezione. I fattori che hanno contribuito a determinare questa situazione sono stati diversi e differenziati. La crescente presenza militare statunitense nella regione, unitamente ad una politica estera permeata da una percezione unipolare e incentrata quasi esclusivamente sulla logica di potenza.

La volontà del governo turco di Erdogan di divenire il nuovo attore strategico principale nell’area del Mediterraneo. La crescente influenza del Pakistan, nuova potenza nucleare. La necessità del governo iraniano di porsi come valido interlocutore in un confronto con la potenza cinese, diplomaticamente attiva nella regione e partner commerciale di primaria importanza. Nonché la costante competizione con gli stati sunniti della penisola arabica, percepiti come potenziale minaccia sia per l’accesso al Golfo Persico, sia per la gestione delle fonti energetiche in chiave regionale e nei mercati globali.

Questa percezione ha trovato un naturale innesto su alcuni tratti culturali caratteristici e su aspettative storicamente consolidate interne al regime iraniano. Queste minacce esterne sono divenute un valido sostegno per gli uomini più intransigenti presenti ai vertici del regime teocratico di Teheran, i quali per un decennio hanno potuto dettare le linee di una politica estera aggressiva e volta al contrasto, anche violento, delle minacce, riducendo in minoranza le voci contrarie interne al regime.

Il programma nucleare iraniano è un fattore di importanza primaria nella politica estera iraniana, derivante e direttamente legato sia alla percezione delle minacce esterne, sia a questa conduzione della politica estera da parte dell’ala più radicale del regime teocratico.

Oltre ai rapporti internazionali di politica estera consolidatisi nello scorso decennio, l’Iran si è trovato di fronte a due sfide regionali nei confronti delle quali non avrebbe potuto rinunciare ad agire, ovvero: l’invasione e la successiva guerra civile irachena e la crisi afghana.  Entrambe queste crisi, ancora oggi non completamente risolte, hanno aperto scenari all’interno dei quali un’eventuale assenza di attori iraniani, o filo iraniani, avrebbe relegato Teheran ad un mero ruolo marginale nella regione. In particolar modo con il venir meno del regime iracheno,  naturale contrappeso politico all’espansionismo iraniano, le potenze occidentali non hanno saputo contrastare efficacemente l’azione iraniana, facilitando Teheran nella sua ascesa ad attore regionale di rango primario.

L’ Iran ha supportato alcuni gruppi sciiti durante la lunga guerra civile irachena, contribuendo in maniera sostanziale alla destabilizzazione del paese. Ancora oggi nel sud Iraq la teocrazia iraniana è in condizione di poter manipolare l’economia gestendo il mercato nero e i relativi flussi di merci e denaro dalle zone confinanti dell’Iran. Inoltre ogni qual volta i rapporti di potere all’interno del parlamento e del governo iracheno variano e si scontrano apertamente con gli interessi iraniani, questi ultimi intervengono impartendo precise direttive alle milizie armate sciite irachene. Un’attività simile è stata posta in essere anche in Afghanistan, dove Teheran non ha rinunciato ad influenzare la politica interna dello stato, ottenendo però risultati minori.

Sia in Iraq che in Afghanistan, Teheran è intervenuta sostenendo attori non statuali. Un caso simile ma che ha portato a risultati ben più consolidati riguarda Hezbollah in Libano. In questo paese gli iraniani oltre ad aver avuto modo di creare e gestire un proprio fronte militarizzato contro lo stato di Israele, hanno sostenuto economicamente la creazione di uno stato nello stato all’interno del sud del Libano, con scuole, infrastrutture indipendenti e garantendo servizi sociali. Fornendo anche un supporto militare diretto durante la guerra fra Israele e Hezbollah nel 2006. Ciò si è reso possibile grazie alla compiacenza di un altro alleato regionale, lo stato siriano di Assad, il quale ha concesso per anni libertà di movimento al costante flusso di aiuti e rifornimenti iraniani indirizzati nella valle libanese della Bekaa. Oggi è lo stesso Assad a ricevere aiuti da Teheran, nel tentativo disperato di mantenere il controllo dello stesso stato siriano.

Un altro attore non statuale con cui Teheran ha intrattenuto importanti rapporti è Hamas. Nella striscia di Gaza l’Iran ha, per alcuni anni, trovato un valido alleato, spingendosi al punto da plasmare una stranissima alleanza fra forze sciite e sunnite. Il tentativo è stato quello di riproporre il modello di organizzazione e supporto attuato con Hezbollah nel sud del Libano. Ma questa strategia, ha portato Teheran dal tentativo di divenire nuovo protettore e garante della causa palestinese ad un fallimento non indifferente. L’ alleanza sembrerebbe essere venuta definitivamente meno proprio in questi ultime settimane, con l’abbandono della Siria da parte dei vertici in esilio di Hamas, i quali in un primo momento non hanno risparmiato critiche nei confronti dell’ex protettore Assad e successivamente si sono rivolti ai loro vecchi alleati sunniti del Qatar.

Questi ultimi si sono dimostrati ben interessati a tornare a ricoprire il ruolo di protettori di Hamas. La visita a Gaza dell’ Emiro del Qatar al-Thani, avvenuta nelle scorse ore rappresenta una primo significativo fallimento della politica estera iraniana nella regione. Fallimento che si rifletterà inevitabilmente sulle tensioni diplomatiche che contrappongono la diplomazia di Teheran e gli stati sunniti della penisola arabica, per il controllo di alcune isole del Golfo Persico composte in maggioranza da popolazione sciita e potenzialmente destabilizzanti per i regimi sunniti che tentanto di mantenerle sotto il proprio controllo politico.

Un altro importante insuccesso della politica iraniana è giunto con le rivolte sociali dello scorso anno, che hanno caratterizzato la cosiddetta “Primavera Araba ”, dando  luogo ad una serie di cambiamenti politici senza precedenti in diversi stati arabi. Durante queste rivolte nessuno ha guardato a Teheran e alla Rivoluzione Iraniana, ne come esempio, ne come modello da perseguire. Differentemente lo sguardo dei manifestanti e le richieste di aiuto sono sempre state costantemente rivolte ad occidente.

Vi è poi l’incognita legata alla possibile destabilizzazione del vicino regime siriano. Anche senza un eventuale caduta del regime di Bashar al Assad, Teheran potrebbe vedere la Siria sprofondare in un aspro confronto armato fra fazioni interne. Con un eventuale intervento anche solo indiretto di attori esterni come la Turchia e le milizie libanesi,  lo stesso stato iraniano potrebbe venir costretto in un confronto lungo e logorante, con un inevitabile dispendio di risorse. Differentemente qualora il regime di Assad dovesse cadere, Teheran potrebbe perdere la principale via di supporto e rifornimento a Hezbollah in Libano. Conseguentemente la sua capacità di influenza nella vita politica interna di questo paese potrebbe venir drasticamente ridotta.

In via definitiva la politica estera iraniana è stata chiaramente espansiva e aggressiva, durante lo scorso decennio, aspetto che ha turbato i governi di diversi stati fra cui, oltre a Israele e gli Stati Uniti, i regimi sunniti del Golfo Persico, la Turchia e lo stesso Egitto. Nonostante ciò la diplomazia iraniana  ha anche dovuto affrontare significative battute di arresto. Questi fallimenti sono risultati maggiormente accentuati ogni qual volta a Teheran è mancata la capacità di incidere con la forza e con la logica di potenza all’interno degli scenari politici.

In quest’ottica il programma nucleare iraniano assume un ruolo particolare e significativo, divenendo uno strumento fondamentale dell’agire politico iraniano sul piano internazionale.

di Lorenzo Adorni, 26 ottobre 2012

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