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26/10/2012

Mettere un freno al “giustizialismo”

Cosa hanno in comune notizie come quella del bambino di Padova prelevato di peso dalla polizia, e quelle delle querele di Carofiglio a Ostuni e di Serra a Bersani? E cosa c’entra tutto questo con la legge anticorruzione che è un ovvio fallimento annunciato? O la condanna di Sallusti e la nuova legge limitativa della libertà di stampa? O con il sempre più frequente ricorso della Fiom a forme di lotta legali piuttosto che propriamente sindacali? Apparentemente nulla, ma se ci fate caso c’è un filo rosso che le lega: l’irragionevole aspettativa di risolvere qualsiasi conflitto in sede giudiziale. Non si tratta di un fenomeno solo italiano ma di una tendenza culturale in qualche modo commessa con l’ondata neo liberista, ma su questo ritorneremo a breve, qui limitiamoci all’orticello di casa.
A partire dai primi anni novanta si è diffusa una idea assai pericolosa per cui all’idea di giustizia sociale si è sostituita quella di giustizia dei codici ed al conflitto sociale quello nelle forme giudiziarie. Non nego affatto che il conflitto sociale possa passare anche per le aule dei tribunali (ci mancherebbe!) e bene fa la Fiom a far valere i suoi diritti contro la Fiat nelle sedi giudiziarie, ma sia chiaro che se sei costretto a ricorrere al giudice ordinario, vuol dire che stai messo male dal punto di vista dell’efficacia delle forme di lotta come lo sciopero ecc: è una ammissione di debolezza.

Pertanto, nego decisamente che questo possa sostituire e riassorbire il conflitto di classe (toh che strana e vecchia espressione mi è sfuggita! Scusatemi… è l’età…).

Il primo punto, su cui occorre rimettere i puntini sulle i, è questo: non tutte le relazioni umane sono decidibili in sede giudiziaria, non tutte le ragioni si possono far valere davanti ad un giudice e ci sono materie in cui il magistrato deve tenersi accuratamente ai bordi, evitando solo quello che può danneggiare diritti fondamentali ed accertabili.

Ad esempio i rapporti interpersonali come quelli di famiglia. E partiamo da un punto: non esiste un diritto ad essere amati anche se un padre, un fidanzato, una moglie ecc possano avere ragionevoli aspettative in questo senso. L’amore o te lo conquisti sul campo o non c’è giudice che te lo può rendere. Non si può ordinare ad un bambino di “resettare i suoi equilibri affettivi” come se fosse un Pc. Di questo passo che facciamo, ammettiamo anche la costituzione in giudizio del fidanzato lasciato dalla ragazza? Ordiniamo alla ragazza di “resettare” le sue diverse scelte amorose? Magari, alla fine, un magistrato tanto ansioso di conoscere la gloria dei quotidiani (o magari tanto demente) da farlo, prima o poi, sbuca,  ma forse, proprio per questo è arrivato il momento di mettere un freno. Ma, voi mi direte, un conto è la volontà di una ragazza maggiorenne o, comunque, capace di intendere e di volere ed un conto è un bambino che è influenzabile ed ancora non sa bene cosa volere. Questo è l’errore: non capire che un bambino, anche di 10 anni ha un foro interiore di fronte al quale anche il magistrato deve arrestarsi, perché non ha diritto di entrare. Farlo è un gesto odioso ma soprattutto inutile: non si può forzare la volontà di un essere umano, solo perché minore. Dopo che mia madre mi fece una cosa simile, non le rivolsi più la parola per 21 anni. Ci furono magistrati di cui serbo memoria assai negativa (Antonio Lorusso, Mario Cappabianca…) ed altri di cui la ho positiva (Giuseppe Frisari, Leonardo Rinella…): come vedete, nonostante sia passato quasi mezzo secolo da quei fatti, li ricordo tutti nome per nome. Ho sempre avuto buona memoria, ma non si tratta solo di questo. Non fate mai l’errore di sottovalutare i rancori dei più giovani: sono eterni.

Dunque, la giustizia dei codici e delle toghe ontologicamente non ha strumenti per entrare in certe questioni e deve limitarsi a tutelare gli interessi del minore, prima di tutto rispettandone la volontà. Contro questa non esistono diritti di sorta del genitore.

In altri casi, come il conflitto sociale, la giustizia dei tribunali può avere effetti positivi ma inevitabilmente parziali, perché costitutivamente il potere giudiziario non  può creare la norma ma solo interpretarla e la norma è sempre in ritardo sulle dinamiche sociali. Dunque il giudice non può che avere un ruolo conservativo, perché il suo compito è quello di tenere l’ordine sociale (non cambiarlo) e farlo nei limiti delle norme scritte. Negli anni settanta Magistratura Democratica ebbe un ruolo progressivo perché interpretò le norme ordinarie (che erano molto “indietro” sui tempi) alla luce della Costituzione (che era assai più avanzata), e questo fece nascere un equivoco duro a morire: quella era una situazione eccezionale non ordinaria. Ci fu qualche autorevole giurista che arrivò a scrivere che il magistrato del lavoro, nel processo di emancipazione dei lavoratori, è “quantomeno deuteragonista” insieme all’organizzazione sindacale. Un delirio totale: i processi sociali spettano alle forze sociali, i magistrati facciano il loro mestiere mantenendosi terzi, non abbiamo bisogno di fiancheggiatori di questa specie.

E così si capisce che la giustizia dei tribunali non è neppure idonea a curare patologie sociali come la corruzione. Può e deve intervenire per punire chi si corrompa, ma questo significa che interviene a danno fatto. Noi invece, più che punire il corrotto (ed il corruttore) vogliamo prevenire il fenomeno scoraggiando i corruttori, rendendo trasparenti e controllabili le decisioni del potere pubblico, avvicendando gli amministratori, svolgendo un monitoraggio continuo ecc. tutte cose che non è la magistratura penale a poter fare. Il limite dell’azione di contrasto alla corruzione, in questi anni, è stata questa riduzione al solo aspetto penale, con atteggiamenti da grida manzoniane.

Mani pulite è stata un disastro per la cultura civile di questo paese,  introducendo una certa quantità di idee sbagliate, a cominciare da questa ideologia del giudice vendicatore. Si era già cominciato con la lotta al terrorismo, quando nei titoli dei giornali e nelle relazioni ufficiali campeggiavano bestialità del tipo: “La magistratura contro il terrorismo”, poi abbiamo cominciato con “la magistratura contro la mafia” “contro la corruzione” ecc ecc. Insomma, il “giudice con l’elmetto”. Tutto questo ci ha fatto dimenticare che alla magistratura non spetta il compito di combattere il terrorismo, la mafia, la corruzione o qualsiasi fenomeno sociale e politico. Questi sono compiti della politica. Al potere giudiziario spetta il compito di giudicare se quel determinato cittadino ha fatto o no quel particolare reato: nella gabbia degli imputati ci sono singole persone in carne ed ossa, non la mafia, il terrorismo o la corruzione.

Questo spostamento sul solo aspetto della politica penale ha finito con il determinare un’usurpazione di ruoli che è uno degli aspetti non marginali della cultura anti politica di questi venti anni. Ci sono, poi, inidoneità funzionali per le quali è bene che una certa quantità di comportamenti vengano sottratti alla decisione giudiziaria, per evitare un ulteriore aggravio delle condizioni del sistema. Parlo di reati come l’ingiuria, la diffamazione (non la calunnia che, invece è bene che resti come reato) le percosse (non le lesioni) ecc. ed, ovviamente dei riscorsi in sede civile per questi comportamenti. Mi ha molto divertito l’alzata di scudi dei miei amici avvocati sulla questione Carofiglio-Ostuni in difesa del diritto del primo di dolersi per le offese ricevute. Ma, cari amici magistrati ed avvocati, non siete capaci di farci avere sentenze su cose molto più serie in tempi decenti e ci venite a dire che dobbiamo occuparci di queste bazzecole?! Questo è il paese in cui i procedimenti penali, sino a sentenza definitiva, hanno una durata media dai 5 ai 7 anni (la media varia da distretto giudiziario a distretto), le cause civili durano in genere 9 anni. E pensate che ci si debba occupare di scemenze del genere?  Non vi accorgete che è lo stesso presupposto che legittima cose indecenti, come la condanna al carcere di Sallusti usata dai politici come pretesto per infliggere un nuovo giro di vite alla libertà di stampa?

Capisco che ogni categoria difenda il suo lavoro, ma se proprio non vogliamo depenalizzare certi comportamenti e circoscrivere la proponibilità dell’azione civile, facciamo almeno una cosa: dividiamo i reati in tre fasce, A, B e C, in base alla gravità stabilita  dalla pena comminata e stabiliamo che il magistrato possa occuparsi dei casi di fascia B quando ha esaurito tutti quelli di fascia A, quindi di quelli di fascia C quando ha esaurito anche quelli di fascia B. Che ne dite? Con i tempi della giustizia italiana, secondo voi, quante cause C arriverebbero in discussione?

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