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20/12/2024

Siria - Un’occasione per Israele e per l’immagine di Netanyahu

Il Golan è diventato il set fotografico preferito dal Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che divide ormai la sua presenza pubblica tra le aule del tribunale (nelle quali è presente come imputato per crimini di corruzione) e il monte Jamal al-Sheikh (monte Hermon). Le immagini dalle Alture occupate del Golan rimbalzano su tutti i media. “La sua ossessione di controllare lo specchio attraverso il quale è percepito”, scrive il quotidiano israeliano Haaretz, “lo ha portato sul banco degli imputati in tribunale ed è al centro della sua testimonianza come incriminato in tre casi di corruzione”. Sono immagini di vittoria, con la bandiera israeliana che sventola sempre vispa alle spalle del premier sorridente, che tentano di sovrascrivere la memoria del fallimento del 7 ottobre 2023, della sconfitta dei servizi segreti e dell’incapacità del governo di prevenire l’attacco di Hamas.

E la strategia pare funzionare. L’immagine di una Israele vincente, guidata da un leader spregiudicato che conduce i suoi soldati attraverso i confini, bombarda e occupa Stati e territori (Gaza, Cisgiordania, Libano, Siria), completamente immune alla legge internazionale e alle conseguenze etiche delle proprie azioni, rinsalda la fiducia interna e stringe il popolo intorno al primo ministro. Perché non si tratta più del solo desiderio di vendetta, già soddisfatto con l’uccisione dei leader del movimento di Hamas e di quelli di Hezbollah. Si tratta ora di cogliere l’occasione per ottenere di più. Di più in termini di sicurezza, di controllo, di territorio, di accordi politici ed economici. Si tratta di ottenere l’alienazione di tutti i propri nemici, diretti e indiretti, isolarli e indebolirli per decenni, dai palestinesi ai libanesi, fino ad arrivare all’Iran.

Tel Aviv non avrebbe mai potuto perdere l’occasione siriana, inserendosi con velocità e scaltrezza nel vuoto lasciato dalle forze governative di Assad e non ancora riempito dai nuovi capi, molto timidi nei rapporti con lo stato ebraico. Non avrebbe potuto perderla per varie ragioni. Per la sicurezza delle zone a nord di Israele, per il ritorno dei cittadini che sono stati evacuati dall’inizio degli scontri con il movimento sciita libanese, per ottenere ciò che tutti i leader del passato hanno provato a ottenere, per trattare da un punto di forza con il nuovo governo siriano, per far ripartire e allargare l’economia del turismo verso gli impianti sciistici (ora chiusi) nel Golan occupato e per rafforzare l’immagine della sua vittoria.

Dalla caduta di Bashar al Assad ad oggi, in poco più di dieci giorni, i militari israeliani hanno preso il controllo di circa 440 chilometri quadrati di territorio siriano. Hanno abbondantemente superato le linee dell’armistizio e sono arrivati a 20 chilometri dalle campagne a sud di Damasco e poi giunti a soli 12 chilometri dalla strada internazionale che collega proprio la capitale siriana a Beirut. Ma non solo, si sono spinti in diversi villaggi, fino alla zona di Quneitra. Diverse testimonianze raccontano che in più occasioni gli abitanti siriani sono stati costretti dai militari di Tel Aviv a consegnare armi e documenti e a rispettare un coprifuoco. Ci sono segnalazioni di interrogatori e della presenza, insieme ai soldati, di archeologi specializzati che stanno mappando il territorio. Nella tarda mattinata di oggi, fonti siriane hanno fatto sapere che una trentina di soldati israeliani, con veicoli blindati e bulldozer, sono entrati in un’area militare a ovest di Al-Rafid, nella campagna a sud di Quneitra, abbattendo alberi e recinzioni.

All’inizio dell’avanzata, probabilmente per rassicurare i partner internazionali, il premier Netanyahu ha parlato di una “operazione temporanea” che si sarebbe chiusa con un nuovo accordo da sottoscrivere con i gruppi che controllano Damasco. La necessità di un patto “nuovo” è stata motivata dichiarando nullo l’accordo di disimpegno del 1974 perché il firmatario siriano non era più disponibile e i suoi soldati avevano abbandonato le postazioni di confine. Il registro è presto cambiato, con l’approvazione di un piano da circa 11 milioni di dollari per lo sviluppo demografico del Golan. “Rimarremo sul Golan fino alla fine del 2025” ha detto alle sue truppe, che mentre preparano rifugi-fortezza, si insinuano sempre più in profondità nel territorio siriano.

La narrazione dello stato ebraico, presentata sui più importanti media interni, è quella già utilizzata in passato per una parte della popolazione drusa che voleva abbandonare la Siria per ottenere la cittadinanza israeliana. Un desiderio che, secondo Tel Aviv, esprimono non solo i drusi del versante israeliano delle Alture del Golan ma anche quelli del versante siriano, ben oltre la buffer zone demilitarizzata che separa i due confini. Le televisioni hanno fatto circolare video che mostrerebbero alcune persone dei villaggi siriani consegnare volontariamente vecchie armi dei militari di Assad all’esercito israeliano e alcuni drusi, definiti dai media “leader dei villaggi”, dichiarare che si sentono più israeliani che siriani. La narrazione araba è prevedibilmente diversa. I cittadini dei paesi del versante siriano del monte Jamal al-Sheikh, che definiscono quella di Tel Aviv una occupazione, hanno dichiarato per bocca dei propri capivillaggio di essere stati costretti dai militari a consegnare le armi e che non accetterebbero mai la cittadinanza israeliana perché si sentono e sono siriani. In fondo, la popolazione drusa di Israele è stata quella che ha pagato di più, in termini di vittime, per lo scontro tra Tel Aviv ed Hezbollah. Il numero di cittadini israeliani appartenenti a minoranze uccisi dai missili in 14 mesi di guerra, sproporzionato rispetto alle vittime ebree israeliane, dimostra l’incapacità o la poca volontà del governo di fornire protezione adeguata ai propri cittadini drusi, arabi e beduini.

L’avanzata israeliana in Siria, accompagnata da centinaia di bombardamenti che hanno distrutto centri di ricerca, depositi di armi, strutture statali ed altro, non rincorre però semplicemente la posizione dei villaggi ai piedi del monte. Segue l’acqua. Almeno tre fonti idriche tra le più importanti della regione sarebbero state raggiunte dai militari: Sheikh Hussein, Sahm Al Golan, Al Bakar Al Gharbi. Si tratta spesso di bacini o corsi d’acqua che garantiscono l’approvvigionamento in zone che soffrono di siccità non solo in Siria ma anche in Paesi di confine, come la Giordania.

Anche in Libano, nonostante il cessate il fuoco, Tel Aviv continua la sua avanzata. Dal 27 novembre, giorno della tregua con Hezbollah, i militari sono entrati in diversi villaggi, allargando e rendendo più stabile la propria linea di occupazione lungo tutto il confine libanese. Secondo fonti vicine al gruppo sciita, l’esercito in meno di un mese avrebbe aumentato almeno di un terzo l’area occupata, attraverso i bombardamenti, la demolizione degli edifici e l’appiattimento delle macerie.

Dopo una prima smentita, l’esercito israeliano ha dovuto ammettere che decine di coloni hanno attraversato la frontiera entrando nel territorio del Libano del sud per reclamarlo come proprio, montando tende e strutture. Si tratterebbe soprattutto di estremisti del Movimento Ori HaTzafon (Pelli del Nord). Le foto ritraggono coloni esibire striscioni che mostrano l’albero di cedro, simbolo del Libano, inscritto nella stella di David. A settembre lo stesso gruppo ha messo in vendita, attraverso il proprio sito web, proprietà nel sud del Libano al costo di partenza di 80.000 dollari.

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