Non tutti sanno che la Cassa Integrazione fornisce al lavoratore una retribuzione equivalente a circa 5 euro netti all’ora. Con questo reddito da fame decine di migliaia di lavoratori Stellantis dovranno vivere in Italia per gran parte del prossimo anno.
Questa è la prima vera notizia dell’incontro tra Stellantis, sindacati e governo che ha visto il ministro Urso festeggiare ed incensare Imparato, il nuovo super manager del gruppo, mentre la FIM CISL già rinverdiva il suo ruolo di fedelissima dell’azienda e FIOM UILM borbottavano perplesse.
Siamo lontani anni luce dalla durissima lotta in corso alla Volkswagen per tutelare i salari e i diritti dei lavoratori, minacciati dai tagli aziendali.
In Stellantis la richiesta di escludere per i prossimi anni i licenziamenti, anche negli appalti, e di integrare con fondi aziendali la magrissima CIG, non sono nemmeno sul tavolo. Pazienza però, perché l’azienda promette che dal 2026 arriveranno investimenti e nuove produzioni e tutto ricomincerà ad andare bene.
Se in Italia ci fosse ancora una dimensione rispettosa delle relazioni industriali, le promesse senza veri impegni di Jean Philippe Imparato sarebbero respinte al mittente non solo dai sindacati, ma anche da un governo degno di questo nome.
Invece il ministro del Made in Italy, la denominazione in inglese è già programmatica, Adolfo Urso, di fronte al manager Stellantis si è comportato come il ragionier Fantozzi di fronte al capufficio: come è buono lei!
Gli stentorei proclami di Giorgia Meloni contro l’azienda e la proprietà Agnelli Elkann sono finiti a tarallucci e vino, come per altro sempre fa questo governo finto sovranista quando si trova di fronte la dura brutale sovranità di padroni e potenti veri.
Ma cosa ha davvero messo Stellantis sul tavolo? 2 miliardi di investimenti, che sono stati pompati come un generoso Bengodi, quando sono il minimo necessario semplicemente per non chiudere le fabbriche. E 6 miliardi di acquisto dall’indotto, che sono in realtà pura normalità e comunque molto meno di quanto la sola FIAT faceva in passato.
Sono stati annunciati modelli di auto ibride, che vengono quindici anni dopo quelli dei concorrenti; e poi alcune piattaforme per vetture elettriche, sulle quali finora abbiamo solo la catastrofica 500 elettrica. E infatti, al di là delle vaghe e confuse promesse, Imparato si è ben guardato dal riproporre l’obiettivo di un milione di auto prodotte in Italia.
Questo volume produttivo è quello che l’ex CEO Tavares, anche allora con gli applausi del sorridente Urso, aveva dichiarato essere il solo in grado di garantire occupazione e stabilimenti in Italia. Ora scompare anche dall’orizzonte delle promesse.
Per dare una proporzione ai 2 miliardi d’investimento in Italia che oggi primeggiano su tutti i giornali, bisogna sapere che in questo stesso periodo le grandi aziende automobilistiche stanno programmando decine e decine di miliardi di investimenti e che un solo modello integralmente nuovo di autovettura richiede almeno 3/4 miliardi di investimenti.
Mi si obietterà che i 2 miliardi di investimenti esaltati da Urso sono solo una parte di tutti quelli che farà Stellantis. Esatto ed è stupefacente che al tavolo ministeriale nessuno abbia fatto questa semplice domanda: gli investimenti del gruppo in Italia che percentuale sono rispetto a quelli complessivi del gruppo in tutti i paesi dove opera?
Perché se fossero davvero una quota rilevante, vorrebbe dire che Stellantis investe meno, molto meno dei suoi diretti concorrenti. Se invece quegli investimenti fossero una piccola parte di ciò che Stellantis spenderà altrove, allora vuol dire che l’Italia resta la Cenerentola del gruppo. E infatti l’unico vero nuovo investimento annunciato nel passato, la grande fabbrica di batterie e impianti elettrici a Termoli, è semplicemente sparito. Quella fabbrica si farà in Spagna.
Insomma l’incontro con Stellantis al ministero è avvenuto rispettando il solito copione: il manager rassicura, il governo applaude, la stampa esalta, il sindacato si divide tra chi dice viva e chi prova con fatica a dire che non basta.
Ricordo che nel 2010, dopo aver imposto ai lavoratori dì Pomigliano di rinunciare al contratto nazionale con il ricatto della delocalizzazione della produzione, Sergio Marchionne annunciò il programma Fabbrica Italia con 20 miliardi di investimenti.
Poi nel 2012 lo stesso amministratore delegato della FIAT dichiarò che la situazione era cambiata e che Fabbrica Italia non c’era più. Tutto il palazzo politico e mediatico, che aveva esaltato a dismisura quel progetto, non disse nulla sulla sua cancellazione.
Nel 2015 John Elkann, dopo la fusione tra FIAT e Chrysler che diede origine alla FCA, addirittura promise 55 miliardi di investimenti per 80 nuovi modelli di auto. È vero che non specificò in quanti secoli ciò sarebbe avvenuto, ma ciò bastò a politici e stampa per esaltare l’intraprendenza e la lungimiranza del nuovo gruppo industriale e della sua proprietà. E non a caso John Elkann oggi continua rifiutare ogni presenza in Parlamento, forse qualcuno potrebbe ricordare e chiedere conto.
I 2 miliardi di oggi, che dovrebbero salvare la produzione di auto in Italia, sono molto meno delle promesse del passato, che almeno rispondevano alla dimensione di ciò che sarebbe davvero necessario per non chiudere le fabbriche. Ed è bene ricordare che solo negli ultimi tre anni la famiglia Agnelli Elkann ha accumulato utili superiori a quanto promette di investire.
Variano molto le cifre delle promesse di FIAT, FCA, Stellantis, ma restano costanti il servilismo della politica e dei governi, la propaganda mediatica, la debolezza o la complicità sindacale, con cui sono accolte. E finora tutte le promesse di FIAT, FCA, Stellantis sono state smentite dai fatti.
Fumo e servilismo sono le costanti che accompagnano le vicende della sempre più scarsa produzione di auto in Italia. Intanto gli operai si dovranno abituare a vivere nel 2025 con una retribuzioni media equivalente a 5 euro all’ora. A meno che i lavoratori e la parte più onesta dei sindacati finalmente non si ribellino.
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