Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

26/10/2012

C'era una volta Berlusconi. Un inedito

La rinuncia di Silvio Berlusconi alla candidatura per le prossime elezioni accompagna il terremoto politico in atto nella politica ufficiale. Largamente attesa, di fatto Berlusconi aveva concluso la sua parabola politica con la sconfitta alle amministrative di Milano, ma ancora inesplorata nelle conseguenze. Visto che ci sarà tutto il tempo per comprendere gli effetti, politici e nel mercato della comunicazione, di questa uscita di scena proponiamo un inedito riguardante le origini dell'ascesa politica del cavaliere. Il testo è tratto da un diario, che una volta editato dovrebbe uscire a primavera, dedicato proprio al lungo periodo della permanenza di Berlusconi in politica. Vi si trovano ricordi personali dell'autore, impressioni, spunti, citazioni, divagazioni. Ma vi si trova soprattutto una ricostruzione delle origini. Quanto tutto cominciò, ben prima della primavera del 1994. Buona lettura. (red) 24 ottobre 2012
***

“Sei un imperatore”. Vent’anni accompagnati da Berlusconi
Giardini di Les Halles, Parigi, marzo 1990
 
Ci si potrebbe dilungare con particolari molto divertenti su cosa significava seguire il calcio italiano all’estero prima di Internet. Partite ascoltate faticosamente via radio che svanivano prima dei tempi supplementari, perché la frequenza Rai era troppo debole, la speranza che le squadre francesi subissero una precoce eliminazione per lasciar posto a quelle italiane nelle trasmissioni in diretta, la ricerca sistematica delle edicole che vendessero la Gazzetta ad un’ora decente.
Avevo trovato un’edicola davanti all’entrata principale dei giardini del Luxembourg, c’è ancora e scoppia di giornali come sempre, alla quale consegnavano le principali testate italiane fin dalle nove del mattino. Ormai i gestori si erano abituati alla mia presenza, immancabile il giorno dopo un’importante incontro delle coppe europee, e anche quel giovedì di marzo mi presentai puntuale. Si era giocato il giorno prima Milan-Malines, ritorno dei quarti di finale di Coppa dei Campioni, e non sapevo neanche il punteggio. Detti un’occhiata veloce al risultato mentre pagavo, con il gesto goffo del tifoso che dall’estero si concentra immediatamente sul calcio del proprio paese. A prescindere da dove è e da cosa sta facendo. Mi misi il giornale in borsa progettandone la piena lettura ai giardinetti di Les Halles. La giornata era grigia ma non fredda e non dovevo seguire seminari che nel primo pomeriggio. La lettura dei giornali, non solo sportivi, in un giardino pubblico è una di quelle pratiche di distensione e di riflessione che spero vivamente sopravviva nel ventunesimo secolo. Non è questione di piattaforma, l’Ipad e i modelli che verranno si prestano benissimo al rito, e ne va della salute personale e di quella pubblica e dell’uso collettivo, complice, rilassante e silenzioso dello spazio urbano.
Bene, quel giorno una premonizione netta, profonda attraversò il rito della serena lettura del giornale nei giardini parigini. Nelle nostre culture contemporanee, una volta svanita l’egemonia del linguaggio oracolare e religioso, si sono generati  miriadi di generi di premonizioni. Il peggiore, quello che non trova conforto negli aspetti personali del vissuto, è quello legato all’immaginazione sociologica. Perché l’inquietudine, che immancabilmente genera, non si risolve nella pratica dell’introspezione ma si placa solo osservando le evoluzioni della complessità sociale. Siccome interrogare la complessità sociale è un’operazione che ha i caratteri di una sfida con la sfinge, l’inquietudine dell’immaginazione sociologica non si placa così facilmente. Specie poi se, nel dipanarsi degli eventi, la premonizione sembra trovare conferma. Il rischio è quello di avere la sensazione di essere posseduti da una personale sindrome di Cassandra, detenere il dono della profezia legato indissolubilmente alla disgrazia di non essere ascoltati. E per come sono fatte adesso le nostre società è facile non essere ascoltati: anche il clone di Aristotele, lontano da microfoni e telecamere, finirebbe oggi confinato nella dimensione di un genere minore di spettacolo. Ammesso, e non concesso, che il suo pensiero sia riproducibile in termini di spettacolo. E dall’inizio degli anni ’80 o la tua voce si integra con i suoni dello spettacolo o non ha significato socialmente rilevante. In fondo niente di drammatico, anche lo spettacolo è un linguaggio complesso e permeabile, ma piuttosto di maledettamente difficile. Perché le nostre società sono strutturate per separare il significato prodotto dallo spettacolo da quello generato da altre fonti di significazione. Perché lo spettacolo ha preso l’egemonia su linguaggi e comportamenti e i poteri che contano non hanno certo perso l’occasione di cavalcarlo.
Stavo leggendo la cronaca della vittoria del Milan contro il Malines ai tempi supplementari. Doppietta di Van Basten, l’unico centravanti che si sia mai visto in grado di segnare tirando, con forza, la palla contro il terreno per farla rimbalzare oltrepassando il portiere per finire poi in rete. Fin qui eravamo su cronache conosciute e felicemente propedeutiche alla dimensione distensiva. Verso la fine dell’articolo avverto un netto salto nel tono, e nell’argomento, della cronaca. Ricordo come se leggessi adesso la descrizione di uno spettatore anonimo, esaltato per la vittoria che spalancava al Milan le porte della seconda semifinale consecutiva di Coppa dei Campioni, che si avvicinò a Berlusconi, dopo il fischio di chiusura, urlandogli in faccia “sei un imperatore”.  Ma con la forza, evidentemente rimasta impressa anche nel cronista, del testimone invaso dalla coscienza di aver assistito non ad un evento sportivo ma ad uno storico. Ebbi l’impressione netta che a Milano, in Italia, stesse succedendo qualcosa che avesse ormai poco a vedere, con il passaggio ad una semifinale, con una vittoria ai supplementari, con lo stesso calcio. L’accumulo di potenza sociale, ottenuto da Berlusconi tramite le televisioni e il calcio lungo tutti gli anni ’80, aveva generato qualcosa. Che si stava irrimediabilmente avvicinando alla politica. Anche allora, e in un luogo dove finalmente avevo appreso a leggere Georges Bataille nei labirinti della lingua originale, consideravo il calcio e lo spettacolo in genere come qualcosa di diverso da un processo di sonnambulismo organizzato su larga scala. Insomma i modi con i quali la letteratura politica, specie a sinistra, ha sempre letto questi fenomeni non centravano quello che Berlusconi già allora centrava benissimo. E qui bisogna fare qualche considerazione. La sinistra occidentale, specie quella istituzionale che deve governare in qualche modo ampi strati di società, nel novecento ha avuto rispetto alle masse un comportamento che rielaborava quello diventato prassi nella chiesa cristiana. Ce lo descrive efficacemente Canetti nel suo Massa e potere quando parla della chiesa cristiana che si fonda su un dispositivo di governo nel timore delle masse. La potenza delle masse deve essere governata da riti e retoriche che ne neutralizzino in qualche modo il potenziale ritenuto selvaggio e quindi socialmente distruttivo. La sinistra occidentale, una volta al potere o prossima al governo, ha rielaborato molto di questi dispositivi. Chi abbia visto con queste lenti La vie est à nous di Jean Renoir del 1936 coglierà un aspetto essenziale di questo film di propaganda elettorale. In un momento drammatico per la Francia e per l’Europa, dove gli eventi svoltano verso una corrente della storia punteggiata di atrocità, il partito comunista francese presenta un film di propaganda dove sfilano masse ordinate, determinate ma paradossalmente quiete. La presentazione delle gerarchie del Pcf si intreccia puntualmente, nel montaggio di Renoir, con la disponibilità al controllo data loro da masse cantanti ma ordinate. Dal punto di vista iconografico non c’è stalinismo, i cui richiami simbolici sono una pura concessione alla forma, ma rielaborazione del dispositivo di governo nel timore delle masse costruito, secondo Canetti, dalla cristianità. Dal punto di vista della propaganda (la dottrina è un’altra cosa) se il leninismo si fondava sull’entusiamo delle masse, e lo stalinismo sulla loro produttività, Renoir ci rende delle masse che, proprio perché ordinate e governate, non suscitano timori. Non a caso si tratta di un film di propaganda elettorale: il messaggio da trasmettere all’intero elettorato è di forza ma anche di affidabilità e persino di docilità delle masse grazie alla loro incondizionata fiducia nei dirigenti. La forza operaia, governata dai dirigenti, non suscita quindi timori. E’ pronta quindi per una società capitalistica complessa, nonostante l’etichetta comunista della propaganda, prima ancora dell’inizio della seconda guerra mondiale. Se facciamo un salto in avanti di un quarantennio ci rendiamo conto come il berlinguerismo, rielaborando eternamente il Togliatti di Ceti medi ed Emilia rossa, sia proprio un processo di legittimazione della affidabilità di una forza politica che si sente tale perché in grado di controllare le masse, ridurle a quiete nell’ambito di stabiliti cerimoniali. Che si dipanano in modo da essere in grado di esaltare le masse, dal punto di vista identitario, quanto di renderle un qualcosa che non deve suscitare timore nella più vasta platea della società. Un qualcosa che, soprattutto, deve essere capito da chi conosce il codice esoterico presente in questi riti, ovvero le classi dirigenti degli altri partiti. In questo senso mi viene a mente un episodio, di una biografia di un dirigente di base del Pci, su una vicenda di rivolta di piazza. Voleva essere ricordato come espressione di una classe dirigente che aveva ridotto la rivolta popolare alle compatibilità della ragione politica. Una classe dirigente che aveva vinto il timore delle masse rendendole mansuete. La docilità delle masse come dote portata per accreditarsi definitivamente nella politica ufficiale. Al netto delle retoriche, e delle ristrutturazioni dei ceti politici in logistica e linguaggio, si tratta dell’eredità arrivata dal Pci all’attuale PD. Fino alla forma caricaturale espressa dall’attuale segretario del partito democratico che esprime questa docilità, e l’ingessato buon senso che ne deriva, interpretando la maschera regionale del salumiere emiliano che commenta i fatti del giorno lavorando al banco dell’Ipercoop. In una qualche periferia, in uno dei tanti orrori urbanistici di centrosinistra, di quella regione. Nel timore delle masse la sinistra istituzionale occidentale trova quindi una ragione, una legittimazione ed una tecnologia di governo. Eppure, non appena le masse si fanno audience, la sinistra istituzionale evapora. I partiti tradizionali, o i cartelli elettorali che in qualche modo ne riportano la tradizione, risultano così una tecnologia obsoleta nel governo dei grandi comportamenti collettivi. I rituali di piazza, la necessità di mettere gli elementi della massa a contatto tra loro per placarli, hanno ceduto il passo al governo delle sensazioni entro miriadi di terminali televisivi e, operazione più complessa ma realizzabile, davanti ad una sterminata schiera di postazioni Internet, smartphone ed evoluzioni tecnologiche assimilabili.
Ora, mettendo tra parentesi le elaborazioni della nuova sinistra e di quella di movimento (che meriterebbero una riflessione a parte), con queste categorie, e pratiche di governo nel timore delle masse la sinistra istituzionale non può che vedere il calcio e lo spettacolo con un’idea di sonnambulismo. Gli risulta quindi impossibile capire come il berlusconismo rappresenti una capacità di coltivare ed egemonizzare la potenza sociale, perlomeno quel tipo di potenza emersa in qualche decennio di società dei consumi. Il governo nel timore delle masse prima di tutto concepisce il linguaggio della politica ufficiale in termini di primato. Le forme rituali collettive al di fuori di questo linguaggio, come il calcio e lo spettacolo, sono viste come fenomenicamente e politicamente minori. Primo grave errore perché, nelle società contemporanee, non esistono linguaggi che hanno primato di default o per eredità ricevuta e trasmissibile. Ad un certo punto, a partire dai primi anni ’80, segni, lingua, simboli e comportamenti del mondo dello spettacolo e del calcio hanno cominciato a significare la complessità della vita sociale in maniera più efficace del linguaggio della politica ufficiale. Per il Pds di Occhetto, spettro in cerca di un corpo mai abitato, trovarsi surclassato da un partito che si chiamava Forza Italia, portato in politica dai personaggi dello spettacolo e con un nome espresso dal calcio, ha rappresentato una sconfitta che valeva la mancata comprensione di un’epoca. Incredibile come, dopo quasi vent’anni, questa sconfitta non sia mai stata messa a profitto. Incredibile eppure non inspiegabile.
Altro errore è quello di pensare in termini di intrattenimento sia il calcio che lo spettacolo. Governare nel timore delle masse è assorbire alcune funzioni dello spettacolo, specie la dimensione coreografica nei grandi spazi urbani, relegandolo ad una dimensione minore della politica. In questo modo la politica si pensa a quel punto come lo strumento principale di produzione di contenuti. Per cui lo spettacolo e il calcio sono visti come fenomeno di puro intrattenimento, fantasmagoria di contenuti minori.
Che lo spettacolo, specie la sua espressione più banale, fosse puro intrattenimento lo pensava anche l’immenso Eisenstein ma vedeva il fenomeno dal punto di vista del vertiginoso formalismo cinematografico che possedeva. In quell’ottica lo spettacolo non poteva che essere un linguaggio banale. Eisenstein si confrontava con la sottilissima espressività del teatro Kabuki, confronto che è protagonista in controluce di Ottobre! il film più profondo sulla rivoluzione (assieme a La battaglia di Algeri e Giù la testa che sono di tutt’altro genere e a Matewan che è un grandissimo film sulle lotte dei minatori americani). Vista da lontano, su quelle vette, la forma spettacolo contemporanea è solo un esercizio di intrattenimento. Il berlusconismo ha centrato invece il fatto che egemonizzare linguaggi e comportamenti dello spettacolo è tutt’altro che una questione di puro intrattenimento e fenomeno di superficie. Su questo proprio Bataille, fin dagli anni ’30, ha scritto parole decisive se solo i nostri contemporanei si ricordassero di leggerle. Ne La nozione di dispendio, pubblicato su La critique sociale l’anno dell’ascesa di Hitler al potere,  è la fine di ogni trascendenza (oggi si parla solo di “fine delle ideologie” a volte in un recupero comico, quanto inutile, della nozione di trascendenza) che ridefinisce il ruolo dell’utile delle nostre società. L’utile non è più concepito all’interno di una visione dell’al di là, o in una prospettiva di futuro, ma serve in funzione del dispendio. Tanto più la nozione del futuro si fa breve od indeterminata tanto più l’utile accumulato ha valore solo in prospettiva del dispendio immediato o immediatamente concepibile. L’altra faccia dell’utile, nelle società contemporanee, è quindi il dispendio e il sacrificio del bene accumulato. Sacrificio dell’utile che, nelle nostre società, tanto più è richiesto in assenza di futuro tanto più si coniuga con la dimensione del piacere. E’ il piacere che assume la forma dell’utile perché riveste di sensazione positiva il sacrificio del bene guadagnato per sensazioni immediatamente piacevoli che sono l’unico fenomeno mondano ricavabile se si ha una concezione ristretta di futuro. Per cui le forme dello spettacolo, invece di significare il puro intrattenimento di superficie che niente ha a che vedere con le strutture profonde della società, rappresentano una forma profonda, canonica della struttura sociale. Perché lo spettacolo è il terreno dove si va, letteralmente, a spendere l’utile accumulato nella vita sociale. E persino a fissare le gerarchie di ruolo nella società. Ed è anche il terreno privilegiato per estrarre piacere oggi sempre più assimilabile con il senso. Senza lo spettacolo e il piacere l’utile accumulato non avrebbe infatti letteralmente senso perché, in assenza di accreditate nozioni di futuro, non troverebbe collocazione, terreno dove essere speso. E se qualcuno governa lo spettacolo non solo è egemone sui processi profondi del vivere sociale, quelli che attribuiscono senso e per i quali si spendono le emozioni, ma detiene il governo del processo di collocazione di senso della sfera dell’utile.
Così, alla faccia delle concezioni dell’intrattenimento, processo banale  e superficiale che dovrebbe cedere poi il passo alle questioni strutturali e serie, il governo dello spettacolo è esercizio di sovranità. Oggi, qui travolgendo gli assunti di Schmitt, non è sovrano chi detiene la decisione sullo stato di emergenza ma chi governa lo spettacolo. Perché solo chi governa lo spettacolo governa l’attenzione, decidendo cosa è emergenza e cosa no. E chi governa lo spettacolo è in grado di governare anche il processo di collocazione di senso dell’utile. Non siamo quindi su un piano di superficie ma su quello delle strutture profonde della coesione sociale.
In altri paesi risulta assolutamente arcaico, o inattuale, domandarsi “chi” governi lo spettacolo. Esiste una complessità sociale, di piattaforme tecnologiche, di rapporti di proprietà, di varietà di personaggi che impedisce di verticalizzare una figura che stia sul trono nella gerarchia di governo dello spettacolo. Lo spettatore che a San Siro disse a Berlusconi “sei un imperatore” ha istintivamente riconosciuto che in Italia lo spettacolo andava al potere non grazie ad una oligarchia, come avviene negli altri paesi dove questi fenomeni sono governati da una pluralità di corporation, ma  entro un processo istintivamente monarchico. Rivestito, secondo lo stile da tycoon californiano che non manca mai a Berlusconi come ai grandi impresari dello spettacolo, di vestigia imperiali che hanno a che fare con la Roma antica quanto l’immagine di romanità veicolata dal Caesar Palace di Las Vegas. Perfettamente improbabile dal punto di vista della continuità artistica quanto completamente funzionale alla costituzione di un campo di forza dello spettacolo, quello dove si esercita il dispendio dell’utile. Altro che intrattenimento frivolo e di superficie. Si parla di un campo di forza che attrae la dimensione del dispendio dell’utile, là dove si dirigono fondamentali potenze sociali della società contemporanea.
Il modello di spettacolo berlusconiano si costruisce infatti entro un dispositivo di governo che si elabora attraverso una polarità archetipica che è opposta, quando di fondazione storica precedente, al governo nel timore delle masse. Anche qui dalla Francia arrivano parole interessanti, specie se intrecciate in un’antropologia dei media. Ne Il pane e il circo Veyne parla dell’evergetismo, la prodigalità dei nobili nel mondo antico che sembra avere un tratto di successiva continuità con la carità cristiana. Prodigalità che acquisisce caratteri imperiali, di autorità riconosciuta, principalmente nel momento in cui eroga spettacolo. Che è un momento socialmente caldo e collettivo. Ecco quindi svelato il mistero del riconoscimento come imperatore di Silvio Berlusconi in una lontana notte di San Siro. Non voce individuale, infervorata da una vittoria ai supplementari, ma avanguardia di una voce collettiva che dal calcio e dallo spettacolo si diffonde, prima lentamente poi con la velocità dell’incendio, in tutta la vita sociale. La voce del riconoscimento entusiasta della prodigalità del nobile che si esalta storicamente nella sua nomina sul campo ad imperatore.
In questo senso si è sempre poco compresa le lettura politica del fenomeno dello spettacolo presente nel Gladiatore di Ridley Scott.  Nel Gladiatore il comandante esautorato dal potere politico, e quasi ucciso, dal futuro imperatore si trova espulso da qualsiasi consesso sociale. Non può più agire, socialmente e politicamente, in modo canonico quello concesso dal suo status abituale. Ritroverà un ruolo socialmente e politicamente rilevante solo come gladiatore, come attore dello spettacolo. E, una volta accresciuto questo ruolo, potrà sconfiggere l’imperatore. Perché il consenso ottenuto presso la folla come gladiatore finisce per essere politico proprio perché ottenuto con i mezzi dello spettacolo. La sconfitta dell’imperatore potrà avvenire solo unificando spettacolo e politica, ruolo politico dello spettacolo (l’accresciuta reputazione sociale del gladiatore) e ruolo spettacolare della politica (la morte dell’imperatore nell’arena). Quando ci si domanderà perché Berlusconi è rimasto in piedi per un ventennio, pensando alla sua funzione imperiale che incarna lo spettacolo che si fa potere, la risposta potrà essere molto semplice. Perché quando lo si è attaccato politicamente non lo si è fatto contemporaneamente dal punto di vista dello spettacolo, e qui le tare della sinistra istituzionale (ma non solo) sono evidenti, e quando lo si è attaccato dal punto di vista dello spettacolo non si aveva una chiara visione politica perché sfibrati dai tatticismi. In questo scenario non hanno senso i tentativi di messa tra parentesi del berlusconismo, il pensare “oltre”, “altro”, “altrove”. Il berlusconismo è politica e spettacolo ed è disseminato ovunque. Non lo si aggira, si può solo sconfiggerlo unificando le potenze della politica e dello spettacolo.
In quel periodo leggevo, tra la biblioteca di Sainte Génevieve e la vecchia sede della biblioteca nazionale, i diari parigini di Ernst Jünger. Jünger, secondo come lo si guarda, per responsabilità culturale nella nascita del nazismo non avrebbe dovuto oltrepassare il ’45 se non attraverso un plotone di esecuzione. Ma come ogni scrittore, se posseduto creativamente dal demone della letteratura, era troppo intelligente per prendere ordini, pur avendo nutrito la più pericolosa ed efficace pubblicista di reduci della prima guerra mondiale e potente strumento di crescita del nazismo. E quindi non diresse l’unione nazista degli scrittori, carica pensata per lui direttamente da Goebbels il genio nero della propaganda, non partecipò alla vita del partito nazionalsocialista dopo la presa del potere.  In fondo tutto questo gli valse l’essere scartato da ogni tipo di processo di Norimberga e una vita ultracentenaria. Ma gli valse anche i Diari parigini dove, giocando a nascondino nei colloqui con Céline, comprende che gli eventi della guerra stanno facendo emergere con forza sinistra la sensazione di quando la storia ti porta su un crinale, inedito, pieno di accadimenti futuri e proprio per questo incomprensibile. Un crinale dai contorni indefiniti ma  già fortemente presente.
E’ questo tipo di sensazione, di un inedito non facilmenente comprensibile, che toccò anche a me proprio a Parigi. Ricordo che ripiegai la Gazzetta, la misi dentro la borsa di cuoio, finii la pizzetta che mangiavo sempre a quell’epoca e mi incamminai verso la stazione di Rambuteau, non molto più lontana di Chatelet-Les Halles ma sicuramente meno affollata. Sapevo a quale stazione mi dovevo fermare ma cominciavo seriamente a dubitare che, il giorno che sarei tornato in Italia, avrei ritrovato il paese nel quale ero cresciuto. Anni dopo vidi una pubblicità del Corriere della sera dove un cosmonauta sovietico compie un atterraggio di fortuna in Ucraina. Chiede ad un contadino dove sia atterrato e questo gli risponde “Ucraina”. Il cosmonauta confortato ribatte a sua volta “ah, Unione sovietica”. E il contadino, divertito, replica “no, Ucraina”. Ripensando a quello spot ricordo che quando tornai in Italia nella tarda primavera lo interpretai a parti invertite. Ero il cosmonauta che diceva che quella era l’Ucraina, e non più l’Unione sovietica, mentre tutto intorno mi si diceva che in fondo niente era cambiato. E la percezione rallentata della forza degli eventi il nostro paese l’ha pagata cara. E continuerà a pagarla carissima. Pagheremo caro, non abbiamo ancora pagato tutto. Tragico rovesciamento del titolo di una copertina pop di una rivista di culto degli anni ’70 che recitava “Pagherete caro, non avete ancora pagato tutto”. Per adesso è Berlusconi che lo recita a noi. Da un ventennio. Con le riviste di gossip come arma d’assalto, che oggi incendiano l’attenzione molto più delle molotov, e come militanti non dei ventenni dal volto travisato ma delle diciottenni che dell’evaporazione di ogni travisamento fanno mestiere e tratto distintivo.

Nessun commento:

Posta un commento