All’indomani della caduta del presidente siriano Bashar al-Assad, una campagna di bombardamenti senza precedenti si è abbattuta per più giorni sulla Siria.
Oltre 500 attacchi aerei israeliani hanno distrutto basi militari, sistemi radar, depositi di armi, aerei ed elicotteri da combattimento, sistemi di difesa aerea, e la flotta di stanza a Latakia. Secondo stime israeliane, almeno l’80% delle forze armate siriane è andato distrutto.
Mentre la Siria veniva smilitarizzata, truppe israeliane creavano una zona cuscinetto in territorio siriano, in corrispondenza del Golan occupato, prendendo il controllo della vetta del Monte Hermon, e arrivando a poche decine di chilometri da Damasco.
Questa vetta, che avvicinandosi ai 3.000 metri di altezza è la più alta della Siria, ha un valore strategico: pone Damasco alla portata dell’artiglieria israeliana, e permette a Tel Aviv di controllare lo spazio aereo siriano oltre a quello libanese.
A parte la flebile protesta dell’inviato speciale dell’ONU per la Siria e qualche mugugno dei paesi arabi, l’operazione israeliana – una palese violazione del diritto internazionale – è avvenuta nel silenzio pressoché totale del resto del mondo.
La caduta di Assad era forse inevitabile. I russi, che dopo il loro intervento militare del 2015 in Siria avevano provato a incoraggiare un processo di riforma nel paese, si erano scontrati col netto rifiuto del regime.
Ma il crollo di quest’ultimo rappresenta una sconfitta per Mosca, così come per Pechino e il nascente mondo multipolare. E naturalmente per l’Iran, il quale vede disarticolato il proprio “asse della resistenza” che giungeva fino a Hezbollah in Libano, e a Hamas in Palestina, passando proprio per la Siria.
È invece una vittoria inaspettata per il vecchio sogno neocon, formulato già nel 1996, che prevedeva di ridisegnare il Medio Oriente attraverso una serie di cambi di regime, a vantaggio di USA e Israele.
Quel sogno, archiviato dopo le disastrose imprese militari di George W. Bush in Iraq e Afghanistan, e poi nuovamente dopo il fallito cambio di regime in Siria, orchestrato dall’amministrazione Obama dopo lo scoppio delle rivolte arabe del 2011, sembra ora riemergere in questi mesi in maniera del tutto inattesa.
La Siria post-Assad è un paese stremato da 13 anni di conflitto e dal durissimo regime di sanzioni imposto da americani ed europei, tuttora a rischio di ripiombare in una sanguinosa guerra civile.
Il crollo di Assad lascia Hezbollah isolato nel vicino Libano, indebolito dal durissimo scontro militare con Israele conclusosi il 27 novembre con un cessate il fuoco vantaggioso per Tel Aviv.
Grazie a un’intesa con Washington, l’accordo lascia piena libertà d’azione a Israele nei cieli libanesi. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu è riuscito a disaccoppiare il fronte libanese da Gaza, strappando a Hezbollah un cessate il fuoco non più condizionato alla fine delle ostilità nella Striscia.
Mentre quest’ultima rimane ad affrontare il suo tragico destino in solitudine, Hezbollah deve pensare alla difficile ricostruzione e fare i conti con un fronte interno dove la componente sunnita è rinfrancata dal crollo del regime di Damasco.
A est della Siria gli USA esercitano tuttora notevole influenza sull’Iraq, anche grazie alla leva finanziaria che possono esercitare sul paese poiché gli introiti petroliferi iracheni sono depositati in un conto presso la Federal Reserve americana.
Ma per il governo Netanyahu il trofeo finale resta l’Iran, rimasto più isolato a seguito dell’indebolimento dell’asse della resistenza.
Alla vigilia del cessate il fuoco in Libano, il premier israeliano aveva dichiarato che accettava l’accordo per tre ragioni: rifornire gli arsenali israeliani ormai svuotati, aumentare la pressione su Hamas, e concentrarsi sull’Iran.
Sulla stampa israeliana si sono moltiplicati gli articoli che parlano di una “finestra di opportunità” per colpire le installazioni nucleari iraniane alla luce dello stato di debolezza in cui si troverebbe Teheran.
La tesi è che l’Iran, isolato a livello regionale, potrebbe puntare a costruire l’arma atomica se i suoi impianti nucleari non verranno distrutti. Perciò l’aeronautica israeliana si starebbe preparando per un possibile attacco.
L’eliminazione delle difese aeree siriane offre a Israele un corridoio sicuro per arrivare al confine iraniano attraverso l’Iraq, il cui spazio aereo è controllato dall’alleato statunitense.
L’ideale per Tel Aviv sarebbe coinvolgere Washington nell’operazione. Secondo il Wall Street Journal, l’entourage del neoeletto presidente Donald Trump starebbe studiando la possibilità, sebbene l’intelligence USA affermi che non vi sono indicazioni che l’Iran stia costruendo un ordigno nucleare.
Un’operazione di questo genere comporterebbe grossi rischi. Teheran potrebbe rispondere colpendo con i suoi missili Israele e le basi americane nella regione. L’Iran è un paese strategico per gli equilibri mondiali e la stabilità dei mercati energetici. Ed è un partner chiave di Mosca e Pechino.
Il miraggio di rovesciare il tavolo in Medio Oriente all’indomani della caduta di Assad, imponendo un’egemonia israelo-americana sull’intera regione, potrebbe spingere Trump e Netanyahu verso avventurismi dalle conseguenze imprevedibili.
Apparentemente, da Damasco a Teheran il passo è breve, ma anche molto pericoloso.
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