Presentazione
Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni
07/09/2025
Le contraddizioni nella politica imperiale della seconda amministrazione Trump
Articolo piuttosto interessante di Politico, che ci fornisce qualche elemento in più per rispondere a una domanda che da un po' ci ponevamo, ovvero: abbiamo capito che gli USA si vogliono sganciare dall'Ucraina, forse dall'Europa in generale, e dare priorità al nemico "vero", la Cina – ma lo stanno effettivamente facendo? Perché in linea di principio pare di no. Certo, un paio di batterie di missili sono state portate nelle Filippine per esercitazioni è lì sono restate, è stato mandato qualche carico di armi a Taiwan, ma insomma non pare davvero di vedere una escalation, né come esposizione militare e nemmeno come linguaggio diplomatico. E infatti Politico ha parlato con tre persone che hanno avuto accesso alle versioni preliminari del nuovo National Defense Strategy nel quale si dice che per la nuova amministrazione statunitense la priorità è domestica e regionale, non più il contrasto a Russia e Cina. Secondo uno dei tre, "Questo sarà un cambiamento grosso per gli USA e i loro alleati su più continenti. Le vecchie, fidate promesse degli USA sono messe in discussione".
Politico ricorda ovviamente che il piano non è ancora definitivo e potrebbe essere modificato. Però spiegherebbe sia l'infatuazione, chiamiamola così, per la Groenlandia che la retorica piuttosto bellicosa sul Messico che soprattutto l'escalation, questa sì evidente e sostanziale, a Portorico dove si stanno concentrando un buon numero di navi, mezzi da sbarco, F-35 e aerocisterne (quest'ultimo di solito un buon indizio che qualcosa in ballo c'è davvero) in seguito alle minacce contro il Venezuela di essere uno stato che sponsorizza il narcotraffico. Del resto, ricorda sempre l'articolo, il responsabile della politica del Pentagono è Elbridge Colby, storicamente un isolazionista, molto allineato quindi alle posizioni di Vance. Il mese prossimo, quando il documento definitivo dovrebbe essere reso pubblico, sapremo se le cose stanno davvero così.
A proposito di disimpegni, comunque, ce n'è appena stato un altro: gli USA hanno tagliato una serie di finanziamenti che rientravano nella "Section 333", un programma federale per il rafforzamento delle forze militari straniere, ovviamente alleate. I finanziamenti a Estonia, Lettonia e Lituania sono stati tagliati, e non è un problema da poco: la Lituania aveva ricevuto 200 milioni di $, Estonia e Lettonia 360 milioni. Non cifre formidabili ma comunque di tutto rispetto, tagliate proprio quando i tre avevano deciso di aumentare, dall'anno prossimo, le spese militari oltre il 5% del PIL. Dovranno rinunciarci oppure, come al solito, quello che manca ce lo mettiamo noi.
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Quasi 3 miliardi di multa a Google da parte della UE, Trump non resterà a guardare
A Google è stato ordinato di “porre fine a pratiche di auto-preferenza” per quanto riguarda i servizi tecnologici per il posizionamento di pubblicità online. È stato anche intimato all’azienda di eliminare i conflitti di interesse intrinseci della catena di forniture, dove Google ha un evidente egemonia per la sua posizione quasi monopolitistica quando si tratta di motori di ricerca.
Le pratiche messe sotto osservazione sono considerate come lesive per concorrenti, inserzionisti ed editori online, e perciò il Consiglio europeo degli editori aveva proceduto a presentare una denuncia contro Google. Il gigante di Mountain View, controllato da Alphabet, avrebbe abusato della sua posizione sin dal 2014.
Non è infatti la prima volta che viene multato per questioni simili, ma addirittura la quarta. Nel 2022 la Commissione di giustizia della UE aveva imposto una sanzione ancor più sostanziosa: ben 4,1 miliardi. Ad ogni modo, non è mai stato chiesto a Google di procedere allo scorporamento dei suoi servizi, che sarebbe un duro colpo per la sua posizione dominante sul mercato.
Tra i motivi, c’è sempre stato anche il timore di misure di ritorsione commerciale, risposta a cui ha già accennato Donald Trump. Non a caso, stando a indiscrezioni di stampa non ancora smentite, nei giorni scorsi il commissario UE al Commercio, Maroš Šefčovič, si sarebbe opposto a comminare la multa, proponendo di sospenderla e, probabilmente, trattare con il diretto interessato.
Google, che ora ha 60 giorni di tempo per informare la Commissione su come intende procedere, ha nel frattempo annunciato che farà ricorso, e che valuta la sanzione come un altro esempio di un’applicazione sproporzionata delle leggi, da parte delle autorità europee, verso le compagnie stelle-e-strisce.
Non potrebbe essere più d’accordo l’inquilino della Casa Bianca, che ha colto l’occasione al volo per riportare pressione su Bruxelles. Il tycoon ha infatti scritto sul social Truth che la multa andrà a sottrarre “denaro che altrimenti sarebbe andato a investimenti e posti di lavoro negli Stati Uniti”, e che questo non può accettarlo.
Trump inserisce questo provvedimento in una serie di azioni che considera discriminatorie verso le imprese statunitensi, in particolare quelle delle Big Tech. Ha poi aggiunto: “non possiamo permettere che questo accada alla brillante ingegnosità americana e, se ciò dovesse accadere, sarò costretto ad avviare un procedimento ai sensi della Sezione 301 per annullare le sanzioni ingiuste imposte a queste aziende americane contribuenti”.
Il riferimento è alla Sezione 301 del Trade Act del 1974, che consente al presidente o al Rappresentante per il Commercio degli Stati Uniti di indagare su pratiche commerciali estere ritenute ingiuste o discriminatorie. Permette, inoltre, nel caso in cui i dubbi siano confermati, di adottare misure come dazi, restrizioni commerciali o altre azioni simili.
È chiaro che Bruxelles non può nascondersi ancora a lungo dietro la propaganda di rispetto del ‘libero mercato’, facendo passare questa multa come un provvedimento che non avrebbe nulla a che vedere con la guerra commerciale in atto.
L’amministrazione statunitense non è disposta a far passare sotto traccia la vicenda Google perché – al di là della cifra eventualmente da sborsare – rientra perfettamente nella “narrazione” trumpiana dei rapporti tra “l’America” e il resto del Mondo. Dove non ci sono più “alleati” o “nemici”, ma solo avversari da ridurre a vassalli.
L’Unione Europea – con gli “accordi” sui dazi siglati da von der Leyen ha accettato la subordinazione, ma l’inerzia del ciclo precedente semina ancora qualche “incidente” come questo.
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05/09/2025
Come gli USA hanno inventato un traffico di droga per un potenziale attacco contro il Venezuela
Il Dipartimento di Stato USA, nel febbraio 2025, aveva dichiarato che il Tren de Aragua era un cartello della droga internazionale alla stregua di cartelli già riconosciuti come i messicani Los Zetas (ora Cártel del Noreste), Sinaloa e Jalisco, nonché la Mara Salvatrucha (MS-13), formatasi a Los Angeles (USA) e ora radicata in El Salvador grazie a un decennale programma di deportazioni statunitense. A differenza del Tren de Aragua, questi altri cartelli sono ben noti e la loro attività è stata ampiamente documentata dalla Drug Enforcement Agency (DEA) statunitense.
Il rapporto più recente della DEA per il 2025 conferma diversi fatti sui cartelli della droga che trafficano ingenti quantitativi di stupefacenti (dalla cocaina al fentanil) verso gli Stati Uniti. Presenta sicuramente ampie sezioni sulle gang messicane e salvadoregne, che hanno radici profonde nel traffico di droga. Dal 2019, la DEA e altre agenzie hanno monitorato il movimento di droghe letali, passate dall’essere trasportate via Caraibi e via terra attraverso il Centro America alla rotta dell’Oceano Pacifico.
Le droghe partono dai porti di Guayaquil (Perù), Esmeraldas (Ecuador) e Buenaventura (Colombia) dirette verso porti come Puerto Escondido (Messico) prima di essere introdotte nel mercato statunitense. Oltre l’80% delle droghe letali percorre questa rotta del Pacifico, secondo il World Drug Report 2025 delle Nazioni Unite, mentre solo poco più del 10% attraversa il Mar dei Caraibi. Ormai da molto tempo, la DEA ha valutato accuratamente che la maggior parte delle droghe che entrano negli Stati Uniti proviene dalle Ande, dal Centro America e dal Messico.
Quindi, cosa c’entra in tutto questo il Tren de Aragua, se è una gang carceraria nata all’interno del carcere di Tocorón nel Venezuela centrale (a circa 150 chilometri da Caracas)? La gang fu creata nel 2012 da Héctor Rushtenford “Niño” Guerrero Flores (un criminale condannato che è evaso dal carcere nel 2023 e da allora non è più stato visto).
La gang di Niño Guerrero, il Tren de Aragua, è accusata di aver approfittato dell’emigrazione dal Venezuela per costruire la sua rete negli Stati Uniti e altrove in America Latina e per espandere le sue opportunità di traffico attraverso questa rete migratoria. Tuttavia, è molto probabile che la rete vera e propria non esista, ma che ex membri del Tren de Aragua si siano consolidati come nodi per attività criminali in luoghi diversi. Guerrero è ricercato in Venezuela e ha un avviso di migrazione dal Cile, dove si ritiene si sia rifugiato tra il mezzo milione di venezuelani in questo paese del Cono Sud. Il governo degli Stati Uniti ha preso di mira il Tren de Aragua e Guerrero, offrendo una ricompensa di 12 milioni di dollari per il suo arresto. Ma Guerrero non si trova da nessuna parte.
Un Cartello Inventato
Come passa il governo degli Stati Uniti da una legittima preoccupazione per l’ingresso di droga nel paese all’invio di sette navi da guerra e un sottomarino a propulsione nucleare per accerchiare il Venezuela in un'“operazione potenziata di contrasto al narcotraffico”?
Cosa potranno mai fare queste navi da guerra, che sono appena fuori dal confine marittimo venezuelano, per catturare Guerrero, fermare il Tren de Aragua o impedire ai cartelli di trasportare droga verso gli Stati Uniti?
Guerrero molto probabilmente non è in Venezuela, la sua gang opera in tutta l’America Latina e negli Stati Uniti, e la maggior parte della droga viene trasportata attraverso l’Oceano Pacifico e non il Mar dei Caraibi. Quindi, cosa ci fanno queste navi da guerra al largo delle coste del Venezuela, anche se gli USA affermano che sono in “missione anti-cartello”?
Nell’aprile 2025, gli Stati Uniti hanno aumentato la ricompensa per l’arresto del presidente venezuelano Nicolás Maduro Moros da 25 a 50 milioni di dollari. La motivazione addotta per questo aumento è che gli USA accusano Maduro di essere il leader del Cartello dei Sol (Cartel de los Soles).
Il termine Cartel de los Soles fu usato per la prima volta nel 1993 per descrivere l’attività di alcuni alti ufficiali militari e funzionari anti-droga nel traffico di stupefacenti. Ciò molto tempo prima dell’ingresso di Hugo Chávez nel palazzo presidenziale nel 1999. Il termine fu usato a causa del simbolo solare sulle uniformi degli alti ufficiali dell’esercito venezuelano.
Non esisteva un vero e proprio cartello. Dopo la morte del presidente venezuelano Hugo Chávez nel 2013, diversi giornalisti venezuelani in esilio scrissero libri riprendendo l’osservazione di Marcano sui “soles” ma sostenendo ora che esistesse un cartello organizzato e non solo alcuni ufficiali corrotti.
Tra questi libri centrali sono “Chavismo, Narcotráfico y Militares” (2014) di Héctor Landaeta e Bumerán Chávez; “Los fraudes que llevaron al colapso de Venezuela” (2015) di Emili J. Blasco. Ma Landaeta disse al Miami Herald nel 2015 che “il Cartel de los Soles è più un fenomeno che un gruppo organizzato”.
Ciononostante, nel luglio 2025 il Dipartimento del Tesoro USA ha designato il gruppo come “Specially Designated Global Terrorist”. Tra l’ammissione di Landaeta nel 2015 e il presente, ci fu quasi il silenzio nei documenti pubblici USA riguardo all’inventato Cartel de los Soles (sebbene l’uso di una falsa accusa di narcotraffico contro Maduro fu usato da Trump nel 2020).
Non vi è alcuna indicazione di una connessione tra questo “cartello” e il Tren de Aragua, che a sua volta è più un termine generico, nulla di simile ai principali cartelli colombiani e messicani che hanno linee organizzative verticali.
L’enorme dispiegamento militare lungo le coste del Venezuela, l’aumento della taglia per l’arresto di Maduro e l’accusa che il governo venezuelano sia collegato al Tren de Aragua pongono le basi per un classico intervento militare contro il Venezuela in nome della Guerra alla Droga.
L’idea del Cartel de los Soles sta funzionando come le Armi di Distruzione di Massa in Iraq nel 2002-03, con l’amministrazione USA disperata nel trovare un casus belli (causa di guerra) che altrimenti semplicemente non esiste.
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02/09/2025
Crisi del dollaro: svalutazione, debito statunitense e rischi globali
La crisi del dollaro è molto più profonda di quanto non emerga dalla stampa e dall’informazione italiana. Nel giro di sei mesi il biglietto verde ha perso oltre il 10% del proprio valore nei confronti delle principali valute del Pianeta. Registrando una delle cadute più rapide e dolorose dalla fine della convertibilità aurea.
È significativo notare che si tratta di un deprezzamento che è avvenuto nei confronti di quasi tutte le principali valute mondiali. E che si è verificato – dato questo estremamente rilevante – in presenza di alti tassi di interesse da parte della Fed. A cui sono, normalmente, connessi alti valori del dollaro. La crisi del dollaro è quindi, prima di tutto, una dimostrazione della sfiducia globale. Che potrebbe essere aggravata, ulteriormente, da una riduzione dei tassi di interesse e da un’ulteriore crescita del debito federale statunitense, ormai del tutto fuori controllo. Soprattutto, in queste condizioni, la Federal Reseve non può certo immaginare, come avveniva in passato, di “creare” nuovi dollari per coprire il debito.
Dollaro debole e grandi fondi: rendimenti erosi e fuga di capitali
Dunque, siamo di fronte ad una situazione molto critica che ha conseguenze fondamentali sul capitalismo americano ormai sempre più dipendente dalla finanza. Il dollaro debole, infatti, ha eroso i rendimenti dei titoli americani. Chi avesse investito, a gennaio, 10mila dollari in azioni quotate sullo S&P ne avrebbe oggi 9670. È chiaro che una condizione siffatta allontana il risparmio dalle Borse statunitensi. E mette in forte tensione l’azione dei grandi fondi – BlackRock e Vanguard in primis – che faticano a remunerare i propri clienti se puntano su titoli in dollari.
Così un eventuale cambio rilevante di destinazione dei flussi di risparmio mondiali rispetto alle Borse statunitensi per la debolezza del dollaro potrebbe indurre gli stessi grandi fondi a trovare alternative a quelle in dollari. E, di conseguenza, però ad abbandonare anche l’acquisto massiccio di titoli del Tesoro americano, deprezzati di nuovo dal dollaro. La crisi del dollaro può quindi portare, come sta già avvenendo, ad una minore disponibilità da parte degli operatori, interni e internazionali, a destinare le proprie risorse verso tutto ciò che è denominato in dollari. Con l’effetto di rendere più probabile l’esplosione della bolla speculativa finanziaria e di rendere una parte del debito statunitense non più solvibile.
Dazi di Trump e svalutazione del dollaro: un equilibrio fragile
Se poi le politiche protezioniste di Trump non riuscissero a compensare con le entrate fiscali dei dazi il minor utilizzo di dollari per effetto di una riduzione del disavanzo commerciale statunitense, le ricadute sul dollaro sarebbero ancora più pesanti. Alla luce di ciò, peraltro, pare molto difficile immaginare che la svalutazione del dollaro possa garantire una ripresa delle esportazioni americane sufficiente a migliorare le condizioni economiche del Paese, data la ormai strutturale debolezza della capacità produttiva degli Stati Uniti. Mentre, qualora i dazi portassero inflazione, la debolezza del dollaro renderebbe ancora più complessi i consumi interni.
L’impressione chiara è che il capitalismo finanziario statunitense è stato costruito su una indiscussa centralità del dollaro che oggi non esiste più. Il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell, in occasione del suo ultimo intervento a Jackson Hole ha dato il segnale di una possibile apertura ad un abbasamento dei tassi a settembre, definendo l’aumento dell’inflazione legato ai dazi come temporaneo e mostrando preoccupazione per il livello dell’occupazione americana. Si tratterebbe dunque di un’inversione di rotta rispetto alla attuale politica monetaria restrittiva che accoglierebbe le pressioni sempre più dure di Trump.
Federal Reserve sotto pressione: tassi, inflazione e rischio sul debito statunitense
Il presidente statunitense, nel frattempo, ha chiesto le dimissioni di Lisa Cook, la prima donna afroamericana nel board della Fed, contro cui ha lanciato accuse durissime. Se si mettono insieme questi elementi il quadro è particolarmente pericoloso. In questo momento in cui il dollaro è debolissimo e i titoli del Tesoro statunitense pagano alti rendimenti, mentre l’effetto dei dazi sull’andamento dei prezzi interni degli Stati Uniti è tutt’altro che chiaro, aprire ad una riduzione dei tassi da parte della Fed vorrebbe dire mettere il dollaro nelle condizioni di essere ancora più fragile. E terremotare ulteriormente il debito federale costretto, in maniera paradossale, a pagare interessi ancora più alti per trovare compratori alla luce dell’ulteriore indebolimento del biglietto verde.
In estrema sintesi, l’abbassamento dei tassi significa una sorta di scommessa finale per Trump. Che non si può permettere ancora i tassi alti che strangolano i tanti debitori USA e a raffreddare l’indispensabile corsa dei titoli azionari, in particolare della sterminata finanza senza liquidità. Il capitalismo americano è arrivato ad una condizione in cui non può reggere senza una forte iniezione di liquidità e senza un ribasso del costo del credito. O meglio, per sopravvivere avrebbe bisogno di succhiare ancora più sangue dal resto del Mondo che, a parte l’Europa, non sembra più disposto a sopportare.
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31/08/2025
Il Pentagono marca il territorio in Sud America: l’allarme militare che è passato inosservato
Questa settimana, in territorio argentino, l’America Latina ha ricevuto un nuovo avvertimento di allineamento automatico o rischio di intervento militare da parte del Pentagono. Ciò che colpisce è che, nonostante la pericolosità di questa minaccia, quasi nessuno se n’è accorto. Perché? I media – astutamente – non l’hanno segnalato. Ci sono piani che è meglio mantenere segreti.
Cautela o meno, l’escalation statunitense sulla nostra regione è evidente. Mentre la Marina degli Stati Uniti schiera oltre 4.000 marines e diverse navi da guerra al largo delle coste del Venezuela, nel Mar dei Caraibi, e mentre il presidente Donald Trump ordina i preparativi per l’uso della forza militare contro Messico, Colombia, Haiti ed El Salvador (con il pretesto della guerra alla droga), nel sud del continente, a Buenos Aires, il capo del Pentagono Alvin Holsey ha guidato un incontro con tutti i ministri della Difesa sudamericani per esigere obbedienza e impartire istruzioni.
Tra il 19 e il 21 agosto, riuniti nella 16a Conferenza di Difesa Sudamericana (Southdec), l’ammiraglio Holsey è stato chiaro con i suoi omologhi sudamericani: il sud, in particolare lo Stretto di Magellano e il Passaggio di Drake, è strategico per gli Stati Uniti e il Comando Sud del Pentagono è disposto a rafforzare il predominio marittimo contro la nefasta incursione cinese.
Sulla stessa linea del suo predecessore, il generale Laura Richardson, Holsey ha avvertito: “La loro presenza e influenza hanno conseguenze di vasta portata su tutti i fronti, soprattutto nel Cono Sud, dove linee di comunicazione marittime vitali, come lo Stretto di Magellano e il Passaggio di Drake, fungono da colli di bottiglia strategici che potrebbero essere utilizzati dal Partito Comunista Cinese per proiettare il suo potere, interrompere il commercio e sfidare la sovranità delle nostre nazioni e la neutralità dell’Antartide”.
Questi “colli di bottiglia”, noti anche come “punti di strangolamento” (choke points), sono passaggi strategici attraverso i quali circola l’80% del commercio globale, ed è essenziale per l’impero mantenerne il controllo. Sono: Gibilterra, il Canale di Suez, Bab el-Mandab, lo Stretto di Hormuz, lo Stretto di Malacca nell’Indo-Pacifico, lo Stretto del Bosforo e dei Dardanelli (in Turchia, che collega il Mediterraneo e il Mar Nero), il Canale di Panama, lo Stretto di Magellano-Passaggio di Drake (dominato dalla presenza britannica nelle Malvine) e lo Stretto di Bering (tra Russia e Alaska), vicino al luogo in cui si sono incontrati Trump e il suo omologo russo Vladimir Putin la scorsa settimana.
La Casa Bianca, disperata per mantenere la sua supremazia globale e terrorizzata dall’avanzata della Cina, ha lanciato – ancora una volta nella storia della regione – un programma di ingerenza e violenza che ricorre a tutti i mezzi: economici, politici e militari. L’attacco all’economia e alla politica del Brasile con l’imposizione di dazi del 50%; la minaccia di un’invasione militare contro il Venezuela; e le continue vessazioni contro i governi di Gustavo Petro in Colombia e Claudia Sheinbaum in Messico non devono essere intesi come eventi isolati. I Paesi che si proclamano sovrani sono sotto assedio.
Nuove guerre, vecchi argomenti
La ricercatrice canadese Dawn Marie Paley, nel suo libro “Capitalismo antidroga” (2024), fornisce prove di come la cosiddetta “guerra contro le droghe” abbia servito gli interessi del capitale transnazionale, consentendo la firma di contratti di sicurezza, la privatizzazione delle funzioni statali, il controllo di territori strategici e “un’intera architettura di violenza legalizzata al servizio del mercato globale”.
Ma, oltre a servire il mercato, la “guerra alla droga” è stata, per quasi 40 anni, una scusa straordinaria per rafforzare la presenza militare e giustificare l’ingerenza imperialista nella nostra regione.
Con la scomparsa dell’Unione Sovietica nel 1991, il “pericolo comunista” ha cessato di essere una valida ragione per l’intervento nei nostri paesi, e sono comparse, nei documenti militari statunitensi, “le nuove minacce: la criminalità organizzata, il narcotraffico e i disastri naturali” come nuovo pretesto.
Il presidente Nicolás Maduro, non solo per la ricchezza petrolifera del Venezuela, ma perché il suo governo è la dimostrazione concreta che una rivoluzione popolare è possibile, è nel mirino di Washington. Il Procuratore Generale degli Stati Uniti, Pamela Bondi, ha annunciato una taglia di 50 milioni di dollari sulla testa del venezuelano. Spiegando le sue motivazioni, ha affermato, senza fornire prove, che “il regno del terrore di Maduro continua. È uno dei maggiori narcotrafficanti del mondo e una minaccia per la nostra sicurezza nazionale. Sotto la guida del presidente Trump, Maduro non sfuggirà alla giustizia e renderà conto dei suoi crimini spregevoli”.
Il Segretario di Stato, Marco Rubio, ha alzato la posta: “Dobbiamo far fronte con qualcosa di più delle ricompense. Noi non riconosciamo la legittimità del suo governo. È a capo di un’organizzazione logistica dedita al narcotraffico, il Cartello dei los Sols, che è essenzialmente gestita dall’esercito, che opera impunemente in acque internazionali e rappresenta una minaccia per la sicurezza nazionale degli USA”.
Diversi paesi latinoamericani, come Brasile, Messico e Colombia, hanno espresso la loro solidarietà a Maduro. Anche altri paesi fuori dal continente, come la Russia, lo hanno fatto. Il ministro degli Esteri Sergei Lavrov ha chiamato la vicepresidente venezuelana Delcy Rodríguez per ribadire “il suo ampio sostegno agli sforzi di Caracas per proteggere la sovranità nazionale e la stabilità di fronte alle crescenti pressioni esterne”.
Al contrario, i governi asserviti a Washington, come Ecuador e Argentina, facilitano la presenza illegale e violenta degli USA nella nostra regione. A Buenos Aires, durante il vertice dei Ministri della Difesa, il capo del Comando Sud ha anche fatto appello alla narrativa della “lotta contro le organizzazioni criminali e transnazionali”, che presumibilmente avvantaggia i nostri Paesi.
L’ammiraglio Holsey era accompagnato dal Vice Ministro della Difesa nazionale e degli Affari dell’Emisfero Occidentale del Pentagono, Roosevelt Ditlevson, che ha confermato che la nostra regione è una priorità fondamentale per Trump. Si è concentrato sulla necessità di proteggere confini, porti e spazio aereo e, soprattutto, di investire nella difesa e nell’addestramento delle forze armate. Questo riferimento evoca immediatamente la nefasta “Scuola delle Americhe” di Panama, un centro di addestramento per i militari che in seguito avrebbe occupato la leadership delle dittature regionali.
Ditlevson non ha escluso un conflitto armato nella regione. Riferendosi alla Cina, ha affermato che “le minacce che affrontiamo sono reali. Sono qui e stiamo facendo progressi concreti. È una minaccia alla sovranità e alla sicurezza. Non vogliamo la guerra con la Cina. Tuttavia, lavoreremo per prevenire minacce nella regione”.
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27/08/2025
Gli USA in corsa verso l'oscurantismo
Nessun discorso infatti, per quanto ben costruito e cesellato, può risultare efficace per colpire l’attenzione di chiunque. Anche Shakespeare e Sofocle, in fondo, non parlano a tutti.
Quelle carogne di “influencer” affittati per occupare uno spazio mediatico già molto affollato – che comincia a pendere dalla parte contraria a Israele, nonostante la poderosa macchina dell’Hasbara e i suoi terminali nelle redazioni mainstream – non avevano alcuna possibilità di far cambiare idea a chi guarda foto e filmati dalla Striscia e ne trae l’inevitabile certezza: è in corso un genocidio, attuato con bombardamenti, spari, torture sui prigionieri anche bambini e fame. Mancano le camere a gas, unica differenza “tecnica” con l’Olocausto.
Il loro “target” non è affatto l’opinione pubblica mondiale, ma l’elettorato statunitense, e in special modo quello trumpiano. Anche all’interno di quel mondo fetido, evidentemente, qualche crepa si andava creando. E dato che si tratta del principale pilastro di consenso su cui sì àncora il sostegno Usa al genocidio, era necessario mettere in campo uno show di attorucoli che sanno come parlare a quel mondo.
La qualità dello spettacolo, come sempre quando si fa un investimento “commerciale”, è proporzionale alla cultura del pubblico di riferimento...
Bisogna insomma guardare a quel che sta accadendo in America per capire almeno in parte fino a che punto è in crisi l’egemonia “culturale” sul mondo e le forme che va assumendo la “risposta Maga” alla crisi.
La testata Axios, che ha ormai sostituito il “bideniano” POLITICO come credibilità informativa, ha stilato una sintetica lista delle principali iniziative trumpiane per riscrivere l’identità culturale degli Stati Uniti. Che poi significa, a cascata, tentare di ridisegnare il volto dell’intero Occidente euro-atlantico, visto il ruolo ricoperto sia a livello finanziario che militare dagli USA...
“Nel racconto del MAGA, l’America è l’erede delle antiche civiltà europee, costruita su una fondazione giudeo-cristiana di identità bianca, meritocrazia, ruoli di genere tradizionali e famiglia nucleare”.
Sembra un discorso general-generico, magari un po’ tradizionalista e “salviniano”, ma a ben guardare già a questo livello viene operata una drastica amputazione proprio dell’identità occidentale classica. Che non è soltanto “giudaico-cristiana”, come ripetono gli ascari fascistoidi dalle nostre parti, ma forse soprattutto greco-romana.
La differenza culturale principale sta nella diversa strutturazione valoriale tra un mondo da “ordinare” secondo i dettami di un dio assoluto che si occupa fin nei dettagli delle vicende umane, sovraordinando “comandamenti” alle leggi che elaborano e, all’opposto (o comunque diversamente), un mondo in cui molti “dei specializzati” (guerra, amore, caccia, agricoltura, ecc.) si occupano sostanzialmente dei fatti loro con qualche incursione-commistione con le vicende di alcuni umani, che peraltro vivono secondo le proprie regole, cambiandole anche spesso.
È la differenza tra l’obbedienza e la scelta, con tutte le conseguenze del caso, anche tragiche.
Una religione monoteista è già di per sé una mezza gabbia in cui gli umani si ritrovano a vivere “conformandosi” o “dannandosi”, ma si arriva facilmente alla follia – e allo sfruttamento furbesco della credulità popolare – quando si assume il “testo sacro” fondativo come comandamenti da prendere alla lettera.
Abbiamo sperimentato, nel cristianesimo, la difficoltà di accedere al metodo scientifico ogni qual volta l’osservazione empirica entrava in contrasto con la Bibbia (Copernico, Giordano Bruno e Galilei ne sanno qualcosa). Se poi si assume – come avviene tra i “cristiani evangelici” o gli ebrei ortodossi – il Vecchio Testamento come “verità rivelata” e indiscutibile, allora il pateracchio diventa evidente. E pericoloso.
Se “il popolo di dio” viene reinterpretato da “insieme dei credenti” (per scelta e per fede) a “comunità superiore”, legata da vincoli di sangue e/o di obbedienza a prescindere, ecco che si creano le basi per un suprematismo millenarista fondato su... chiacchiere.
Se vi preoccupa questo passaggio dalle argomentazioni classiche sulle strategie imperialistiche alle fantasie simil-religiose... avete perfettamente ragione: dovete preoccuparvi.
L’“America in versione Maga” si va costituendo come una formazione para-religiosa. In cui – non è inutile ribadirlo – gli interessi materiali dominanti si ammantano di credenze “giudaico-evangeliche” per strutturare un consenso interno che altrimenti la loro politica reale (concentrazione della ricchezza in poche mani, abbandono di ogni prospettiva “redistributiva” in termini di salario e welfare, ecc.) metterebbe in forse.
“Quella visione del mondo sta guidando sempre di più le politiche governative”, avverte Axios, altrimenti risulterebbe inspiegabile l’attenzione presidenziale posta – ad esempio – sulle... mostre museali.
“Trump ha ordinato allo Smithsonian Institution di revisionare le mostre che l’amministrazione ritiene problematiche per ‘tono, contesto storico e allineamento con gli ideali americani’.Attendiamoci che questa revisione tocchi presto Hollywood, con la riabilitazione dei western alla John Wayne, quando i pellirosse venivano descritti come “terroristi” ante litteram, e la cancellazione dalle videoteche di film come Soldato blu o Piccolo grande uomo, come Amistad o Il colore viola, ecc....
Trump sostiene che ci sia stato un ‘diffuso sforzo di riscrivere la storia della nostra Nazione’ dipingendola come irrimediabilmente razzista o oppressiva – incluso, dice, un’eccessiva focalizzazione su ‘quanto fosse brutta la schiavitù’.
Un funzionario della Casa Bianca ha dichiarato che Trump intende espandere la revisione dell’ideologia ‘woke’ ad altri musei oltre lo Smithsonian – un livello di supervisione senza precedenti da parte di un presidente USA.”
Ma ci sono in atto misure meno fantasiose e più immediate, che riguardano questioni cruciali come la cittadinanza, il controllo delle piattaforme social e dunque la libertà di pensiero ed espressione in qualsiasi forma.
“Lo U.S. Citizenship and Immigration Services (USCIS) ha annunciato la scorsa settimana che sottoporrà i richiedenti per l’immigrazione legale a screening per individuare ‘ideologie anti-americane’, incluse le opinioni espresse sui social media.Perché “I benefici dell’America non dovrebbero essere dati a coloro che disprezzano il paese”, ha dichiarato in una nota il portavoce dell’USCIS, Matthew Tragesser. Si comincia con i titolari di visto, ma già si alza la pressione sugli “americani storici”.
Tutti i 55 milioni di attuali titolari di visto saranno sottoposti a ‘verifica continua’ per ‘qualsiasi indicazione di ostilità verso i cittadini, la cultura, il governo, le istituzioni o i principi fondanti degli Stati Uniti”.
Essere o diventare “americani”, insomma, non dipenderà più da un fatto (l’esser figli di cittadini Usa) o dall’acquisizione in base a condizioni oggettive uguali per tutti (studio, lavoro, permanenza, persecuzioni, asilo, ecc.), ma dalle opinioni – inevitabilmente soggettive e persino variabili nel tempo – sulla storia politica del paese. Ovvero dall’identificazione o meno con l’universo culturale “Maga” o giù di lì.
“L’USCIS sta anche ampliando il requisito del ‘buon carattere morale’ per i richiedenti la cittadinanza, legando questo vago standard al ‘comportamento, l’adesione alle norme sociali e i contributi positivi’ di un individuo.È prevista insomma una revisione drastica dell’anagrafe generale, uno “sfoltimento” della popolazione legale su base ideologica, e viene ammesso esplicitamente, come un programma politico. “Penso che dobbiamo semplicemente evolverci oltre l’idea che solo perché hai i documenti in ordine, sei un americano”, ha detto l’influencer “Maga” Charlie Kirk in un suo podcast della scorsa settimana. “Devi avere il tuo spirito completamente coinvolto”.
Il Dipartimento di Giustizia continua a perseguire il divieto della cittadinanza per diritto di nascita (birthright citizenship) per i figli di immigrati privi di documenti – un diritto sancito dal 14° Emendamento – dando priorità alla denaturalizzazione per i cittadini naturalizzati che commettono determinati reati”.
È l’incerta ideologia del governo attuale, insomma, a delineare il modo di pensare della popolazione futura, non quella popolazione nel suo insieme a decidere quali ideologie sono dominanti, ammissibili, tollerate. Una specie di “congelamento” dell’evoluzione politica e storica, una “fissità” che non lascia inevitabilmente spazio alla stessa possibilità di affrontare i problemi sempre nuovi e diversi che un paese deve affrontare nel rapporto col resto del mondo.
En passant, la natura del concetto di “libertà” si restringe in modo estremo, al punto da coincidere – di fatto – con la sola “libertà di impresa”. Ideologia razzista/suprematista e ideologia di classe, del resto, coincidono.
Pensare di poter restare “egemoni” con questa strumentazione indifferente al mutare dei tempi dovrebbe sollevare inquietudine anche nella classe momentaneamente dirigente, magari anche solo perché si rischia di ritrovarsi senza strumenti culturali davanti all’insorgere di imprevisti.
Ma l’elenco degli “ordini operativi” su questo fronte indica l’esatto opposto. Trump ha infatti:
– “firmato un ordine esecutivo che dichiara l’inglese lingua ufficiale degli Stati Uniti – elevandolo da strumento pratico a marcatore di identità e appartenenza”. Rendendo così “illegali”, o quanto meno sconsigliate, tutte le lingue originarie delle centinaia di milioni di immigrati (spagnolo, italiano, tedesco, gaelico, ecc.) e forse persino le lingue dei nativi che abitavano l’America prima dell’invasione dei bianchi genocidi europei.
– Storia: “Ha ripristinato i nomi confederati alle basi militari statunitensi e ha ordinato il ritorno di alcuni monumenti confederati, condannando la loro rimozione come cancellazioni della ‘eredità’”. Come se la guerra di secessione di un secolo e mezzo fa non ci fosse stata o fosse stata vinta dagli schiavisti...
– Esercito: “Ha ripristinato il divieto per i soldati transgender, allineando il servizio militare alle norme di genere tradizionali”, rovesciando così non solo le “esagerazioni woke” che avevano caratterizzato – strumentalmente, certo – il recente sentiment culturale occidentale, ma l’intero processo evolutivo sulla libertà sessuale degli ultimi 70 anni.
– Rifugiati: “Ha creato eccezioni per gli agricoltori bianchi sudafricani mentre riduceva drasticamente l’ammissione di rifugiati da altre parti”. A conferma del fatto che il suprematismo bianco – ebrei compresi, a differenza del nazismo storico, dal che deriva la piena condivisione del sionismo – è in effetti il fondamento ideologico e psichiatrico del nuovo “regime”.
– Architettura: Ha ordinato che i nuovi edifici federali aderiscano a stili “classici”. Immaginiamo cosa potrà accadere con le “commissioni esaminatrici” dei nuovi progetti delle archistar Usa...
Anche secondo Axios, in effetti, “il progetto di Trump mina gli ideali che l’America ha a lungo celebrato come rifugio per immigrati, terra di opportunità per gli emarginati e paese che trae forza dal suo pluralismo”. Ma come si vede è una critica che resta “tutta interna” alla immarcescibile volontà di preservare una eccezionalità, o supremazia, statunitense.
Il punto chiave – per “osservatori esterni” che, come noi, magari vogliono rompere definitivamente con l’imperialismo Usa – è che questa “revisione istituzionalizzata dell’identità americana” cancella di fatto, forse persino involontariamente, il cosiddetto “soft power” statunitense. Ovvero la possibilità concreta per gli Usa di rappresentare qualcosa di “attrattivo” anche per chi non è nato o vive lì.
Essere dominati nell’immaginario di Hollywood e dintorni era – ed è ancora, in qualche misura – una “condizione a contorno” del dominio brutale del business e dell’esercito statunitense, un modo di renderlo più “accettabile” e persuasivo.
Se resta solo la forza, giustificata con i versetti del Vecchio Testamento, diventa tutto meno complicato da comprendere. Perché non resta granché da “condividere”, distinguere, articolare, ecc. Siamo nel terzo millennio, sappiamo cose che tre millenni fa erano inconcepibili...
La pretesa di continuità dell’Impero si presenterà forse anche come una ultima “guerra di religione”, l’apocalisse sognata dai più ritardati pastori evangelici. Ma fortunatamente il Medioevo è definitivamente alle nostre spalle. Non prevarranno...
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24/08/2025
Da Ford a BMW: perché le case automobilistiche non possono fare a meno delle batterie elettriche cinesi
Fare a meno della Cina per la costruzione di auto elettriche? È una missione quasi impossibile. Lo hanno imparato sulla loro pelle diverse case automobilistiche occidentali. Prendiamo il caso delle americane Ford e General Motors (Gm). All’inizio di giugno i laboratori dei due colossi erano impegnati a trovare un modo per produrre batterie al litio-manganese (LMR) di nuova generazione con le quali alimentare i loro futuri veicoli elettrici (Ev) e smarcarsi dalla dipendenza di batterie cinesi.
La partita è seguita con attenzione anche dal governo Usa, visto che quando e se una delle due case automobilistiche statunitensi dovesse riuscire nell’impresa allora gli Stati Uniti potrebbero avere la possibilità di superare Pechino nella corsa agli Ev e alle batterie. Ebbene, l’enorme ottimismo emerso a inizio estate è già evaporato come neve al sole. Colpa delle normative imprevedibili decise dall’amministsrazione Trump, della guerra dei dazi e, soprattutto, della fine delle norme sulle emissioni che promettevano di accelerare l’adozione dei veicoli elettrici.
Si tratta di un problema non da poco perché le case automobilistiche Usa hanno difficoltà a mantenere la redditività – e a sostenere i costi elevati – spesso a causa proprio delle batterie e del controllo della Cina sulle catene di approvvigionamento del cuore degli Ev. Gm e Ford ritenevano che la tecnologia LMR potesse aiutarle a ridurre il costo delle auto elettriche, rendendole così più accessibili senza sacrificare autonomia e prestazioni, nonchè a disegnare un futuro elettrico indipendente dal gigante asiatico. Missione fallita, almeno per il momento.
Il ritorno delle batterie elettriche Made in China
L’Inflation Reduction Act mirava a ridurre la dipendenza degli Stati Uniti dalle catene di approvvigionamento cinesi, in parte scoraggiando l’uso di batterie cinesi, e in parte incoraggiando gli investimenti nelle tecnologie all’avanguardia del futuro, tra cui l’energia pulita. Peccato che con i crediti d’imposta per gli Ev destinati a scadere il 30 settembre molte case automobilistiche – come la citata General Motors e Bmw – ritengano che abbia più senso tornare ad acquistare batterie cinesi a basso costo, almeno nel breve termine.
Diverse aziende avrebbero probabilmente utilizzato batterie Made in Usa per alimentare i loro prossimi veicoli elettrici, ma questo soltanto se i crediti federali non fossero terminati anni prima del previsto. Il credito d’imposta al consumo di 7.500 dollari – lo stesso che aveva aiutato gli acquirenti a compensare l’elevato costo dei veicoli elettrici, derivante principalmente dalle batterie, e convinto le case automobilistiche a portare una maggiore produzione negli Stati Uniti – è stato però di fatto bloccato dall’amministrazione Trump.
Il risultato? Nel caso di GM e Bmw, entrambe le aziende sono costrette a puntare su batterie cinesi. Il Wall Street Journal ha scritto, nello specifico, che Gm comprerà batterie LFP da Catl, il più grande produttore (ovviamente cinese) di batterie al mondo, per la prossima generazione di Chevy Bolt Ev. Bmw si trova in una situazione simile. Il suo fornitore, Automotive Envision Supply Corporation (Aesc), un produttore giapponese con diversi stabilimenti in Cina, ha sospeso la costruzione di due impianti all’inizio di quest’anno a causa di “incertezza politica e di mercato” e dovrà importare batterie Made in China.
Questione economica
Le batterie di Catl dovranno fare i conti con dazi pari a circa l’80%, ma le dimensioni e l’esperienza del gruppo cinese potrebbero comunque rivelarsi economicamente vantaggiose per Gm.
L’eventuale alternativa è rappresentata dalla coreana LG Energy Solution (Lges), ma l’azienda inizierà a convertire il suo stabilimento di batterie in Tennessee per la produzione locale di batterie al litio (LFP) soltanto alla fine di quest’anno mentre la conversione del sito non sarà completata prima della fine del 2027.
Un altro caso emblematico è rappresentato da Ford, che ha difeso la sua decisione di concedere in licenza la tecnologia delle batterie LFP a Catl, perché questo – secondo l’azienda Usa – accelererà il trasferimento delle competenze produttive del Paese (competenze da tempo cedute alla Cina). Insomma, fare a meno di Pechino è sempre più complicato e sconveniente...
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22/08/2025
Altre sanzioni USA a quattro giudici dell’Aja, Netanyahu si congratula
Le figure sanzionate sono il canadese Kimberly Prost, il francese Nicolas Guillou, Nazhat Shameem Khan delle isole Figi e, infine, Mame Mandiaye Niang del Senegal. Se gli ultimi tre hanno un ruolo nelle attuali accuse e procedimenti contro Benjamin Netanyahu, Prost ha la ‘colpa’ di aver autorizzato alcune indagini su presunti crimini di guerra USA in Afghanistan.
Non è la prima volta che si osserva un braccio di ferro del genere tra Washington e L’Aja, ma in questo frangente storico è di certo ancor più significativo, anche per il fatto che il pacchetto di sanzioni arriva anche per coloro che perseguono i vertici di Tel Aviv. Una pressione importante sull’operato dei giudici, mentre Khan e Niang, per ora, mantengono sospesi i mandati d’arresto per Ben Gvir e Smotrich.
Insomma, l’occasione è stata colta al volo per un attacco a tutto tondo a qualsiasi opposizione all’arbitrio stelle-e-strisce. Per Rubio, la CPI è addirittura una “minaccia alla sicurezza nazionale”, mentre il primo ministro israeliano Netanyahu si è congratulato con la Casa Bianca per la sua “azione decisiva contro la campagna di diffamazione e menzogne che prende di mira lo Stato di Israele”.
Il Segretario di Stato USA ha persino invitato “i paesi che ancora sostengono la CPI, molti dei quali hanno ottenuto la libertà al prezzo di grandi sacrifici americani, a resistere alle pretese di questa istituzione in bancarotta”. Rubio, in sostanza, sta chiamando i vassalli europei a non osservarne le risoluzioni legali della Corte (su cui, comunque, le capitali del Vecchio Continente fanno buon viso a cattivo gioco).
Dalla CPI arriva una risposta molto netta, considerando le sanzioni “un flagrante attacco all’indipendenza di un’istituzione giudiziaria imparziale che opera sotto il mandato di 125 Stati di tutte le regioni. Costituiscono inoltre un affronto agli stati che fanno parte della Corte, all’ordine internazionale basato sulle regole e soprattutto a milioni di vittime innocenti in tutto il mondo”.
Tutto questo avviene mentre Trump indica Netnayahu come un “eroe di guerra”, con Tel Aviv che si appresta all’occupazione di Gaza e a stabilire nuovi insediamenti illegali in Cisgiordania. Le parole continuano a sprecarsi nelle cancellerie europee, ma rimane il fatto che nessuno si muove per impedire lo scempio del diritto internazionale e la soluzione finale contro il popolo palestinese.
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19/08/2025
A Washington “l’Europa” esce di scena, ma non vuole ammetterlo
Il maxi-vertice di Washington – da una parte Trump e gli Usa, dall’altra Zelenskij per l’Ucraina e ben sette nanerottoli per “l’Europa” – si è svolto in più atti. Alcuni importanti, altri decisamente di contorno.
Il vertice vero è stato quello con il solo Zelenskij, accolto con una mappa della situazione sul terreno ad oggi, bene in vista a ricordare che di lì si parte, se si vuol discutere di pace. E non per “fare un favore a Putin”, ma perché nessuno sano di mente può ancora credere che si possa tornare alla mappa del 2013 – come da tre anni e mezzo ripetono la junta ucraina e i “partner europei” – senza scatenare una guerra nucleare.
Il secondo punto fermo, prima ancora di cominciare, è stato che l’Ucraina non entrerà nella Nato. E quindi che di schierare truppe e missili occidentali da quelle parti non se ne parla neanche.
Il terzo ostacolo è stato eliminato prima ancora di essere nominato: nessun “cessate il fuoco” è indispensabile (era la prima delle proposte avanzate dagli europei e da Kiev), secondo Trump, perché “ho fermato fin qui sei guerre senza alcun cessate il fuoco prima”.
«Possiamo pensare a un’intesa – ha detto – in cui si lavori a un accordo di pace. Mentre combattono, però, devono combattere. Strategicamente, questo potrebbe essere uno svantaggio per una parte o per l’altra». In pratica: la Russia continuerà ad avanzare, e questa sarà la principale forma di pressione su Kiev, al di là delle parole nei vertici.
Stabilito questo, restavano molti altri dettagli da discutere, anche parecchio complicati, ma se si vuole raggiungere una “pace duratura” – come tutti hanno religiosamente ripetuto ad ogni tv e microfono – quella è la piattaforma stabile su cui erigere “la trattativa”.
Magicamente, quei tre punti sono scomparsi dai resoconti stampa, per lasciare il posto ad uno soltanto: “le garanzie di sicurezza per Kiev”, in modo da dissuadere la Russia da nuovi attacchi.
Su questo tema si sono esercitati tutti i presenti fino alla noia, senza che peraltro si riuscisse a vedere quale “ciccia” fosse stata messa sul fuoco, data la quantità abnorme di fumo.
Per gli “europei” arrivati a Washington come “scorta” di Zelenskij e atteggiati a guerrieri senza macchia è stata l’occasione per mostrare una fantasia malata e macabra, con proposte così fuori contesto da spingere Trump ad interrompere improvvisamente il vertice per passare 40 minuti al telefono con... Putin.
Del resto è la legge fondamentale di ogni trattativa di pace quando si vuol porre davvero fine a una guerra: le condizioni di base vengono dettate da chi è in vantaggio.
Non a caso solo la Russia ha rilasciata una nota che in qualche modo riassume “il tono” della telefonata: «I presidenti si sono espressi a favore della prosecuzione dei negoziati diretti tra le delegazioni della Federazione Russa e dell’Ucraina» – ha dichiarato l’agenzia di stampa statale russa Tass citando il Cremlino. Aggiungendo che «Putin e Trump hanno discusso l’idea di aumentare il livello dei negoziati diretti russo-ucraini».
Una serie di incontri bilaterali, insomma, senza Trump come mediatore esplicito e soprattutto senza botoli europei tra i piedi.
La conferma è poi arrivata dal segretario di Stato Marco Marco Rubio. «Stiamo lavorando ora per cercare di organizzare un incontro (a due, ndr), il che sarebbe di nuovo senza precedenti. E poi, se andrà bene, speriamo che il prossimo incontro sarà tra i Presidenti Putin, Trump e Zelensky, dove pensiamo di finalizzare un accordo».
L’Unione Europea e il formato dei “volenterosi” è fuori gioco, al massimo potrebbe provare a spingere privatamente su Zelenskij per fargli tenere una postura più rigida.
Ma da qui sono uscite poi le formule più ambigue, quelle in grado di far dire a chiunque che “abbiamo fatto valere la nostra posizione”. Inevitabilmente, sono anche le formule che nascondono trappole che possono esplodere nel prossimo futuro.
Vediamole.
“Abbiamo discusso delle garanzie di sicurezza per l’Ucraina, garanzie che saranno fornite da vari paesi europei, in coordinamento gli Stati Uniti”, ha spiegato Trump senza entrare nel dettaglio.
«Quando si tratta di sicurezza l’Europa è la prima linea di difesa dell’Ucraina perché sono lì. Ma anche noi li aiuteremo, saremo coinvolti».
Il diavolo sta nei dettagli, è noto, ma alcune cose sono comunque chiare.
La “prima linea di difesa” sta agli europei, non alla Nato. E quindi eventuali nuovi stati di guerra non costituiranno un obbligo di intervento militare per gli Stati Uniti.
“Noi li aiuteremo” è una formula vaghissima, che poi Zelenskij ha parzialmente concretizzato: “compreremo 90 miliardi di armamenti”. L’Ucraina al momento non ha neanche gli occhi per piangere, quindi quei miliardi arriveranno dall’Unione Europea.
La “prima linea di difesa” – non avendo la UE un esercito proprio, e restando escluso che la Nato (Usa compresi, insomma) possa intervenire direttamente – sarà quindi a carico dei “volenterosi”, ossia dei pazzi scriteriati che vorranno unirsi a Francia, Gran Bretagna e (forse) Germania nello stabilire forme di intervento militare a sostegno.
Non a caso, ancora prima che si aprisse il vertice, il ministero degli esteri russo si era premurato di avvertire: “Sullo sfondo del genuino desiderio dimostrato dalla leadership di Russia e Stati Uniti ad Anchorage di una soluzione globale, equa e sostenibile del conflitto in Ucraina, inclusa l’eliminazione delle sue cause profonde, da Londra continuano a provenire dichiarazioni che non solo sono in disaccordo con gli sforzi di Mosca e Washington, ma sono chiaramente volte a indebolirli”.
Inoltre, le dichiarazioni del Regno Unito e di altri paesi europei sul dispiegamento di truppe in Ucraina “sono un incitamento alla continuazione delle ostilità”, aggiungendo che la politica del Regno Unito in particolare non lascia alcuna possibilità all’Ucraina di uscire pacificamente dal conflitto.
Mosca ribadisce quindi la “categorica inaccettabilità di qualsiasi scenario che preveda il dispiegamento di un contingente militare in Ucraina a cui partecipi la Nato”.
Con queste premesse, pensare di “sfruculiare” Mosca sfruttando eventuali varchi interpretativi negli accordi che saranno raggiunti è una prova dello stato di confusione mentale di una classe politica miseranda, che ha bisogno di un “clima di guerra” (combattuta rigorosamente da altri...) per giustificare – ai rispettivi elettorati – faraoniche spese militari con cui sperano di rivitalizzare un’industria continentale in profonda crisi. Mentre però viene tagliato quel che resta di welfare state, sanità, istruzione, università...
In sintesi: la strada per una pace complicata è rimasta aperta nonostante questi idioti, ma solo grazie al fatto che non contano nulla, cosa che gli è stata fatta notare pesantemente sia da Washington che da Mosca.
Resta però un margine di ambiguità, anche da parte statunitense, che lascia immaginare ai più guerrafondai uno “margine di possibilità” per far proseguire ancora a lungo la situazione attuale: guerra per interposta ucraina, con le perdite lasciate a Kiev e i profitti a Londra, Parigi, Berlino.
Forse è l’ora di far sentire, dentro i nostri paesi, il peso di popolazioni impoverite che non vogliono – e lo dicono in modo chiaro – essere trascinate in avventure senza senso e per scopi immondi.
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Alla Casa Bianca Trump impone un bagno di realismo
Un incontro cordiale e positivo, che rappresenta la prima pietra di un complesso processo negoziale che potrebbe protrarsi per settimane, se non mesi, con l’obiettivo di porre fine al conflitto tra Russia e Ucraina.
Un passo verso la pace
L’incontro odierno segna un momento cruciale dopo il vertice in Alaska tra Trump e il presidente russo Vladimir Putin, dove sono stati delineati i contorni di un possibile piano di pace. Una concessione chiave, accennata dall’inviato speciale Steve Witkoff, riguarda peraltro una proposta che viene dalla diplomazia italiana relative a garanzie di sicurezza per l’Ucraina, che fornirebbero una protezione simile all’Articolo 5 della NATO senza l’adesione formale dell’Ucraina all’Alleanza.
Zelensky ha accolto con favore tale proposta, mentre la “coalizione dei volenterosi” europea ha rilasciato una dichiarazione congiunta esprimendo “apprezzamento” per l’impegno di Trump.
Un bagno di realismo per l’UE
L’amministrazione Trump ha avuto il merito di ristabilire la Russia come interlocutore credibile, superando la demonizzazione operata dal predecessore, e di affrontare con pragmatismo la realtà sul campo di battaglia, evitando azioni donchisciottesche tanto pericolose quanto inutili. Prima del vertice alla Casa Bianca, il tycoon ha ribadito che l’Ucraina non recupererà la Crimea né entrerà nella NATO, condizioni ritenute essenziali per portare Putin al tavolo dei negoziati.
Questo rappresenta un passo cruciale, poiché l’adesione di Kiev all’Alleanza Atlantica era considerata non negoziabile dalla diplomazia europea e dalla NATO fino a pochi mesi fa. Ora, non solo tale prospettiva sembra definitivamente accantonata, ma per la prima volta si discute di “scambio di territori” anziché di “integrità territoriale” dell’Ucraina.
Durante l’incontro, una grande mappa dell’Ucraina è stata collocata davanti al tavolo delle trattative nell’Ufficio Ovale, con le regioni orientali sotto il controllo russo evidenziate in rosa, a rimarcare la determinazione dell’amministrazione statunitense di confrontarsi con la realtà sul terreno. Interessante la leggenda che pone tali territori come “russi” e non come “contesi”.
Un processo lungo ma incoraggiante
I negoziati per la pace non saranno brevi. La storia insegna che i grandi accordi internazionali richiedono tempo: il Congresso di Vienna durò 10 mesi, la Conferenza di Versailles 9, mentre Yalta e Potsdam si risolsero in tempi più brevi, rispettivamente una settimana e due. I colloqui di Parigi per il Vietnam si protrassero per anni, e la Conferenza di Dayton richiese tre settimane.
“La strada è aperta per negoziati complessi” ha dichiarato il cancelliere Merz, sottolineando l’importanza di un cessate il fuoco immediato come precondizione per ulteriori incontri. Trump, tuttavia, ha messo in dubbio la necessità di un cessate il fuoco immediato, affermando che un accordo di pace globale è “molto raggiungibile” nel prossimo futuro. “Tutti preferiremmo un cessate il fuoco immediato, ma non so se sia necessario” ha detto il presidente Usa, seduto accanto ai leader europei. “Credo che un accordo di pace possa essere raggiunto a breve”.
Questa posizione segna un cambiamento rispetto alle sue dichiarazioni precedenti, quando, in viaggio verso l’Alaska, aveva insistito per un cessate il fuoco rapido.
Reazioni europee e prospettive future
Il presidente finlandese Alexander Stubb ha elogiato Trump per i progressi compiuti, sottolineando che “nelle ultime due settimane abbiamo fatto più passi avanti per porre fine a questa guerra rispetto agli ultimi tre anni e mezzo”. Il segretario generale della NATO Mark Rutte ha definito l’offerta di Trump sulle garanzie di sicurezza un “punto di svolta” nei negoziati, ringraziandolo per aver “rotto l’impasse” e portato Putin al tavolo.
Tuttavia, il presidente francese Macron ha suggerito che i futuri colloqui trilaterali tra Trump, Zelensky e Putin includano un rappresentante europeo, per garantire che la sicurezza dell’intero continente sia considerata. “Parliamo della sicurezza dell’Europa nel suo complesso”, ha detto Macron, anche se Trump sembra riluttante ad accogliere questa proposta nell’immediato.
Le fondamenta per un possibile e futuro accordo di pace che riguarda non solo l’Ucraina ma l’intera sicurezza europea è stato gettato. Ora bisognerà vedere se i leader europei, che tanto hanno investito nella retorica del riarmo contro l’aggressore russo e che in questi mesi non hanno fatto altro che tentare di sabotare i negoziati, procederanno con la loro azione di disturbo o si adegueranno a ciò che ha deciso l’azionista di maggioranza della NATO.
I Paesi europei devono comprendere che la pace giusta è un’illusione: esiste solo la pace possibile. L’alternativa è una sola: combattere.
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17/08/2025
L'“Europa” deve ora decidere come perdere
Scavando un po’ tra le indiscrezioni lasciate trapelare a valle del vertice, si può dire con una certa sicurezza che il principale risultato sia stata la convergenza tra due superpotenze nucleari – ma ce ne sono anche altre oggi... – nel definire un quadro di relazioni non apertamente conflittuale.
Detto in parole semplici, gli Usa di Trump vogliono svincolarsi dal conflitto in Ucraina per una lunga serie di ragioni.
Si sono impegnati in una guerra dei dazi con tutto il mondo, senza distinguere troppo tra avversari storici e “alleati-vassalli”, allo scopo esplicito di scaricare il costo del proprio debito (sia pubblico che commerciale) sugli altri.
Devono provare a favorire la re-industrializzazione del proprio paese, desertificato da 30 e più anni di delocalizzazioni produttive che hanno creato nuovi e potenti concorrenti. Ma è un obiettivo che appare praticamente impossibile, nonostante gli investimenti imposti ai vassalli nippo-europei, e proprio mentre le preoccupazioni per l’occupazione sono al livello della crisi del 1929, accompagnate da quelle per l’inflazione che dovrebbe scaturire dal peso dei dazi sulle importazioni.
Hanno semmai la Cina nel mirino come superpotenza al tempo stesso economica, politica e militare, inserita in una sistema di relazioni commerciali (i Brics+) che la rende anche più “ingombrante”, anche se con un modello di business molto differente rispetto a quello occidentale (in estrema sintesi: accordi win-win, anziché la rapina coloniale).
È un’America fortemente claudicante, azzoppata anche nella credibilità militare (la fuga dall’Afghanistan non è stata ancora recuperata), che si è fatta due conti in tasca e ha deciso che la strategia “neocon” – che accomuna i repubblicani vecchio stile e i “democratici” – non è più sostenibile.
Il problema serissimo è fare accettare questo ennesimo scaricabarile – un classico della politica imperiale yankee – ai vassalli europei e agli ascari ucraini, convinti (con la “majdan” del 2014, col marchio neocon stampato bene in vista) a sfidare apertamente la Russia contando sul supporto entusiasta dell’“Occidente collettivo”, puntando a ripetere su scala leggermente minore il processo che aveva portato alla disgregazione dell’Unione Sovietica.
Per quanto incredibile possa sembrare, ventisette nanerottoli che hanno accettato senza fiatare le condizioni poste da Trump sui dazi e non solo (acquisti di armi ed energia per centinaia di miliardi, oltre a 600 miliardi di “investimenti” che saranno gli Usa a decidere come allocare), si ritrovano ora a recitare la parte degli irriducibili della guerra alla Russia “fino alla vittoria” (questo e non altro significano slogan come “non si deve permettere di ridisegnare i confini con la forza”, “Kiev deve riavere i territori conquistati”, “non è ammissibile nessun veto all’adesione alla Nato” e altre fantasticherie ripetute ogni giorno).
“Vasto programma”, diceva qualcuno...
Se dominasse la razionalità politica, economica e militare, sarebbe facile prevedere il rapido siluramento di Zelenskij e dei “battaglioni Azov”, il cambio di marcia – seppure obtorto collo – dell’Unione Europea dalla guerra alla pace.
Ma per cambiare marcia occorrerebbe una “macchina” ben progettata, funzionante, guidata da piloti esperti e ricchi di talento. L’esatto contrario di questa Unione Europea costruita come un trattato commerciale che favorisce alcuni paesi a scapito di altri, inadatta ad esprimere una qualsiasi visione politica al di là del “libero mercato” e dell’austerità di bilancio, con fantasmi politici selezionati per applicare gli input del “pilota automatico” con un margine zero di autonomia.
Questo insieme ci metterà come minimo mesi a concordare qualsiasi rettifica alla “linea di condotta”, nel mentre gli Usa andranno sfilandosi a seconda della velocità con cui verranno raggiunti accordi globali che prescindono allegramente dai rachitici interessi europei.
Hanno di fatto introiettato la “visione strategica” dei nazisti di Kiev o di polacchi e baltici (“provochiamo la Russia, tanto ci stanno gli Stati Uniti a proteggerci”), ed ora cominciano ad aver paura che “il protettore” li stia mollando quel tanto che basta.
E quindi, proprio come Zelenskij, “la vittoria sulla Russia” va in archivio come un delirio senza fondamento.
L'“Europa” deve ora decidere quale tipo di sconfitta preferisce. Se quella “morbida” del rientro nel gruppo dei vassalli completamente obbedienti (come per i dazi, rinunciano a qualsiasi velleità “competitiva” come imperialismo autonomo, disgregandosi in corrispondenza degli interessi Usa, magari con la speranza che tra tre anni e mezzo ritorni alla Casa Bianca un simil-Biden), oppure quella durissima del gettarsi in un’avventura senza avere l’equipaggiamento, la statura, il know how per affrontarla.
Pesano le prese di posizione sparate in questi anni come verità assolute, le minacce e ogni altra dabbenaggine che il suprematismo più o meno inconscio ha suggerito a minus habens di seconda schiera. Rimangiarsele ha un costo, come minimo la poltrona... Di qui anche la tentazione di tirare un altro po’ la corda.
È in questo sconnesso balbettare, tra stop and go, slanci guerrafondai e paure geostrategiche, tra fughe in avanti e precipitose ritirate mai ammesse, che si può creare lo spazio per avventurieri dal grilletto facile e dalla mente spenta. Quelli che creano guasti che poi nessuno sa come riparare.
Ai lavoratori, agli studenti, agli ambientalisti veri e ai pacifisti senza “doppio standard” il compito di attivarsi per rovesciare l’asfittica classe dirigente di questo continente. Ognuno nel suo paese, in uno sforzo corale e simpatetico.
L’alternativa alla barbarie è socialista. O non è...
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14/08/2025
USA costretti alla tregua commerciale con la Cina
Clamorosa la portata politica del gesto. Un vero e proprio schiaffo in faccia a chi in Europa (il cancelliere tedesco Friedrich Merz) chiedeva sanzioni contro Mosca aggiuntive, prima del vertice in Alaska, in nome e per conto dell’Ucraina. Si pensava che gli Usa fossero decisi a trattare Xi Jinping come Narendra Modi, per ‘punirlo’ a causa dei cospicui acquisti di greggio russo. Ma, evidentemente, la Casa Bianca e i suoi advisor stanno facendo altri calcoli, almeno per ora. La verità è che mentre l’Europa, sull’orlo di una crisi di nervi, è tutta assorbita dalla crisi ucraina, il cui controllo (che non ha mai veramente avuto) le sta sfuggendo definitivamente di mano, Trump fa le sue mosse, guardando più lontano. È vero, parla solo di Kiev e di Mosca, ma intanto la testa ce l’ha da un’altra parte. E agisce di conseguenza, senza troppo clamore. Tutti gli specialisti sanno che il suo chiodo fisso è la Cina e il relativo progetto geopolitico, che la ‘contenga’, cioè che argini il suo straripante espansionismo, prima di tutto economico, a cominciare dall’Indo-Pacifico.
L’oscillante America di Trump non piace
La filosofia dei dazi doganali è l’arma principale voluta dalla sua squadra, per sfidare Pechino sul terreno minato dell’export. Tuttavia, la strada scelta dal team guidato da Scott Bessent e Howard Lutnick (i Segretari al Tesoro e al Commercio) è molto scivolosa, perché non basta migliorare i numeri della bilancia commerciale nel breve periodo, per garantire un ciclo espansivo stabile. La competizione con la Cina è una maratona e basta poco per vedere i fondamentali dell’economia fibrillare paurosamente. Il che, tanto per cominciare, significherebbe per Trump perdere le elezioni di Medio termine, l’anno prossimo, cruciali per il controllo del Congresso. Nell’ordinanza pubblicata lunedì sera, si spiega che «la Cina ha adottato misure significative per porre rimedio ad accordi commerciali non reciproci e affrontare le preoccupazioni degli Stati Uniti in merito a questioni economiche e di sicurezza nazionale». Una formuletta in politichese per giustificare l’indulgenza di Trump, che ha ritirato all’ultimo momento la ‘tassa-Putin’ che avrebbe dovuto imporre anche alle merci cinesi. Portando addirittura l’importo del dazio fino al 100%. Il nuovo ultimatum è fissato al 10 novembre e fino ad allora resterà in vigore l’attuale tariffa “reciproca” del 10%.
I dazi Pechino-Washington
Da aprile, Washington ha aumentato i dazi sulle importazioni cinesi fino al 145%, mentre Pechino ha replicato con aliquote che arrivavano al 125%. Ma i cinesi hanno colpito selettivamente anche la catena di approvvigionamento delle materie prime, introducendo controlli sulle esportazioni, specie per quanto riguarda le cosiddette ‘terre rare’. Si tratta di pregiati metalli con qualità speciali, che entrano nella produzione di beni ad altissimo valore aggiunto, come quelli di sofisticata tecnologia. C’è stato un vero e proprio braccio di ferro tra Usa e Cina, che si sono scontrati utilizzando come ‘armi’ microchip e terre rare. A giugno, a Londra, finalmente è stata siglata un’intesa che ha ammorbidito le rispettive burocrazie commerciali, favorendo gli scambi di semiconduttori e metalli pregiati. Così Nvidia ha ripreso a spedire i suoi semiconduttori di fascia alta, indispensabili per l’intelligenza artificiale, in Cina. Tutto questo anche se la Casa Bianca mantiene una dura politica di chiusura ‘tecnologica’, per quanto riguarda prodotti destinati all’intelligenza artificiale e, più in generale, alla microelettronica.
L’illusione di isolare la Cina
Inoltre, gli Stati Uniti stanno conducendo una politica di relazioni internazionali (non solo commerciali) molto aggressiva in tutto il Sud-est asiatico, cercando di fare terra bruciata attorno alla Cina. Recentemente hanno siglato un accordo col Vietnam, per evitare l’escamotage della ‘delocalizzazione’ dei prodotti, che in pratica vengono trasferiti da Pechino ad Hanoi, per essere assemblati e rivenduti col marchio vietnamita. Questa triangolazione, che aggira il blocco americano, viene resa sempre più difficile dagli stretti controlli a cui sono ora sottoposte tutte le merci che entrano negli Usa. «Durante questo periodo di tregua commerciale – scrive il South China Morning Post di Hong Kong – Washington farà pressione su Pechino affinché effettui ‘grandi acquisti’ di beni statunitensi per ridurre il deficit, anche se i dati doganali mostrano che le importazioni cinesi di molte materie prime americane sono crollate – o in alcuni casi, si sono fermate del tutto – negli ultimi mesi. Alcuni analisti – aggiunge il giornale – sostengono che Pechino si considera in vantaggio nei negoziati, grazie alle esitazioni di Trump e alla spinta per maggiori ordinativi di soia. La Cina ritiene, inoltre, che il suo controllo sulle esportazioni di minerali di terre rare continui a rappresentare una forte leva nei confronti degli Stati Uniti nei negoziati commerciali in corso. Secondo William Yang, analista senior per l’Asia nordorientale all’International Crisis Group, «Pechino continuerà a usare la sua influenza per ottenere ulteriori proroghe o fare pressione sugli Stati Uniti, affinché facciano concessioni senza farne a loro volta».
Ma l’export della Cina intanto cresce
Certo, la Cina e la torta del mercato globale rappresentano solo uno dei problemi economici epocali sul cammino ‘MAGA’ di Trump. Il mondo è un boccone troppo grosso per tutti, anche per lui. Gli osservatori che contano (quelli finanziari) hanno i fucili puntati sui suoi azzardi, commerciali prima ancora che politici. Ieri, la prima pagina del Wall Street Journal sembrava un bollettino di guerra. Nel senso che spaccava il capello in quattro, a cominciare dal tasso di inflazione (per ora stabile al 2,7%) e proseguiva con il mercato del lavoro, la Federal Reserve e le ‘aspettative’. Di qualsiasi tipo. Il senso è chiaro: sono tutti convinti che la sconclusionata filosofia da ‘racket’ dei dazi di Trump, prima o dopo provocherà sconquassi. Basta solo attendere che gli scivoli il piede. Intanto, è stato costretto a rimangiarsi tutte le minacce rivolte al formicaio cinese. I numeri sono come pietre e inchiodano sia lui che i ‘nobili statisti europei’, che da un lato indicano la Cina come ‘avversario strategico’ e dall’altro continuano ineffabilmente a comprarci di tutto: dalle padelle, alle mutande, fino ai microchip.
«Le esportazioni cinesi – annuncia il quotidiano di Hong Kong – hanno continuato ad accelerare a luglio, poiché il calo delle spedizioni verso gli Stati Uniti è stato compensato dalla crescita in una serie di mercati, tra cui Africa, Europa e America Latina, con le esportazioni di chip in aumento di quasi il 30% su base annua. Il mese scorso, le esportazioni verso l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico sono aumentate del 16,6% su base annua, in linea con la crescita del 16,8% registrata a giugno. Le spedizioni in uscita verso l’Unione Europea, invece, sono aumentate del 9,2% su base annua a luglio, rispetto al 7,6% di giugno.
Business is busines. Lo comprendiamo persino noi, poveri peones. Ma a Bruxelles, per favore, abbiano almeno la decenza di smetterla una volta per tutte di dare lezioni di ‘bon ton’ politico. E si guardino allo specchio.
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13/08/2025
Panama - Lo scacco a BlackRock è una sconfitta anche per Trump
È un episodio simbolico, ma potentissimo: dimostra come gli Stati Uniti, anche nella loro dimensione finanziaria e commerciale più aggressiva, non siano più in grado di imporsi da soli in zone che un tempo consideravano cortile di casa.
Il ritorno di Trump e il mito del “piccolo impero”
Alla vigilia del secondo mandato, Donald Trump ha rilanciato il suo disegno geopolitico: un’America meno globale ma più coesa, che rinuncia all’universalismo interventista per consolidare un nucleo imperiale compatto.
Da qui l’ambizione di rimettere le mani sul Canale di Panama, nodo strategico per il commercio mondiale, già al centro delle tensioni USA-Cina da oltre un decennio. Lo stesso Trump, nel suo stile provocatorio, aveva persino evocato l’annessione del Canada e della Groenlandia, segnando un ritorno a un imperialismo esplicito ma selettivo.
BlackRock, un braccio armato troppo fragile
Nel tentativo di realizzare questa visione, Washington si è affidata a uno dei suoi attori più potenti: BlackRock. Ma la finanza, da sola, non basta più. L’idea di penetrare in America Centrale con strumenti privatistici si è scontrata con la nuova realtà multipolare: la Cina non è disposta a farsi da parte, nemmeno nei territori dove un tempo Washington esercitava il proprio dominio incontrastato.
In questa partita, Pechino ha semplicemente alzato il prezzo politico: nessun accordo senza compartecipazione cinese. BlackRock ha dovuto piegarsi, e con essa l’intera strategia americana.
Geoeconomia e multipolarismo: l’ordine cambia
Il caso panamense riflette una trasformazione strutturale dell’ordine mondiale. La globalizzazione finanziaria a trazione americana, che per anni ha guidato acquisizioni, aperture di mercati e flussi di capitali, è ora ostacolata da logiche di potenza.
Le infrastrutture strategiche non sono più in vendita a chiunque, e la concorrenza non è solo commerciale ma anche geopolitica. In un sistema multipolare, chi controlla i nodi logistici esercita influenza politica. La Cina lo sa bene e non ha alcuna intenzione di arretrare.
L’ambiguità strategica di Trump
Nel suo tentativo di riplasmare il ruolo globale degli Stati Uniti, Trump oscilla tra due impulsi contraddittori. Da un lato, vuole ritirarsi dal mondo per concentrarsi sulla ricostruzione interna e sulla sicurezza dei confini. Dall’altro, tenta operazioni di recupero imperiale in spazi strategici come Panama, l’Artico o i Caraibi.
Questa ambivalenza lo espone però a fallimenti strutturali: senza una chiara strategia multilivello, ogni incursione rischia di rivelarsi un boomerang.
Panama: laboratorio del nuovo equilibrio globale
Il rifiuto cinese di lasciare campo libero a BlackRock rappresenta molto più di una battaglia commerciale. Panama è oggi un microcosmo della transizione in atto: un’area dove interessi americani, cinesi, latinoamericani e perfino europei si incrociano e si neutralizzano a vicenda.
Chi controlla i porti, controlla i flussi, e chi controlla i flussi può esercitare un’influenza politica su intere regioni. La geopolitica si è fatta infrastrutturale e i giganti finanziari non bastano più a garantirne il dominio.
Conclusione: la fine dell’unilateralismo americano
La vicenda di Panama mostra quanto l’America fatichi a navigare in un mondo che non le appartiene più per diritto divino. Le mosse di Trump, che pure rispondono a una logica di contenimento e riorientamento imperiale, sono spesso rese inefficaci da un contesto che richiede strumenti nuovi: coalizioni, diplomazia economica, intelligenza strategica.
La forza bruta del dollaro o delle promesse non basta più. Il potere si esercita oggi anche sapendo accettare la coesistenza e gestire l’interdipendenza. Un’arte che Washington, a quanto pare, deve ancora imparare.
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Ampia mobilitazione in America Latina contro l’abominevole taglia su Maduro
Tra i firmatari figurano ex presidenti come Ernesto Samper (Colombia), Rafael Correa (Ecuador), Evo Morales (Bolivia), nonché esponenti del mondo accademico, sindacale e delle organizzazioni culturali e politiche.
I firmatari denunciano l’azione come un attacco alla sovranità della Venezuela, una minaccia per la pace regionale e un pericoloso precedente per gli Stati che vogliono salvaguardare la propria indipendenza. In Italia con il comitato promotore italiano dell’Internazionale Antifascista (del quale pubblichiamo il documento integrale in Attualità) sono insorti la Rete dei Comunisti, con i movimenti giovanili Cambiare Rotta e Osa, i ricercatori del CESTES (Centro Studi del sindacato USB) coordinati da Rita Martufi, e la redazione di FarodiRoma, il giornale online diretto da Salvatore Izzo, realtà entrambe aderenti al Capitolo italiano della Rete di intellettuali e artisti in difesa dell’umanità, fondato da Luciano Vasapollo, membro della Segreteria di RdC.
«L’annuncio degli Stati Uniti di imporre una taglia milionaria sul presidente legittimo della Repubblica Bolivariana del Venezuela, Nicolás Maduro, è un atto gravissimo che conferma ancora una volta – ha spiegato il prof. Luciano Vasapollo, decano di economia alla Sapienza di Roma – la natura prepotente e coloniale della politica estera di Washington. Non si tratta soltanto di un’operazione di propaganda, ma di una chiara violazione del diritto internazionale, della sovranità di uno Stato e della volontà democratica del popolo venezuelano, che ha eletto il proprio presidente in elezioni libere e riconosciute da osservatori indipendenti nonostante il sistematico boicottaggio mediatico.
Questa iniziativa statunitense mostra che l’Occidente è ormai agonizzante e corrotto dall’interno, e nonostante gli evidenti segnali di crisi prosegue stoltamente in una strategia storica di destabilizzazione dell’America Latina, con la quale si tenta di rovesciare governi popolari e progressisti attraverso sanzioni economiche, blocchi finanziari, campagne di disinformazione e ora persino pratiche da Far West, come la messa di una “taglia” sul capo di Stato.
È un linguaggio mafioso, che disonora le stesse istituzioni che lo promuovono e che dovrebbe essere respinto dalla comunità internazionale con fermezza.
Ricordo che il Venezuela bolivariano è oggi sotto assedio economico da parte di un sistema imperiale che, incapace di sconfiggerlo sul piano politico e sociale, tenta di soffocarlo sul piano materiale. Le sanzioni illegali hanno provocato danni enormi alla popolazione, ma non hanno piegato la sua dignità né il suo sostegno al processo rivoluzionario iniziato da Hugo Chávez e proseguito da Maduro.
Chiedo a tutti i movimenti sociali, sindacali, antimperialisti e pacifisti di condannare pubblicamente questa misura, che costituisce un precedente pericoloso: se oggi è Maduro, domani potrebbe essere qualsiasi altro leader che osa difendere l’autodeterminazione del proprio popolo.
Invito le Nazioni Unite, l’Unione Africana, la CELAC e ogni organismo internazionale realmente indipendente a pronunciarsi contro questa escalation e a riaffermare il principio sacro della non ingerenza negli affari interni degli Stati.
Il Venezuela ha il diritto di decidere il proprio destino senza minacce, ricatti o spade di Damocle sulla testa dei suoi rappresentanti. La vera criminalità non è a Caracas, dove regnano invece onestà e giustizia, ma nella guerra economica e politica che le viene imposta. Resistere a questo attacco è un dovere non solo per il popolo venezuelano, ma per chiunque creda nella giustizia e nella pace».
Il Popolo Chavista in marcia a Caracas
Parallelamente, oggi lunedì 11 agosto, il popolo venezuelano ha risposto con forza al criminale provvedimento statunitense: il Popolo Chavista, infatti, è sceso ancora una volta in strada per dare vita ad una “Gran Marcha Antiimperialista por la Paz y contra el Narcoterrorismo de la Ultraderecha Fascista”, mobilitazione che ha attraversato Caracas e diverse altre città.
Nella Capitale venezuelana, il corteo ha preso avvio dal Parque Francisco de Miranda, proseguendo davanti alla sede dell’ONU, in Avenida Francisco de Miranda, passando poi per Plaza Altamira, Plaza El Indio, il Ministero dell’Habitat e della Vivienda, fino a concludersi in Plaza José Martí.
Il capo del governo del Distretto della Capitale, Nahún Fernández, ha ribadito il rigetto verso le ingerenze destabilizzanti: «Respingiamo energicamente gli sforzi di gruppi fascisti, finanziati dal governo statunitense… questa escalation rivela la disperazione dell’impero; come venezuelani chiediamo rispetto per la nostra sovranità e per l’autorità di Maduro.
In Venezuela – ha aggiunto Fernàndez – la pace prevarrà sempre! Continueremo a rafforzare il benessere, l’indipendenza e la sovranità della Grande Patria di Bolívar e Chávez, in un atto di dignità e impegno per il nostro destino comune».
Da parte sua, il segretario generale del Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV) nonchè ministro dell’Interno e della Giustizia, Diosdado Cabello Rondón, ha sottolineato che le forze rivoluzionarie si mobiliteranno questo lunedì in perfetta unità, in difesa della Patria e della pace di tutti i venezuelani.
«In perfetta unità, come blocco, ci mobiliteremo per difendere la Patria, la pace, l’indipendenza, la sovranità e la nostra Costituzione», ha detto Cabello durante la conferenza stampa nella sede del PSUV.
Cabello ha inoltre ribadito: «Dobbiamo restare vigili perché i nemici della Patria non si danno pace e ricorrono a metodi di estremismo, violenza e terrorismo».
Allo stesso tempo, Cabello ha osservato che i settori che utilizzano questi metodi in Venezuela sono stati pienamente identificati; inoltre, come è stato riferito, sono collegati al traffico di droga, a cospiratori e a bande criminali «che un tempo esistevano in Venezuela e molte delle quali sono ora protette in alcune parti del mondo da chi le governa, come nel caso dell’Ecuador».
Anche il cancelliere venezuelano Yván Gil ha tuonato contro l’iniziativa statunitense definendola «patetica: la cortina di fumo più ridicola che abbiamo visto… è un show mediático». Si tratta, ha scandito, di una «disperata distrazione dalle proprie miserie» e ha concluso con fermezza: «La dignità della nostra patria non è in vendita».
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12/08/2025
USA - L’uomo di Trump per la Fed e l’arricchimento del Boss
Il 7 agosto Miran è entrato nel sancta sanctorum dell’economia americana, con la nomina nel Consiglio della Federal Reserve. Le voci che sarà lui a sostituire Jerome Powell nel 2026 si moltiplicano, ma ciò che conta veramente è che l’architetto della strategia economica di Trump è entrato definitivamente nella stanza dei bottoni.
All’annuncio della sua nomina, sono in molti ad osservare che questo permetterà di accelerare una serie di azioni che hanno come obbiettivo finale il salvataggio del debito pubblico. A partire dal primo abbassamento dei tassi previsto a settembre cui dovrà far proseguire il graduale indebolimento tattico del dollaro. E come emerge dalle teorie contenute nel manuale di Miran, il percorso di risanamento del debito e di rilancio dell’economia americana dovranno passare attraverso un disegno politico fatto di colpi bassi e vere e proprie spallate al funzionamento della politica monetaria.
Spallate e colpi bassi
La prima spallata è già avvenuta ed ha abbattuto gli ostacoli posti dal consiglio della Fed con l’uscita di Adriana Kugler, tornata a insegnare alla Georgetown University. La nomina di Miran al suo posto dovrà essere approvata dal Senato, ma non ci sono segnali evidenti che si possa impedirlo. Resta l’ultima parola ai mercati che però non si sono troppo allarmati per quella che può considerarsi a tutti gli effetti la presa della Fed da parte di Trump. I rendimenti dei Treasury, i titoli di Stato a lungo termine, sono saliti leggermente nelle ore successive all’annuncio della nomina di Miran.
La Banca Centrale secondo Trump-Miran
Le sue teorie sul ruolo della banca centrale si possono riassumere nelle dichiarazioni riportate da Reuters: «La tanto celebrata indipendenza della Fed l’ha resa irresponsabile e inefficace. Sarebbe meglio adottare un nuovo sistema in cui il presidente possa licenziare a piacimento i sette membri del Board of Governors con sede a Washington». Da qui il cambiamento delle regole con la riduzione da 14 a 8 anni del mandato dei governatori fino al renderli rimovibili dal presidente e a dare diritto di voto sulla politica monetaria a tutti i 12 presidenti delle banche regionali.
Tutto il potere alla Casa Bianca
«Se questo è l’obiettivo, si sta scendendo ulteriormente lungo la china della perdita di indipendenza della Fed dal ramo esecutivo. Vogliono agitare le acque, e questo è preoccupante per la democrazia americana» ha affermato Ellen Meade, ex consigliera di vertice del Board della Fed e ora docente alla Duke University.
Dollaro e criptovalute
Il secondo ‘colpo’ di Trump, sempre sulla scia del pensiero del suo ideologo economico, e uno dei più grandi sostenitori delle criptovalute, è la nuova legge sulla regolazione delle monete digitali, il cosiddetto ‘Genius Act’ (acronimo che sta a significare Guiding and Establishing National Innovation for U.S. Stablecoins Act). L’obbiettivo della legge si riassume come segue: con il debito pubblico a rischio di andar fuori controllo emerge l’urgenza di stabilizzare il dollaro come riserva di valore. Con gli accordi di Bretton Woods venne stabilito il dominio del dollaro garantito dall’oro; con il Genius Act si ribalta questo ordine ed è il digitale che garantisce il dollaro, ovvero sono le Stablecoin a fare da collaterale del dollaro.
L’attacco dei Paese Brics
Il dollaro subiva già l’attacco dei paesi Brics, e in particolare della Cina, i quali stanno sperimentando le criptovalute (yuan digitale) per fronteggiare il potere politico della valuta americana. Secondo alcuni osservatori del mondo cripto, questa operazione viene fatta anche per erodere il potere tradizionale delle banche centrali e trasferirlo alle ‘Repubbliche digitali’ e dunque alle Big Tech, in nome della supremazia del dollaro.
Iper capitalismo, coi privati a battere moneta
Le criptovalute e anche le Stablecoin non sono emesse dalla banca centrale, ma da soggetti privati. ‘Soggetti’ come lo stesso Trump che nel business delle cripto prospera con la sua World Liberty Financial, posseduta al 60% con il figlio Eric e di cui è socio anche il figlio di Steve Witkoff, l’inviato speciale in Medio Oriente e a Mosca.
Il Bloomberg Billionaires Index indica che tramite le sue iniziative cripto l’azienda dei Trump ha aggiunto almeno 620 milioni di dollari dall’inizio del suo mandato ad oggi. Un gioco di potere dalle dimensioni enormi, a base di conflitti d’interesse e abbattimento delle regole che solo un navigato speculatore di Wall Street avrebbe potuto assecondare.
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11/08/2025
La crisi degli Stati Uniti può essere ritardata solo dalla sottomissione delle “colonie”
Le ultime dichiarazioni di Donald Trump rivolte all’Unione europea chiariscono bene il senso delle difficoltà degli Stati Uniti. Il presidente americano ha sostenuto che i dazi scenderanno al 15%, senza specificare in alcun modo le forme di tale riduzione, solo se gli europei trasferiranno agli Stati Uniti una montagna di soldi: se si dovessero mettere insieme tutte le cifre ventilate, si arriverebbe tra energia, armi e varie altre voci a poco meno di 2mila miliardi di dollari in tre anni. Trasferimenti analoghi, sia pur di minore entità, Trump ha richiesto con vigore a Giappone, Indonesia e Corea del Sud, a cui vanno aggiunte le sollecitazioni alle petromonarchie.
In sintesi, Trump ha bisogno disperato di soldi. Il motivo è molto chiaro. Il debito estero complessivo degli Stati Uniti ha raggiunto il record assoluto di 28.100 miliardi di dollari nel primo trimestre di quest’anno e sta continuando a crescere. Da Paese creditore verso il resto del mondo gli Stati Uniti stanno accumulando una gigantesca massa di debito estero che ormai non è più sostenibile per almeno tre ragioni molto evidenti.
La prima è costituita dalla conclamata perdita di capacità produttiva per cui gli Stati Uniti, senza la finanza, non sono più la principale potenza economica del Pianeta. La seconda ragione si lega alla prima perché questa perdita del primato non permette più alla Federal Reserve di stampare dollari per coprire i debiti americani. La terza ragione è individuabile nella massa enorme di debito federale compresa nel totale della spesa debitoria: il debito pubblico americano, come ha dichiarato candidamente lo stesso Jerome Powell, a capo della Fed, non è più sostenibile.
Del resto i numeri sono molto chiari. Il debito estero degli Usa è pari al 100% del Pil americano, in un contesto dove però il totale del debito pubblico e privato degli Stati Uniti è superiore al 250% dello stesso Pil e dove le entrate totali (federali, statali e locali) che Trump vorrebbe ulteriormente ridurre, non arrivano a 5.000 miliardi di dollari.
Dunque il capitalismo finanziario Usa è schiacciato dalla dipendenza dai capitali e dai risparmi esteri di cui necessita, oltre che per evitare l’insolvenza dello Stato federale, per mantenere una bolla borsistica che è arrivata ad assommare circa 50mila miliardi di dollari, con i quali si tiene viva la ricchezza colossale delle fasce più alte di popolazione ma anche l’ormai estesissimo sistema di polizze, fondi pensione, assicurazioni, prodotti finanziari disseminati nel mondo occidentale come strumenti “sostitutivi” dello Stato sociale. Alla luce di tutto ciò Trump usa i dazi, oltre che per incassare, come mezzo di pressione verso le colonie, “obbligate” a trasferire tutte le loro risorse verso la capitale dell’impero rendendo ancora più accentuata la paradossale situazione per cui circa il 60% dei risparmi mondiali si dirigono verso gli Stati Uniti.
Il neoliberalismo ha edificato un modello che prevede la “libera” sottomissione al capitalismo finanziario, con una centralità assoluta americana, e ora che l’impero vacilla, proprio perché ha portato a compimento gli inevitabili eccessi della subordinazione, lo stesso neoliberalismo deve trovare le giustificazioni per spiegare alle popolazioni impoverite la necessità di continuare ad accettare la sottomissione. In questa azione, la narrazione neoliberale trova cantori sia a destra sia nel progressismo, solerti nel sostenere che non ci sono alternative. In effetti, per i neoliberali di destra e di sinistra i ricchi e i poveri devono restare tali.
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L’energia rinnovabile è più economica di quella fossile
Secondo il rapporto, “nel 2024, le rinnovabili hanno costituito il 92,5% di tutta la nuova capacità elettrica aggiunta e il 74% della crescita della generazione elettrica”. Mentre quasi tutto il mondo sta passando sempre più alle rinnovabili, gli Stati Uniti spiccano come unico “dissidente”, con l’amministrazione Trump che nega il cambiamento climatico e continua a sostenere i combustibili fossili.
Non che possano fermare la marcia della storia, ma dato che il tempo a disposizione è già scaduto, gli USA, il secondo maggior emettitore di gas serra e uno dei paesi più ricchi al mondo, possono certamente peggiorare la nostra transizione verso un mondo più caldo.
Secondo il rapporto ONU, il costo delle rinnovabili è diminuito, mentre la loro capacità installata è aumentata significativamente; questo vale soprattutto per gli impianti fotovoltaici (FV), che utilizzano pannelli solari. Gli impianti solari a concentrazione (CSP), che usano lenti/specchi per concentrare i raggi solari e riscaldare l’acqua fino a generare vapore, utilizzato poi in un generatore convenzionale azionato da turbine a vapore, hsnno invece una diffusione inferiore.
Entro la fine di questo decennio, il costo livellato dell’elettricità da questi impianti solari dovrebbe avvicinarsi a quello degli impianti a combustibili fossili. Tuttavia, gli impianti FV con accumulo si sono abbassati di costo, rendendo i CSP un’opzione molto più conveniente oggi, tranne forse nelle regioni desertiche. Il vantaggio dei CSP è che le loro turbine forniscono inerzia, aiutando la stabilità della rete – un problema cruciale per le reti con molti impianti rinnovabili. Come visto nel recente collasso della rete spagnola, il guasto è stato in parte causato dalla mancanza di turbine per fornire sufficiente inerzia rotazionale, riducendo la capacità della rete di gestire le fluttuazioni di frequenza.
Per la prima volta, l’energia solare ed eolica sono ora più economiche del carbone, del gas naturale o del petrolio e rappresentano le opzioni più veloci per installare nuova capacità di generazione elettrica. La differenza negli ultimi 3-5 anni in questa transizione dai fossili alle rinnovabili è evidente.
Tra il 2010 e il 2022, solare ed eolico sono diventati competitivi in costo con i combustibili fossili, carbone e gas.
Nel 2023, il fotovoltaico su scala industriale e l’eolico onshore avevano costi di generazione inferiori alle fonti fossili.
La tanto discussa transizione alle rinnovabili è finalmente arrivata! La domanda è: abbiamo la volontà politica per fare ciò che non solo è necessario per il clima, ma anche economicamente vantaggioso per tutti? O la vecchia lobby dei fossili, specialmente negli USA, saboterà la transizione dell’umanità verso un futuro a basse emissioni?
Oggi, solare ed eolico sono le fonti energetiche in più rapida crescita e forniscono elettricità a costi ben inferiori ai combustibili fossili. Con il calo dei costi delle batterie, aggiungere accumulatori a livello di rete e sistemi di accumulo idrico a breve termine per stabilizzare la rete è di nuovo economicamente attraente. In altre parole, le rinnovabili sono oggi competitive anche senza considerare i nostri obiettivi climatici. Questo è il vero punto di svolta di cui si parla dagli anni ’80, quando il fotovoltaico ha fatto la sua comparsa.
Il Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico (IPCC) aveva due obiettivi. Uno era sensibilizzare tutti i paesi sulla necessità di un’azione climatica rapida per prevenire un aumento catastrofico della temperatura globale. L’altro era fornire i mezzi per finanziare la transizione energetica, eliminando gradualmente i combustibili fossili, specialmente nei paesi a basso reddito. L’idea alla base era che i paesi ricchi, avendo già occupato la maggior parte dello spazio carbonio a causa delle loro emissioni passate, avrebbero aiutato i paesi poveri a finanziare questa transizione.
Come sono stati raggiunti questi duplici obiettivi? Mentre i paesi ricchi hanno sempre parlato di obiettivi climatici, fin dall’inizio non hanno mantenuto le promesse di finanziare la transizione energetica dei paesi più poveri. Mentre l’Unione Europea (UE) e il Regno Unito, i maggiori occupanti dello spazio carbonio globale dopo gli USA, hanno investito nella loro transizione alle rinnovabili, gli USA non solo sono usciti due volte dagli accordi climatici globali, ma hanno anche fornito incentivi alle loro compagnie fossili.
Se il presidente George Bush uscì dagli accordi dicendo che “gli stili di vita americani non sono oggetto di negoziati globali”, Trump è andato oltre: non solo nega il cambiamento climatico, ma incentiva le compagnie fossili a bruciare ancora più carburanti e vuole estrarre petrolio e gas persino in Siberia.
I crediti carbonio sono come denaro sporco: i paesi ricchi pagano quelli poveri per creare o mantenere pozzi di assorbimento del carbonio, continuando a usare in modo sconsiderato carbone, petrolio e gas. Spesso si trattava di frodi contabili, con aziende che emettevano crediti falsi, permettendo ai paesi ricchi di continuare a inquinare. Parte di questi soldi sporchi è arrivata anche ad alcuni partner del Sud del mondo, ma la maggior parte è rimasta nei paesi emettitori dei cosiddetti crediti carbonio.
Molte chiacchiere, pochi fatti
Con il costo delle rinnovabili sceso sotto quello delle fonti fossili, che fine fanno le aziende che promuovevano la cattura del carbonio – non attraverso pozzi naturali come le foreste, ma separando fisicamente la CO2 dai gas di scarico dopo la combustione? Questa è l’altra “carota” che ci viene mostrata per giustificare l’uso continuato di petrolio, gas e carbone nei paesi ricchi.
Oggi, l’unico caso in cui la cattura del carbonio ha ancora senso economico è nella separazione della CO2 per “migliorare il recupero del petrolio, iniettandola nei giacimenti per estrarre altro petrolio altrimenti intrappolato nel sottosuolo” (Charles Harvey e Kurt House, New York Times, 16 agosto 2022). Per questo i due autori definiscono la cattura del carbonio “la grande truffa delle major del petrolio”!
L’altro uso dei combustibili fossili è nella produzione del cosiddetto idrogeno grigio, utilizzato per produrre acciaio, ammoniaca, raffinare petrolio, produrre metanolo e plastica. Tuttavia, emette CO2 nell’atmosfera, da qui il nome “grigio”. Le principali aziende coinvolte sono ExxonMobil, Chevron, BP e Shell.
Non sorprende che un’analisi (Li, M., Trencher, G., & Asuka, J., 16 febbraio 2022, PLOS ONE) delle loro attività mostri “una continua dipendenza dal modello di business fossile... Concludiamo che la transizione verso modelli energetici puliti non sta avvenendo, poiché gli investimenti non corrispondono alle dichiarazioni”. In altre parole, le compagnie petrolifere continuano come prima sotto la maschera della cattura del carbonio, dell’idrogeno grigio e tante chiacchiere. Tra l’altro, queste quattro aziende da sole sono responsabili del 10% del riscaldamento globale dal 1965.
Il crollo dei prezzi delle rinnovabili sotto quelli delle fonti fossili significa che oggi le rinnovabili non solo sono un’alternativa più pulita e migliore, ma anche più economica. Sia nella generazione elettrica che nei trasporti, le soluzioni fossili vengono rapidamente sostituite da solare, eolico e veicoli elettrici. Persino l’UE, influenzata da Trump e dagli USA, si sta allontanando dai fossili.
Cina e India stanno investendo pesantemente nelle rinnovabili, con l’India che ha già raggiunto l’obiettivo del 50% di capacità installata in rinnovabili in anticipo. Per molti paesi in via di sviluppo, la via rinnovabile non solo è più ecologica, ma anche più economica.
L’unico paese che fa da spoiler sono gli Stati Uniti, che, pur non essendo più competitivi nella manifattura, credono di poter estrarre “rendite” dagli altri. Questo è il “nuovo ordine mondiale basato su Trump” del G1, invece del “ordine basato su regole” del G7.
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