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18/12/2024

Note sul marxismo sinizzato

di Carlo Formenti

A mò d’introduzione

Nei miei ultimi lavori – sia nei libri che in vari articoli pubblicati su questa pagina (1) – ho speso molte energie per contrastare il luogo comune – che accomuna destre e “sinistre” occidentali – secondo cui la Cina sarebbe un Paese capitalista, se non addirittura imperialista, la cui unica ragione di conflitto con gli Stati Uniti e l’Europa è la competizione per il dominio globale.

Nel caso delle destre, tale giudizio funge da argomento propagandistico, buono per scoraggiare qualsiasi simpatia nei confronti di una possibile alternativa nei confronti di un’economia, un sistema politico, una cultura e un modo di vivere che settori sempre più larghi delle popolazioni occidentali considerano intollerabile, come dimostrano il successo dei movimenti cosiddetti “populisti” e le altissime percentuali di astensione alle elezioni.

Nel caso delle sinistre occorre distinguere fra l’ala “progressista” neoliberale, di fatto allineata alle destre (fatta eccezione per l’impegno nei confronti dei diritti civili di individui e minoranze appartenenti alle classi urbane medio-alte), e l’ala radicale, che dedica ancora qualche attenzione agli interessi delle classi lavoratrici. La sinistra neo liberale ha definitivamente gettato la maschera votando nel Parlamento europeo l’infame delibera che equipara nazismo e comunismo. L’ala radicale, ormai priva di strumenti teorici per analizzare la realtà (l’ignoranza dei suoi quadri in materia di filosofia, storia ed economia, per tacere del pressoché totale oblio della teoria marxista, è disarmante), si limita ad annunciare che “un altro mondo è possibile” ma, non avendo la minima idea su cosa fare e come farlo per mettere in pratica tale slogan, disprezza i progetti politici che ci provano.

Rebus sic stantibus, non mi stanco di insistere sulla necessità di studiare l’unico esperimento (in verità non è il solo, ma è di gran lunga il più significativo, se non altro per le sterminate dimensioni geografiche e demografiche della nazione che lo sta attuando) che offra un esempio concreto del fatto che lo slogan della Thatcher (there is no alternative) è falso. Un esempio, non un modello, perché sono proprio le peculiari caratteristiche dell'esperimento in questione che aiutano a capire che non può esistere un modello universalmente applicabile per la transizione a una formazione sociale post capitalista.

A confermare il carattere “locale”, idiosincratico dell’esperimento è la stessa classe dirigente della Repubblica Popolare Cinese che non a caso parla di “socialismo in stile cinese” e dichiara di ispirarsi al metodo, ai principi e ai valori di un marxismo “sinizzato”. Per spiegare queste affermazioni in modo comprensibile alle sinistre nostrane intrise di pregiudizi eurocentrici, seguirò la lezione di Cheng Enfu (2), uno dei maggiori economisti cinesi, incrociandola con quelle di Giovanni Arrighi (3) e della coppia Alberto Gabriele ed Elias Jabbour (4). In particolare, mi occuperò:
1) di come la Cina stia cercando di “usare” alcuni aspetti della civiltà capitalista occidentale senza farsene colonizzare;
2) di quali sfide e contraddizioni deve affrontare per consolidare l'attuale, inedita fase del proprio sviluppo che definisce “nuova normalità”;
3) di cosa si intende per marxismo sinizzato e quali elementi di novità presenta rispetto alla teoria marxista “classica”;
4) di quali fattori di ispirazione l’attuale élite cinese ricavi dalla tradizione antica e classica della sua millenaria civiltà (Cheng Enfu scrive che la cassetta degli attrezzi del Partito Comunista cinese è “una sintesi dialettica dei materiali ideologici forniti da tre sistemi di conoscenza: concetti marxisti, apprendimento occidentale, apprendimento tradizionale cinese”).

1. Usare i capitali e le tecnologie occidentali senza lasciarsi colonizzare

In Adam Smith a Pechino Arrighi contestava la tesi secondo cui lo strabiliante decollo dell’economia cinese sarebbe avvenuto grazie alla conversione del Partito Comunista al neoliberalismo. Questo è piuttosto ciò che è capitato in Russia dopo il crollo del socialismo, con i ben noti effetti spaventosi (immiserimento e disoccupazione di massa, appropriazione dei beni pubblici da parte di un pugno di oligarchi, smembramento dell’unità nazionale, ecc.). La dirigenza subentrata a Mao dopo la sua morte era letteralmente ossessionata dal destino di una Russia che aveva adottato la shock terapy ispirata ai principi del Washington Consensus, per cui Deng Xiaoping ha scelto di riformare il sistema in modo lento e graduale.

L’economia è decollata dopo che alle grandi imprese si è imposto di farsi reciprocamente concorrenza e di competere sia con le aziende straniere impiantatesi nelle Zone Speciali che con le nuove aziende a partecipazione privata e di comunità. Alla crescita dell’immenso mercato interno cinese ha inoltre contribuito la decisione di consentire (a partire dal 1983) ai contadini la possibilità di vendere, anche su mercati distanti, il loro surplus produttivo (un provvedimento che evoca l’analoga decisione assunta mezzo secolo prima da Lenin, allorché varò la NEP (5)).
Perché queste scelte, contrariamente a quanto previsto – e auspicato – dagli “esperti” occidentali non hanno portato alla caduta del socialismo e alla piena integrazione della Cina nel ruolo di membro subalterno del sistema capitalista mondiale? È quanto cerca di spiegare Cheng Enfu nel suo libro sulla “dialettica dell’economia cinese”.

Noi, argomenta, non abbiamo seguito né il modello liberale né quello socialdemocratico, pur sviluppandone alcuni elementi, abbiamo invece applicato in modo discriminante la conoscenza occidentale, scartandone gli aspetti che avrebbero potuto mettere in discussione il controllo dello stato e del partito sul nostro sistema economico. Ciò è dimostrato, fra le altre cose, dal fatto che mentre il capitalismo occidentale procede a continui tagli del welfare, in Cina si sono effettuati massicci investimenti nei fondi cinesi per l’istruzione, si è aumentato il salario minimo e si è provveduto al miglioramento dell’assicurazione medica nelle aree urbane e rurali e del trattamento per gli anziani. Per tacere del fatto – assolutamente inconcepibile in base ai canoni dell’economia borghese – che è riuscita a riscattare in un breve arco di tempo ottocento milioni di cittadini dalla povertà assoluta. Ma soprattutto – mistero che ossessiona gli economisti occidentali – è riuscita a passare in pochi decenni da Paese in via di sviluppo a potenza economica in grado di competere con gli Stati Uniti (il libro di Cheng Enfu offre un’ampia messe di dati che illustrano questo impressionante processo evolutivo). Come hanno fatto?

Cheng Enfu spiega il “miracolo” descrivendo le caratteristiche di un dispositivo che si fonda su quattro sistemi coordinati e interconnessi:
1) un sistema di diritti di proprietà multipla basato sulla proprietà pubblica;
2) un sistema di distribuzione multifattoriale basato sul lavoro;
3) un sistema di mercato a struttura multipla guidato dallo stato;
4) un sistema aperto multiforme autosufficiente.

L’idea di fondo che ha ispirato le riforme messe in atto a partire dalla fine degli anni Settanta è stata quella di costruire un modello “a doppia forza”, di sommare cioè i vantaggi generati dalla convivenza di un governo forte con un mercato forte, un paradosso inconcepibile per una teoria economica che pone i due termini in opposizione radicale: se domina il mercato lo stato si ritira e viceversa. Ovviamente solo la politica dispone del potere di creare le condizioni perché stato e mercato possano convivere senza elidersi a vicenda. In particolare, nel processo di apertura dell’economia cinese al capitale internazionale, ciò ha voluto dire non porre l’accento esclusivamente sull’uso attivo del capitale straniero (e sugli apporti di tecnologia e talento associati a tale uso) ma anche e soprattutto sugli accorgimenti necessari a garantire l’indipendenza e l'autosufficienza della Cina, per esempio mantenendo il controllo su quelle tecnologie di base che sono irrinunciabili strumenti per assicurare la sicurezza del Paese, e limitando la partecipazione del capitale straniero nelle forme di proprietà miste per impedirgli di creare propri monopoli finanziari nel Paese.

Questi e altri accorgimenti hanno fatto sì che il rapido processo di crescita degli interscambi produttivi, commerciali e finanziari fra Cina e resto del mondo, al pari del suo ingresso nel WTO, si sia potuto descrivere (non solo da parte di Arrighi ma anche di altri autori marxisti (6)) come un “uso della globalizzazione” che ha consentito di integrare la Cina nelle reti mondiali del commercio e della finanza senza arrendersi alle pressioni – interne e non solo internazionali (7) – dei fondamentalisti del mercato, il che è stato possibile solo grazie all’assoluto controllo politico sulla finanza e al conseguente mantenimento di una (relativa) autonomia dall’egemonia del dollaro.

Il fatto che questo rapido e tumultuoso processo di trasformazione socioeconomica non si sia accompagnato ad una evoluzione in senso liberal-democratico del sistema politico, poiché il governo non ha mai smesso di mantenere la barra del timone verso l’obiettivo di marciare in direzione di nuove forme di democrazia popolare e verso forme più avanzate di transizione al socialismo, ha fatto capire agli Stati Uniti che quella globalizzazione che avevano concepito come l’arma finale per estendere il proprio dominio sul mondo intero si era trasformata in un boomerang. È per questo che oggi assistiamo sia a una strategia di “sganciamento” dell’Occidente dal mercato cinese e a forme di guerra commerciale nei confronti dei prodotti made in China, sia a una “Terza guerra mondiale a pezzi”, come l’ha definita papa Francesco, propedeutica allo scontro militare diretto con la Cina.

2. Risolvere le contraddizioni che ostacolano il cammino verso una “nuova normalità”

L’analisi di Cheng Enfu sullo sviluppo cinese non è agiografica né cieca di fronte alle sfide e alle contraddizioni generate dalla politica di riforme e apertura inaugurata da Deng e proseguita dai suoi successori. Allentando le redini sul mercato i governi hanno favorito un formidabile processo di crescita economica ma, inevitabilmente, hanno anche permesso che i fallimenti del mercato generassero una serie di gravi problemi sociali – problemi che Cheng Enfu analizza lucidamente con gli occhiali della teoria marxista, in polemica con gli economisti cinesi convertitisi al credo neoliberale.

Il divario fra ricchi e poveri è cresciuto quasi a livelli occidentali, malgrado i redditi delle classi lavoratrici agricole e urbane siano significativamente aumentati e questo perché, argomenta Cheng Enfu riprendendo un concetto che Thomas Piketty ha divulgato fra i lettori occidentali (8), nelle economie di mercato il divario dei redditi dipende meno dal divario nei redditi salariali che dal divario nei redditi di proprietà associato all’ineguale distribuzione della stessa. I problemi ambientali hanno toccato livelli allarmanti. La Cina è riuscita a uscire quasi indenne dalla catastrofe del 2008, ma il rallentamento del commercio mondiale associato alla crisi ha provocato un forte rallentamento della crescita e generato problemi di sovrapproduzione in alcuni settori, come il siderurgico e l’immobiliare. Le privatizzazioni non hanno solo aumentato i divari di reddito ma anche quelli fra regioni e impedito uno sviluppo proporzionale fra settori diversi. Certi settori della borghesia nazionale, anche dopo il fallimento del tentativo occidentale di innescare un regime change nel 1989 (9), non hanno cessato di lottare per trasformare il proprio potere economico in potere politico, ricorrendo alla corruzione di dirigenti di partito e quadri delle amministrazioni regionali.

Per fare fronte a queste sfide, che sintetizza parlando di contraddizione tra il crescente bisogno popolare di una vita migliore e uno sviluppo squilibrato e inadeguato, Cheng Enfu propone di concentrare le energie su una serie di obiettivi strategici:
1) fornire protezione legale ai diritti dei lavoratori delle imprese private ai quali vanno garantiti redditi ragionevoli, perfezionare il sistema statale per la ridistribuzione della ricchezza e migliorare la tassazione per aggiustare i flussi di reddito;
2) ridurre la dipendenza dal capitale e dalla tecnologia stranieri promuovendo l’innovazione indipendente;
3) limitare la dipendenza dal commercio estero aumentando il ruolo del consumo interno;
4) ridurre la dipendenza dal dollaro, evitando di concedere spazio ai processi di finanziarizzazione e incoraggiando l’integrazione della finanza con l'economia reale;
5) accelerare l'internazionalizzazione del sistema finanziario del RMB;
6) creare una proprietà intellettuale autonoma intensificando lo sforzo di formazione del personale scientifico (coltivare talenti per la ricerca di base ad alto livello);
7) infine porre fine a una capacità produttiva in eccesso che la Cina eredita dai decenni in cui ha puntato su una modalità di sviluppo estensivo (produzione di massa orientata all’esportazione di merci a buon mercato di fascia bassa).

Il nuovo modello economico che il governo definisce “nuova normalità” dovrebbe favorire la transizione dalla modalità di sviluppo estensivo allo sviluppo intensivo (qualità ed efficienza). A tale scopo occorre spostare progressivamente il motore dello sviluppo dalle esportazioni ai consumi interni, il che comporta che la tendenza all’aumento dei redditi delle classi lavoratrici prosegua e si rafforzi. Ciò non significa rinunciare al ruolo di potenza commerciale ma, tenendo conto del fatto che la domanda internazionale tende a ridursi a causa della crisi, e che le nazioni occidentali adottano politiche protezioniste nei confronti dei prodotti cinesi, occorre che la Cina scommetta sull’innovazione per diventare leader nei settori a tecnologia avanzata, trasformandosi da fabbrica mondiale specializzata in assemblaggio di tecnologie straniere in fabbrica mondiale di tecnologie di punta sviluppate autonomamente.

Cheng Enfu cita molti dati che attestano come questo processo sia già in atto, enfatizzando in particolare il fatto che il valore aggiunto del settore terziario ha superato quello del settore secondario. Oggi, annota non senza orgoglio, ci collochiamo quasi al centro del sistema mondiale, come confermano i massicci investimenti diretti cinesi in Africa e America Latina. E a tale proposito aggiunge: gli occidentali, preoccupati dalla nostra capacità competitiva in queste aree del mondo, ci accusano di sviluppare a nostra volta una relazione di carattere imperialista fra centro e periferia, ma la verità è che noi ci stiamo muovendo verso il centro in modo diverso: la Cina offre a questi Paesi un modello superiore per lo sviluppo e il progresso, perché noi vogliamo guidare un globalizzazione economica equa. Infine propone di misurare l'avanzamento verso questa nuova fase adottando sia un inedito indicatore di contabilità economica, che chiama Prodotto Interno Lordo del Benessere, il quale, a differenza del PIL, comprende il valore totale del benessere creato dalla produzione e dalle attività commerciali di tutte le unità residenti in un Paese, sia un nuovo indicatore sociale che chiama indice di felicità.

3. A proposito del marxismo “sinizzato”

Prima di entrare nel merito di quelli che considero i contributi più innovativi della rivoluzione cinese alla teoria marxista, faccio una premessa: non credo che, come sembra pensare la maggior parte dei comunisti occidentali, anche quando guardano con simpatia all’esperimento cinese, il concetto di sinizzazione possa essere ridotto alla formuletta che recita che la teoria segue la prassi, sottintendendo che siamo di fronte a un semplice “adattamento” dei principi del marxismo a una specifica situazione concreta. Personalmente, pur se ribadisco l’idea che la Cina non possa né debba essere assunta a modello, sono convinto che la sua storia recente sia un esempio evidente della necessità di procedere, non a un banale “aggiustamento” della teoria, bensì a un vero e proprio cambio di paradigma.

Cheng Enfu sintetizza icasticamente tale esigenza laddove afferma la necessità di prendere congedo dai due “mai” che caratterizzano il pensiero marxista tradizionale, vale a dire: una formazione sociale non perirà mai finché tutte le forze produttive che può ospitare non saranno messe in gioco; nuovi rapporti di produzione non emergeranno mai finché le condizioni della loro esistenza materiale non matureranno nel grembo della vecchia società (10). Com’è noto questa argomentazione venne sfruttata dai teorici della II Internazionale (e in seguito anche da molti critici di sinistra, trotskisti compresi, del regime sovietico) per classificare come “prematura” la Rivoluzione del 1917, argomento reiterato dalle sinistre radicali occidentali nei confronti della Rivoluzione cinese dopo il fallimento della Rivoluzione culturale e le riforme degli anni Settanta. Questa tesi era già stata confutata da Lenin con la sua teoria dell’anello debole (11), ma il contributo radicalmente innovativo di Lenin alla teoria marxista non è mai stato digerito dai marxisti occidentali, ragion per cui costoro non sono in grado di spiegarsi perché la rivoluzione socialista ha trionfato in alcuni Paesi “arretrati” e non nei centri del capitalismo metropolitano.

Arrighi ha rilanciato il dibattito su questo dilemma teorico nel già citato Adam Smith a Pechino, criticando la tesi secondo cui il mondo intero dovrà passare sotto le forche caudine del modo di produzione capitalistico prima di potersene liberare. Occorre prendere atto, scrive Arrighi, che l’appiattimento “globalista” previsto da Marx non si è realizzato, e soprattutto occorre prendere atto della gigantesca novità che ci consegna la storia: un Paese di un miliardo e mezzo di persone ha saputo compiere il miracolo di ibridare:
1) una millenaria tradizione storica capace di generare una forma di ricchezza fondata sulla stabilità sociale e sull’attenzione al bene della comunità;
2) la spinta innovativa di una rivoluzione di liberazione nazionale guidata dall’ideologia marxista-leninista;
3) un uso del mercato tanto spregiudicato quanto sottoposto al ferreo controllo dello stato-partito.
Il risultato di questa novità è appunto il socialismo con caratteri cinesi.

Vladimiro Giacché ha raccolto a sua volta la sfida partendo da una riflessione sulla svolta in politica economica imposta da Lenin nei primi anni Venti del Novecento (11). Fino al 1919/20 Lenin era ancora convinto che al monopolio di stato sul commercio sarebbe dovuta subentrare la distribuzione organizzata secondo un piano, ma negli anni immediatamente successivi prese le distanze dalla sinistra bolscevica che riteneva possibile passare al socialismo senza un periodo di transizione, un punto di vista al quale replicò sostenendo che tale fase di transizione sarebbe stata, non solo inevitabile, ma prolungata e caratterizzata dal persistere di rapporti mercantili e monetari. Del resto, già nel 1918, aveva risposto a chi affermava che la rivoluzione bolscevica non aveva instaurato il socialismo ma una forma di capitalismo di stato affermando: “Noi siamo lontani anche dalla fine del periodo di transizione dal capitalismo al socialismo (...). Noi sappiamo quanto sia difficile la strada che porta dal capitalismo al socialismo, ma abbiamo il dovere di dire che la nostra repubblica dei soviet è socialista, perché noi ci siamo avviati su questo cammino. Si ha dunque ragione di dire che il nostro Stato è una repubblica socialista dei soviet”.

Certo, commenta Giacché, se la scomparsa della produzione mercantile è assunta quale unico parametro del carattere socialista di una società, non potevano considerarsi socialiste la Russia degli anni Venti né la Cina di Mao né, tantomeno, può considerarsi socialista la Cina di Deng e dei suoi successori. Ma ciò non toglie ai comunisti cinesi il diritto di rivendicare, al pari di quanto aveva fatto Lenin, il carattere socialista della Repubblica Popolare cinese. Naturalmente sia le posizioni del Lenin della NEP sia quelle dei cinesi delle riforme degli anni Settanta sono “eretiche” rispetto alla concezione del socialismo elaborata da Marx ed Engels nella seconda metà del secolo XIX (12) e “canonizzate” dalla Seconda Internazionale. Mentre Marx ed Engels consideravano il socialismo come una breve fase di transizione verso il comunismo, questa nuova visione lo rappresenta come un modo di produzione a sé stante, in cui permangono le classi e il conflitto di classe, per cui il suo approdo al comunismo – da considerare come un obiettivo strategico di lunghissimo periodo – non è un evento “destinale” bensì una possibilità la cui realizzazione dipende dall’esito dei conflitti sociali in questione (13).

Cheng Enfu descrive i tre stadi differenti in cui dovrebbe a suo avviso articolarsi il processo di transizione:
1) uno stadio primario del sistema economico socialista che prevede la proprietà pubblica come corpo principale (con la proprietà privata come corpo ausiliario), la distribuzione orientata al mercato secondo il proprio lavoro come corpo principale (con la distribuzione secondo il capitale come corpo ausiliario) e l’economia di mercato guidata da piani nazionali;
2) uno stadio intermedio caratterizzato da diversi tipi di proprietà pubblica e diversi tipi di distribuzione dei beni secondo il lavoro e da un’economia pianificata con lo stato come corpo principale (con un mercato regolato dallo stato come corpo ausiliario);
3) infine uno stadio avanzato caratterizzato da un’unica proprietà pubblica di tutto il popolo, dalla distribuzione dei prodotti secondo il bisogno e da un’economia completamente pianificata.

La svolta verso un’economia socialista di mercato (che corrisponde alla prima delle tre fasi appena descritte), sostiene Cheng Enfu, non è stata decisa a causa del fallimento dell’economia socialista pianificata (in particolare, critica i colleghi che parlano solo degli errori passati e in questo modo distorcono il rapporto fra sviluppo precedente e seguente alle riforme e all’apertura, ignorando che senza le conquiste realizzate sotto la guida di Mao non sarebbero esistite le condizioni materiali per compiere questo salto evolutivo), ma si è decisa dopo avere analizzato le debolezze del modello sovietico, identificate soprattutto con le rigidità del sistema (dall’eccessiva centralizzazione delle decisioni a una distribuzione ispirata a un’applicazione eccessivamente severa del principio egualitario (14) ). Accettando l’esistenza di divari ragionevoli di reddito basati su una remunerazione basata sulla concorrenza la Cina è invece riuscita a massimizzare il potenziale umano e a ottimizzare l’allocazione delle risorse di lavoro su scala dell’intera società.

A chi sostiene che le riforme cinesi hanno rimesso al posto di comando la legge del plusvalore e quindi lo sfruttamento della forza lavoro, replica che in un’economia socialista definita come sopra la legge del plusvalore si incarna nella legge del plusvalore pubblico, nel senso che il plusvalore creato dai lavoratori delle imprese pubbliche va allo stato o alla collettività. Ovviamente ciò non vale per il plusvalore creato dai lavoratori delle imprese private, per cui l’avanzamento verso le fasi successive del processo di transizione al socialismo dovrà risolvere le contraddizioni implicite in questa forma di economia mista. A tale proposito afferma, fra le altre cose, che si dovrà porre sempre più l’attenzione sul risparmio di tempo di lavoro e sulla sua pianificazione tra i diversi settori della produzione, due fattori che rappresentano la legge economica primaria in una società di produttori associati; si dovrà inoltre rispettare la legge dello sviluppo proporzionale formulata da Marx, la quale afferma che le quantità di prodotti corrispondenti ai diversi bisogni richiedono quantità diverse e definite del lavoro sociale complessivo (nella fase attuale tale legge opera in modo imperfetto perché non si basa solo sulla pianificazione statale ma anche sulla legge del valore regolata dal mercato). Inoltre sottolinea l’irrinunciabilità di perseguire uno sviluppo che garantisca un rapporto armonioso fra uomo e natura perché, scrive, gli esseri umani nascono dalla natura, ad essa sono subordinati e da essa dipendono, per cui le risorse naturali possono essere considerate come il corpo inorganico dell'umanità (15). Dal punto di vista generale produzione e consumo coincidono, ma nella riproduzione sociale la produzione è il punto di partenza effettivo dell’intero processo e quindi è il fattore dominante, per cui è in primo luogo qui che occorre cambiare le cose per risolvere i problemi ambientali.

Concludo questo breve excursus sul marxismo sinizzato con qualche accenno al lavoro di Gabriele e Jabbour sulle caratteristiche del socialismo del secolo XXI (vedi nota 4). La categoria marxiana di modo di produzione, argomentano i due autori, è un modello astratto, al quale le concrete formazioni socioeconomiche, storicamente e geograficamente esistenti, aderiscono in misura diversa. Analogamente ad Arrighi e diversamente da Marx, il quale ipotizzava che il modo di produzione capitalistico, già tendenzialmente dominante in Europa ai suoi tempi, si sarebbe esteso a livello mondiale fino a soppiantare tutti gli altri (a meno che non venisse rovesciato da una rivoluzione socialista), Gabriele e Jabbour sostengono che, anche nell’attuale contesto di tardo capitalismo “globalizzato”, il primato di un determinato modo di produzione nelle singole realtà storico-geografiche può essere assoluto o relativo. Ad esempio, negli Stati Uniti è indubbio che la supremazia del modo di produzione capitalistico sia assoluta, ma in altre formazioni socioeconomiche due o più modi di produzione possono coesistere con rapporti reciproci di rivalità e/o di simbiosi, così come possono darsi situazioni di transizione da un modo di produzione a un altro.

Questo pluralismo dei modi di produzione – riscontrabile soprattutto nel Sud del mondo, dove il capitalismo convive (e confligge) sia con formazioni socioeconomiche “socialist oriented” (16) che con forme produttive e relazioni sociali di tipo precapitalistico – non impedisce di ammettere che il capitalismo resti il modo di produzione dominante a livello mondiale ma, al tempo stesso, non impedisce di affermare che, laddove convive con altri modi di produzione, non si può stabilire a priori quale modo di produzione prevarrà nel lungo periodo – il che vale soprattutto nei casi in cui sia in atto un processo di transizione (17). Per sintetizzare le riflessioni di Cheng Enfu e di altri autori fin qui discusse, si potrebbe concludere dicendo che la sfida del socialismo con caratteri cinesi (ma ciò vale anche per altre economie socialiste di mercato asiatiche, come Vietnam e Laos, oltre che per alcuni Paesi latinoamericani, a partire da Cuba) consiste nel riuscire a imporre le ragioni della politica sulle ragioni del mercato abbastanza a lungo affinché possano maturare le condizioni di passare alla seconda e terza fase del processo di transizione.

In che misura la tradizione confuciana influisce sulla via cinese?

C’è chi sostiene che l’atteggiamento di Mao nei confronti della cultura cinese tradizionale sia stato laico e illuminista, cioè critico se non liquidatorio. Cheng Enfu non è di questo avviso e infatti cita un’affermazione di Mao che invitava a fare un bilancio di tutto il passato della Cina, da Confucio a Sun Yat-Sen, per raccogliere quella preziosa eredità. Sempre Cheng Enfu afferma che il marxismo è un sistema culturale-ideologico che enfatizza la fede e i valori, e definisce la fede come credenza e rispetto per una certa dottrina, religione o altri principi che le persone abbracciano come proprio codice di condotta, citando quali esempi i “valori universali” occidentali, i principi neoliberali e quelli del marxismo e del comunismo (18).

Anche se Cheng Enfu non dedica, almeno nel libro di cui sto qui discutendo, particolare spazio al rapporto fra etica confuciana e valori del socialismo in stile cinese, è indubbio che nei documenti e nei discorsi dei dirigenti del Partito Comunista Cinese i riferimenti alla tradizione confuciana si siano infittiti dopo la svolta riformista. Non essendo un esperto conoscitore del confucianesimo, in quest’ultimo paragrafo mi limiterò a sottolineare le indubbie consonanze fra certe idee ricorrenti nei discorsi dell’attuale leadership cinese e altrettanti concetti tipici della tradizione confuciana (che ricavo da uno specialista come Maurizio Scarpari (19)).

La figura di Confucio (Kongzi) è circonfusa da un’aura mitica, anche perché molte delle informazioni che abbiamo su di lui sono avvolte dall’incertezza dovuta alla distanza temporale. Secondo la tradizione sarebbe nato da una famiglia aristocratica e morto a 72 anni nel 479 a.c. (dunque un contemporaneo dei classici della filosofia greca). Sappiamo che apparteneva alla classe dei letterati funzionari (tenuti a coltivare le sei arti: riti, musica cerimoniale, scrittura, aritmetica, tiro con l’arco, guida della biga). Visse in un’epoca di feroci contese fra i diversi regni in cui si divideva la Cina di allora, prima di essere unificata in un unico impero e, a quanto si dice, viaggiò di corte in corte in cerca di ambienti favorevoli alla sua predicazione (se così può essere definita la trasmissione di un insieme di valori morali, più che di credenze religiose).

Il suo pensiero, più che da fonti dirette, ci è noto attraverso i testi di alcuni suoi discepoli appartenenti alla casta dei ru (così venivano chiamati gli intellettuali confuciani), i quali, più che membri di una scuola organizzata, erano pensatori indipendenti accomunati da una cultura fondata sui valori e le tradizioni di un passato idealizzato, ma disposti a mediare e attenuare le proprie differenze nei confronti di altre scuole di pensiero, come il Taoismo e il Buddismo, ragion per cui la cultura tradizionale cinese non presenta il carattere di un blocco monolitico ma piuttosto quello di un mosaico ricco di sfumature.

In ogni caso, con il passare del tempo e con il crescere dell’esigenza imperiale di consolidare un’ideologia di stato, si è arrivati a canonizzare i quattro libri considerati più fedeli all'insegnamento originario del maestro, dopodiché essi furono imposti (a partire dal 1190) come testi obbligatori da imparare a memoria per superare l'esame di selezione imperiale che attribuiva il titolo di erudito e consentiva di accedere alla carriera di funzionario amministrativo statale.
Ma vediamo quali caratteristiche del confucianesimo possono essere accostate ai principi e ai valori del socialismo in stile cinese (senza dimenticare che le analogie fra idee elaborate in epoche separate da millenni di storia presentano inevitabili rischi di fraintendimento).

In primo luogo il concetto di armonia. Per il confucianesimo l’armonia è un fattore essenziale per il mantenimento dell’equilibrio dell’universo e di una corretta relazione uomo/natura. L’armonia confuciana è la dottrina del perfetto equilibrio e del giusto mezzo, per cui le differenze non devono dividere ma unire (il pensiero filosofico cinese mira all’integrazione più che alla contrapposizione degli opposti). Per realizzare questo ideale, basato sull’unità che connette il mondo umano con il mondo divino (concepito più come totalità dell’universo naturale che come entità trascendente), occorre condurre una vita esemplare, regolata da principi etici che riguardano sia l’ambito individuale che le gerarchie sociali.

Evidenti tracce di questa visione sono rintracciabili nel modo in cui i marxisti cinesi (a partire dallo stesso Mao) hanno introiettato e applicato il metodo dialettico, non considerando l’antagonismo come valore assoluto, bensì come momento legato a contingenze storiche concrete, laddove il raggiungimento dell’armonia fra i diversi strati del popolo svolge il ruolo di obiettivo strategico (tipici, in tal senso, sia l’affermazione di Cheng Enfu che nella fase attuale la contraddizione principale non è quella fra classi sociali bensì quella fra la domanda popolare di benessere e l’insufficienza di mezzi per esaudirla, sia la sua esortazione a superare gli eccessi produttivistici che hanno turbato il rapporto fra uomo e natura sia, a livello più generale, i continui richiami della dirigenza comunista all’obiettivo di costruire entro la metà del secolo XXI, una “Cina armoniosa”).

Veniamo al ruolo del saggio: l’intellettuale confuciano gode di un margine discrezionale che gli consente di interpretare i principi dettati dalla tradizione in modo elastico, adattandoli alle circostanze, ma tali capacità derivano dalla costanza e dall’impegno con i quali si sono coltivate le proprie qualità morali e intellettuali attraverso lo studio assiduo (vedi sopra quanto ricordato sui metodi di selezione dei funzionari imperiali).

Mi pare qui evidente l’assonanza con i durissimi criteri di selezione dei quadri dirigenti del Partito e dello Stato cinesi analizzati dallo studioso canadese Daniel Bell, che da anni vive e insegna in Cina (20). Bell ricorre al concetto (che suona per noi come un ossimoro) di “meritocrazia democratica verticale” per descrivere il sistema che seleziona la leadership politica cinese. Alla proverbiale durezza e competitività dei percorsi universitari, seguono i non meno impegnativi esami per accedere al pubblico impiego, dopodiché è possibile assumere un ruolo ai livelli più bassi del governo, mentre ogni successivo avanzamento dipende dalla qualità delle performance realizzate (21).

Dal tema della formazione delle élite passiamo a quello della loro legittimazione. L’imperatore regnava grazie al mandato del cielo, ma tale mandato non era un diritto acquisto, per cui se una dinastia si dimostrava inetta e corrotta il popolo aveva il diritto di rovesciarla anche con la violenza (nella storia cinese non mancano le sollevazioni contadine che hanno deposto alcune case regnanti). Del resto l’etica confuciana, mentre predica il rispetto dell’ordine gerarchico, lo associa all’obbligo del governante di garantire il benessere materiale e spirituale dei governati. Per il confucianesimo, l'autorevolezza e il carisma dell’élite – il buon governo – sono l’altra faccia della capacità di adempiere a tale obbligo e il popolo accetta l’autorità non perché gli viene imposta con la forza, ma perché determinati modelli di condotta gli vengono inculcati con l’esempio che viene dall’alto. Anche in questo caso è Daniel Bell a mettere in luce come l’attuale, massiccio (nonché ampiamente superiore a quello dei popoli occidentali) consenso dei cittadini cinesi nei confronti del proprio governo si fondi su un meccanismo del tutto simile (22).

A questo punto mi sembrano chiare le ragioni per cui non ritengo che la rivoluzione cinese possa fungere da modello per chi ancora crede nella possibilità di abbattere la società capitalista. Il marxismo sinizzato non può essere tale appunto perché è sinizzato, vale a dire perché è il prodotto irripetibile di un percorso storico millenario, nonché delle specifiche caratteristiche socioculturali ed economiche che tale percorso ha generato.

Ciò detto occorre domandarsi: la rivoluzione russa non è stata il prodotto di un marxismo “russificato”, tanto è vero che l’eresia di Lenin (tale era rispetto ai canoni del marxismo della II Internazionale) ha modificato la teoria in misura tale da imporre di ribattezzarla con il termine marxismo-leninismo? E ancora: i movimenti rivoluzionari latinoamericani non si ispirano a un marxismo “cristianizzato” dalla teologia della liberazione (23)? E il marxismo rivoluzionario africano è meno “contaminato” da fattori socioculturali e tradizioni storiche “locali” (24)?

Invece in Occidente siamo ancora in attesa di “traduzioni” delle astrazioni teoriche marxiane in progetti politici ritagliati sulle concrete caratteristiche delle nostre (diverse nei vari contesti nazionali) tradizioni storico-culturali, composizioni di classe, eredità ideologiche, ecc. Per quanto riguarda l’Italia, solo Antonio Gramsci ha tentato di affrontare l'impresa prima di essere assassinato dal regime fascista, mentre la togliattiana “via italiana al socialismo” ha esaurito la propria spinta propulsiva prima di riuscire a produrre un progetto rivoluzionario concretamente praticabile. Poi è calato – non solo in Italia ma in tutta Europa – il grande silenzio, la morte di un marxismo occidentale (25) ridotto a formulette astratte.

Note

(1) Vedi, in particolare, C. Formenti, Guerra e rivoluzione, 2 voll., Meltemi, Milano 2023. Vedi anche “L’enigma del miracolo cinese e la necessità di ridefinire il concetto di socialismo”.

(2) Cheng Enfu, Dialettica dell'economia cinese. L’aspirazione originale della riforma, Edizioni Marx 21, 2024.

(3) G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano 2007.

(4) A. Gabriele, E. Jabbour, Socialist Economic Development in the 21st Century. A Century after the Bolshevik Revolution, Routlege, London-New York 2022.

(5) V. I. Lenin, L'economia della rivoluzione,(a cura di V. Giacché), il Saggiatore, Milano 2017.

(6) Vedi, fra gli altri, G. Gabellini, Krisis. Genesi, formazione e sgretolamento dell’ordine economico statunitense, Mimesis, Milano-Udine 2021; F. M. Parenti, La via cinese, Meltemi, Milano 2021; V. Giacché, L’economia e la proprietà. Stato e mercato nella Cina contemporanea, in AAVV, Più vicina. La Cina del XXI secolo, Roma 2020; D. A. Bertozzi, Cina popolare. Origini e percorsi del socialismo con caratteristiche cinesi, L’Antidiplomatico 2021; R. Herrera, Z. Long, La Cina è capitalista?, Marx 21, Bari 2012; A. Gabriele, Enterprises, Industry and Innovation in the People’s Republic of China, Springer, Berlino 2020; Z. Boyng, Il socialismo con caratteristiche cinesi. Perché funziona? Marx 21, Bari 2019.

(7) Il sottotitolo del libro di Cheng Enfu (L’aspirazione originale della riforma) si spiega con il fatto che larga parte del suo testo è dedicata alla confutazione delle teorie degli accademici cinesi convertiti al neoliberismo, i quali interpretano la riforma voluta da Deng come un via libera alla liquidazione della proprietà pubblica e alla liberalizzazione senza residui.

(8) Cfr. T. Piketty, Le capital au XXI siécle, Seuil, Paris 2013.

(9) Sul diretto e pesante coinvolgimento dei servizi americani e di altre potenze occidentali nei fatti di Piazza Tienanmen del 1989 cfr. D. Losurdo, “Tienanmen 1989: prova generale delle rivoluzioni colorate” in AAVV, Marx in Cina, Marx 21, Bari 2015.

(10) Nel primo capitolo di Guerra e rivoluzione, op. cit., contesto a mia volta questi due pilastri del canone marxista dogmatico, che si rafforzano a vicenda nell’accreditare l’idea secondo cui le condizioni “oggettive” della transizione al socialismo maturano all’interno dei rapporti capitalistici di produzione, e coincidono con il raggiungimento di un determinato livello di sviluppo delle forze produttive.

(11) Secondo Lenin la possibilità di rovesciare il regime capitalista è legata al venir meno della capacità egemonica delle élite dominanti più che a motivi di tipo economico (crisi ecc.).

(12) Giacché ricorda che nell’Anti-Duhring Engels affermava che il socialismo, fin dalla sua prima fase, non è caratterizzato solo dalla socializzazione dei mezzi di produzione, ma anche dalla fine della produzione mercantile e dei rapporti monetari.

(13) Sulla critica della visione della storia come un processo governato da necessità immanenti equiparabili alle leggi che governano il mondo naturale cfr. G. Lukacs, Ontologia dell’essere sociale, 4 voll. Meltemi, Milano 2023; vedi anche C. Preve, La filosofia imperfetta, Franco Angeli, Milano 1984.

(14) Rita di Leo vede nella politica salariale penalizzante nei confronti di tecnici, esperti e professionisti – politica che ha generato una profonda ostilità delle classi medie nei confronti del regime - una delle cause che hanno determinato il crollo dell’Urss: vedi L'esperimento profano, Futura, Roma 2011.

(15) Questa descrizione del rapporto dell’uomo con la natura richiama il concetto di lavoro come ricambio naturale elaborato da Marx nel I Libro del Capitale. Concetto su cui Lukacs fonda la sua riflessione sul lavoro nella Ontologia (op. cit.).

(16) Gabriele e Jabbour definiscono “socialist oriented” quelle formazioni sociali che, pur non essendo classificabili come socialiste a pieno titolo, sono credibilmente orientate a costruire una società socialista.

(17) Anche qui siamo un presenza di una visione “aperta” del processo storico (che concepisce cioè il futuro in termini di possibilità e non di necessità) in sintonia con quella di Lukacs (vedi nota 13).

(18) Nella Ontologia (op. cit.) Lukacs non descrive l’ideologia come falsa coscienza, bensì come potenza materiale, e afferma che si può parlare di ideologia allorché siamo di fronte a un sistema di principi e valori che una determinata classe dominante considera come appropriati per l’intera società (ed è in grado di far sì che anche le altre classi condividano tale credenza). Mi pare una definizione vicina a quella che Cheng Enfu usa qui per il concetto di fede.

(19) Cfr. M. Scarpari, Il confucianesimo. I fondamenti e i testi, Einaudi, Torino 2010.

(20) Cfr. D. Bell, Il modello Cina. Meritocrazia politica e limiti della democrazia, Luiss, Roma 2019.

(21) Secondo Bell (op. cit.), il modello meritocratico cinese consente di selezionare quadri dirigenti di qualità nettamente superiore a quella dei leader politici occidentali, i quali non passano la vita ad acquisire meriti risolvendo problemi, bensì a raccogliere consenso elettorale attraverso la comunicazione, né hanno la possibilità di sviluppare piani di lungo periodo perché i tempi della politica occidentale impongono di ragionare e agire sul breve periodo.

(22) I cittadini cinesi, sempre secondo Bell, valutano l’operato dei loro leader politici esclusivamente in termini di benefici apportati al proprio livello di vita, per cui sono poco sensibili alle sirene di una democrazia occidentale fondata su mere garanzie procedurali.

(23) Vedi quanto ho scritto in proposito in un post del 16 febbraio del 2023 su queste pagine: “Il Marx teologo di Enrique Dussel”; vedi anche E. Dussel, Le metafore teologiche di Marx, Shibboleth, Roma 2018; vedi infine H. Assmann, Idolatria del mercato. Saggio su economia e teologia, Castelvecchi, Roma 2020.

(24) Sul rapporto fra marxismo rivoluzionario e culture tradizionali africane cfr. A. Cabral, Return to the source, Monthly Review Press, new York 2022 (second edition).

(25) Cfr. D. Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Laterza, Roma-Bari 2017.

Fonte

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