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20/10/2016

Gioia Tauro senza gioia: il fallimento della pianificazione industriale e la forza dei portuali

E’ trapelato poco dall’incontro tenutosi ieri, 19 ottobre, al Ministero dei trasporti a Roma sulla spinosa vicenda dei 442 portuali in esubero al porto di Gioia Tauro. Vicenda che aveva innescato uno sciopero selvaggio di due giorni, il 12 e il 13 ottobre, con il blocco del porto di transhipment gestito da Medcenter-contship, colosso italo-tedesco della logistica, da oltre 20 anni alla guida dello scalo della piana gioiese. A partire dallo sciopero l’urgenza di convocare le parti interessate e riaprire la trattativa sul numero degli esuberi e definire il percorso e la sostenibilità dell’Agenzia per il lavoro che dovrebbe occuparsi della ricollocazione dei portuali. L’incontro si è concluso con un nulla di fatto sulla riduzione degli esuberi e il reintegro di parte degli operai; mentre si è arrivati a stimare in 45 milioni di euro, da spalmare su tre anni, la cifra necessaria all’Agenzia del lavoro che dovrebbe far ritornare al lavoro i portuali da cinque anni in cassa integrazione. A Roma non tutto è andato per il verso giusto, l’incontro, infatti, stando alla nota diramata dal sindacato confederale unitario, è stato segnato da momenti di tensione, tra i tecnici del Ministro dei trasporti Delrio e Antonio Testi, il commissario speciale recentemente nominato e rappresentante gli interessi Medcenter. Proviamo qui di seguito a ricostruire una parte di questa complessa vicenda che ha come sfondo la crisi globale e ricadute significative sulla vita di migliaia di portuali.

Su 1.290 portuali, quelli in esubero, cioè quelli che non sono più utili agli interessi della MCT, la società che gestisce il porto di Gioia Tauro, sono 442 per lo più lavoratori del piazzale, quasi un terzo della forza lavoro complessiva. Oltre a questi operai che dipendono direttamente dalla Mct-contship, una parte consistente del lavoro necessario per movimentare i container è stata appaltata a cooperative esterne, con ovvi vantaggi per Mct in termini di riduzione dei costi fissi. In tutto: 4 ditte di rizzaggio 160 operai ; 1 ditta di tramacco 40 operai; 1 ditta reefer 20 operai e 4 ditte che si occupano di manutenzione mezzi con circa 160 operai.

Ma cerchiamo di capire come mai si è arrivati ad un terzo dei lavoratori in esubero, di cui il 50% operativo sul piazzale. Come spiega un operaio, questo non dipende dalle innovazioni tecnologiche, così come è avvenuto in altri porti del Nord Europa, ma piuttosto dalla crisi e dalle scelte fatte da Mct per risolvere il problema del rifiuto del lavoro di una parte dei portuali segnati da anni di turni massacranti:
"Nessuna tecnologia. Gli esuberi derivano dal 2008 con perdita delle linee Maersk e Grande Alliance, da quel momento in poi siamo passati da 3,6 a 2,2 milioni di TEU, poi c'è stata la "ripresa" e siamo a 2,9/3 milioni di TEU, utilizzando di fatto il 60% di banchina e piazzale in concessione. Sempre con l'abbandono delle linee, i container su ferro sono spariti, siamo passati da 3.600 coppie di treni l'anno a 0 treni. Altro dato importante da conoscere: nel 2007/2008 eravamo 670 operatori di piazzale, con un assenteismo (impiegati compresi) del 14% (malattia, congedi parentali, permessi elettorali, permessi studio, infortunio, permessi sindacali, part time) per gestire i picchi di lavoro e coprire i vuoti generati da questa situazione, l'azienda ha assunto (a giro) circa 300 operai – con contratti che andavano da una settimana fino a tre mesi – con la crisi del 2008 non sono più stati richiamati... nel 2009/10, circa 240 su 300 hanno fatto vertenza in tribunale per essere riassunti, perché l'azienda aveva abusato di questo tipo di contratti; nel 2011 il giudice dà ragione a questi ragazzi, condannando l'azienda a riassumere chi ha fatto ricorso, riconoscendo anzianità dal primo contratto e pari dignità... l'azienda perdendo le prime cause ha deciso per la conciliazione. Cosa strana (ma non troppo) non tutti gli operai avevano diritto ad essere riassunti, però l'azienda ha deciso di non fare ricorso, passando così, da 670 a 950 operai di piazzale... ecco perché c'è l'esubero. Quindi, chi ha lucrato su questi contratti? Solo l'azienda? Anche il sindacato? Di sicuro, questi ragazzi non hanno colpa’’.
D’altra parte non è la prima volta che la Mct fa ricorso alla cassa integrazione: negli anni passati vi sono state minacce di tagli del personale poi rientrate, con non pochi benefici economici e sgravi per l’azienda e per il capitale investito nell’area portuale.

Ma ritorniamo all’ultima vicenda. Già nei primi giorni di luglio c’era stato un incontro a Roma, nella sede del Consiglio dei ministri, tra sindacati, azienda, istituzioni e il ministro delle infrastrutture e dei trasporti Graziano Delrio. Le questioni in gioco: garanzie per i lavoratori e il rilancio dello scalo di Gioia Tauro. In pellegrinaggio a Roma per incontrare il ministro Graziano Delrio e i sottosegretari Claudio De Vincenti e Teresa Bellanova erano giunti il presidente della regione Oliverio, l’assessore regionale a molti sistemi: al sistema della logistica, sistema portuale e sistema Gioia Tauro, Francesco Russo, e poi Cecilia Battistello, presidente di Mct-contship, e i segretari regionali e nazionali dell’Ugl mare e porti, Ornella Cuzzupi, Francesco Cozzucoli e Pasquale Mennella. Quell’incontrò si chiuse con la promessa di siglare un accordo per la nascita di un’agenzia per il lavoro mirata alla riqualificazione dei portuali in esubero e la cassa integrazione per 1 anno a partire dal 1 Agosto. Non mancarono le dichiarazioni di rito cariche di speranza. Ad esempio Delrio dopo l’incontro del 6 luglio in un comunicato stampa affermava: ‘’Sì è compiuto un passo avanti importante oggi per Gioia Tauro a Palazzo Chigi, con l’istituzione dell’Agenzia per il lavoro e con l’Accordo di programma per il rilancio del porto, che consentono la tutela dei lavoratori e una prospettiva di sviluppo’’. L’idea era quella che ridando una ‘mission’ produttiva al porto di Gioia Tauro se ne garantiva il rilancio e quindi l’occupazione (www.cn24tv.it/news).

Nella seconda settimana di luglio l’accordo venne firmato da tutti, compresi Cgil, Cisl, Uil, Ugl, Sul. I soldi da stanziare tanti, milioni: costo dell'agenzia per il lavoro portuale 45 milioni di euro in 3 anni (legge di stabilità); per il bacino di carenaggio navi 40 milioni finanziato dal patto per la Regione Calabria; l’adeguamento banchina per l'accosto del bacino di carenaggio, 15 milioni di euro (AP). A questi bisogna aggiungere le spese per defiscalizzazione tasse di ancoraggio 11 milioni di euro e la detassazione accise carburante e costi energetici € 3,5 milioni.

Varie le idee sulla ‘mission’: cantieristica, riparazione container, e interventi per oleare la logistica risolvendo l’annosa questione dell’adeguamento ferroviario. In questa ondata di interventi, i portuali in esubero, che in tre anni dovrebbero tornare a lavoro, sembrano funzionare come un cavallo di troia per ottenere il pacchetto di aiuti e una serie di facilitazioni utili agli investitori.

Passata l’estate, per due giorni, il 12 e 13 ottobre, i portuali bloccano il porto per ben 50 ore. Nelle prime ore del pomeriggio del 12 ottobre i manager di Mct e i rappresentanti sindacali si erano riuniti per discutere degli esuberi, per ridurne il numero. Alle 19, dopo circa quattro ore di trattativa, vista l’inamovibilità dell’azienda, al cambio turno i portuali hanno bloccato il porto. Un blocco che ha fatto paura per la determinazione e la vivacità delle assemblee operaie. Per far rientrare lo sciopero, oltre alle visite di rito dei segretari nazionali dei maggiori sindacati, si è giocata la carta dell’incontro del 19 ottobre a Roma con la promessa di discussione di un miracoloso piano di reintegro. Lo sciopero è rientrato così come volevano i maggiori sindacati spaccando il fronte della lotta, tra i giovani determinati a continuare e gli altri. A questo bisogna aggiungere che per alimentare spaccature – così come spiega un operaio – i portuali in esubero vengono etichettati come assistiti, solo perché subiscono il trattamento della cassa integrazione. Ed è invece il contrario, aggiunge, "qui hanno creato un meccanismo che divora soldi da decenni, gli assistiti non siamo noi ma loro’’.

Come si accennava, per risolvere la faccenda, si è pensato di aprire un altro carrozzone che dovrebbe ruotare intorno a questa fantomatica agenzia nazionale per il lavoro portuale che, oltre ad essere un dispositivo per sfiancare le proteste, dovrebbe elaborare dei piani di riqualificazione del personale. Stando a quanto sostengono invece gli operai si tratta di un posteggio momentaneo per i portuali in esubero per poi rimetterne al lavoro una parte e lasciarne a casa il resto. E’ importante non scordare, per prima cosa, che Gioia Tauro non è l’unico porto pronto ai tagli del personale; la questione non è regionale ma nazionale e ancora di più mondiale se si pensa che la grande crisi ha investito anche i porti che per conto loro soffrivano – così come ricordava Sergio Bologna in un articolo che vale la pena leggere sulla bancarotta della grande compagnia marittima sud coreana Hinjin (che potete leggere qui) – e per un altro grosso problema non trascurabile, quello del ‘gigantismo’, navale e dei porti. Gioia Tauro è uno di questi; per costruirlo sono stati spazzati via ettari di aranceti, cementificati chilometri di terreno e spiaggia, con un impatto brutale sul paesaggio diventato, oramai, irriconoscibile agli occhi di chi è là cresciuto. Il ‘porto dei miracoli’ venne sostenuto e propagandato come una delle sfide del sud; il porto del rilancio occupazionale e del riscatto dopo il fallimento del V polo siderurgico, l’ennesimo piano folle che per fortuna non vide mai la luce nella piana gioiese.

Ma come l’esperienza insegna, non sempre salvarsi fortuitamente da un danno mette al riparo da altri danni; ed ecco che è si è arrivati al porto, ed è probabile che nel 2069 staremo ancora a qui a discutere sui piani di esubero per gli ultimi 15 portuali rimasti, dopo che i robot saranno subentrati ai lavoratori. Se si segue la vicenda del porto si può capire come i piani di rilancio non abbiano niente di sensato e quelle che vengono proposte come soluzioni appaiono abbastanza incerte e spesso dannose. Parliamo della Zes – Zona economica speciale –, o ancora della cantieristica per la riparazioni delle grandi navi. Interventi che vengono spacciati come risolutivi per il rilancio occupazionale ma che di fatto rischiano di essere un pericoloso avvitamento senza uscita da una vuota ideologia lavorista.

Perché le grandi compagnie navali dovrebbero preferire Gioia Tauro se ci sono nel mondo posti più competitivi per le riparazioni o le demolizioni? Perché si dovrebbe realizzare una zona Zes? A chi conviene veramente? Quali sono gli ulteriori danni per il territorio, il paesaggio, la vita delle persone? Gli studi sugli impatti nefasti delle zone economiche speciali (Zes) non mancano. No, a guardar bene quello che si sta proponendo non è sensato. Se queste sono alcune delle soluzioni individuate, ed è da tempo che se ne parla, viene da pensare che al di là delle intenzioni dichiarate- dato il gigantismo, la crisi, l’avanzare dell’automazione, cioè degli investimenti a risparmio di lavoro, dovendo eliminare migliaia di lavoratori portuali e non sapendo che pesci prendere nella peggiore tradizione concertativa si cerca una soluzione utile a dilazionare la questione, aspettare che le acque si calmino per ridurre ulteriormente la capacità di agire degli operai e soprattutto bloccare gli scioperi che sono la cosa più temuta. Due giorni di blocco e anche più in un porto di transhipment pesano e semmai la pratica dovesse diventare contagiosa, come avveniva nel passato, a livello nazionale e mondiale, i guai per quelli che oggi pensano di poter gestire, senza compromettere i livelli di profitto acquisiti, la logistica portuale aumenterebbero, e si troverebbero ad affrontare una comunità operaia, che se non abbocca all’ennesimo amo, sarà sempre più determinata perché consapevole della propria forza.

Per info su crisi e occupazione:

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