Prima hanno tolto il reddito di cittadinanza e i contributi all’affitto per le famiglie a maggiore disagio sociale, adesso l’emendamento presentato in Finanziaria dal governo vuole andare a colpire l’indennità di disoccupazione, più conosciuta come Naspi. Per molti esperti del settore si tratta solo di una stretta che va a penalizzare tutti, rendendo più difficile l’accesso alla misura che assicura un reddito a chi viene licenziato, per un massimo di due anni e in quantità decrescente.
Come noto, con le dimissioni volontarie non si poteva richiedere la Naspi. Il sussidio è previsto infatti solo per licenziamento datoriale o dimissioni per causa di forza maggiore (es. trasferimento dell’azienda in un altra città). Per questo, in alcuni casi, i dipendenti in difficoltà con il loro ambiente di lavoro premevano sulla proprietà per essere licenziati e ricevere così l’indennità.
L’azienda, in questo caso, deve versare all’Inps il ticket di disoccupazione, che può arrivare fino ad un massimo di 2mila euro. Se il padrone si rifiuta, sempre in alcuni casi, i dipendenti puntavano a far scattare il licenziamento disciplinare che permetteva di accedere alla Naspi.
Secondo i parametri dell’Inps la Naspi spetta dall’ottavo giorno successivo alla data di cessazione del rapporto di lavoro. Viene corrisposta mensilmente per un numero di settimane pari alla metà delle settimane contributive presenti negli ultimi quattro anni.
L’emendamento del governo inserito nella manovra ha l’obiettivo di fare in modo che i lavoratori che hanno dato dimissioni volontarie da un lavoro «a tempo indeterminato nei 12 mesi precedenti, avranno diritto alla Naspi in caso di licenziamento da un nuovo impiego solo se hanno almeno 13 settimane di contribuzione dal nuovo impiego, perso il quale si richiede l’indennità».
Con il nuovo dispositivo chi ha già presentato le dimissioni volontarie nei dodici mesi precedenti, oppure si è fatto licenziare per motivi disciplinari causa 16 giorni di assenze ingiustificate, rischia in caso di nuovo licenziamento, se verrà approvato l’emendamento, di ottenere l’assegno soltanto se ha lavorato per più di tre mesi nel nuovo posto di lavoro.
L’accanimento del governo contro gli strumenti di sostegno al reddito di disoccupati e famiglie povere viene giustificata come lotta contro i “furbetti”, una motivazione che stride come unghie sul vetro in un esecutivo che protegge ministri che hanno pagato i dipendenti con i soldi della cassa integrazione durante il covid o continua a ritenere gli evasori fiscali dei perseguitati o che ha cercato di aumentare lo stipendio ai ministri non parlamentari.
Ma c’è anche dell’altro ed è l’enorme questione degli ammortizzatori sociali in una fase di minacciosa crisi industriale e di riduzione della forza lavoro necessaria a mandare avanti le fabbriche nell’epoca di una automazione crescente della produzione. Se l’approccio è quello indicato finora, la crisi sociale e la precipitazione delle condizioni di vita di milioni di persone sarà devastante.
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