Il presidente gira a vuoto e diventa ripetitivo. La crisi consuma anche il suo ruolo di garante del "montismo" ad ogni costo.
La strada per uscire dalla crisi passa da «ulteriori trasferimenti di
poteri decisionali e di quote di sovranità» alle istituzioni europee,
impegnate, sulla base del «dato irrinunciabile della moneta comune», ad
«andare avanti, con determinazione e realismo», nell'approfondimento
dell'unione economica e monetaria «sia nel campo della finanza e delle
banche, sia in quello delle politiche economiche e di bilancio».
La milionesima “esternazione” di Giorgio Napolitano fa ricordare quasi
con tenerezza le analoghe sortite di Cossiga, anche se bisogna ammettere
che “il picconatore” ha fatto molti meno danni alla Costituzione di
quanti non ne abbia apportati l'attuale “custode”.
Il presidente qui unisce due elementi della realtà che hanno un rapporto al tempo stesso forte e debole: la crisi economica e il processo di costruzione dell'integrazione europea.
L'obietivo è dichiarato: «ulteriori trasferimenti di poteri decisionali
e di quote di sovranità» alle istituzioni europee come unica via per
“uscire dalla crisi”. Si potrebbe chiedere a greci e portoghesi, più
avanti di noi su questa strada (praticamente commissariati), se davvero a
loro risulta un qualche vantaggio. Napolitano e Monti ci
risponderebbero che sì, ora stanno soffrendo, ma poi andrà molto meglio.
“Provare per credere”, un po' come lo slogan del mobiliere Aiazzone,
più volte fallito e indagato.
Battute a parte, Napolitano prova a
incardinare un “discorso pubblico” da cui sia vietato fuoriuscire,
fondato su moneta unica, poteri sovrani sovranazionali e “soluzione
della crisi”.
Dicevamo che il rapporto tra questi elementi è
forte, se si ragiona in termini neoliberisti o keynesiani, perché si
attribuisce in qualche misura alla “politica” (europea, non più
nazionale) il compito di governare la nave nella tempesta. Fosse vero,
la retorica del presidente avrebbe un senso. Ma non è affatto così. La
“governance” effettiva è affidata alle scelte dei “mercati finanziari”,
che possono autonomamente decidere con un battito di ciglia di assalire e
distruggere una moneta o un singolo paese, ovunque nel mondo. Non è
così perché le uniche decisioni “politiche” prese in sede europea
riguardano le politiche del lavoro e del welfare, ovvero le “variabili
di base” che consentono un trasferimento netto di risorse in direzione
dei capitali. Senza però poter affatto garantire che questo
trasferimento sia appropriato in misura adeguata dall'”economia reale”
invece che dalla pura finanza. Insomma, senza alcuna possibilità di
determinare “crescita” a partire da una maggiore “competitività” del
costo del lavoro e della sua riproduzione sociale.
I manuali di
macroeconomia neoliberista spiegano che questo dovrebbe avvenire quando
si comprimono salari e consumi. Ma questo è proprio quello che non
avviene, rendendo inutili o addirittura dannose tutte le “politiche di
rigore” messe in moto dalla troika (Bce, Ue e Fmi). Anzi, il presidente è
così chiuso nella sua ripetitiva asserzione di un “triangolo delle
Bermude” (moneta unica, stato sovranazionale europeo e politiche di
bilancio resttrittive) da non aver ancora colto e metabolizzato la
“svolta” abbozzata dal soggetto più globale della troika: il Fondo
monetario internazionale.
IlColle ha infatti insistito sulla
necessità che l'Italia e gli altri paesi europei perseverino
«nell'azione riformatrice tesa a superare i problemi strutturali che
intralciano la competitività della sua economia, e insieme portare
avanti il processo di miglioramento strutturale dei conti pubblici e
quindi di decisiva riduzione del debito».
Vien da pensare che
Napolitano, a suo tempo favorevole all'invasione dell'Ungheria, nel
1956, sia passato armi e bagagli dalla fedeltà a prescindere al
“socialismo reale” alla fedeltà a prescindere nei confronti del
“capitalismo reale”. In entrambi i casi, coprendo con l'ideologia il
vuoto di pensiero critico.
Fonte
Verrà il giorno in cui potrò ascoltare parole del genere da un politico?
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