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17/10/2016

Siria - Il negoziato infinito uccide la soluzione politica

La tensione sopra Losanna è alle stelle. Con Aleppo costantemente vittima di bombe e missili, violenze ininterrotte sia sui quartieri est che ovest, le potenze globali e regionali si incontrano oggi in Svizzera per riaprire un dialogo mai così difficile sulla crisi siriana.
 
Ci saranno russi e statunitensi, ma anche i rappresentanti di Iran, Turchia, Qatar e Arabia Saudita, i due fronti opposti della guerra. Non ci saranno i siriani. A far temere un nuovo insuccesso sono le dichiarazioni che accompagnano la vigilia: l’intervista del presidente Assad al quotidiano russo Komsomolskaya Pradva, le pre-condizioni poste da Ankara, l’incontro del consiglio di sicurezza statunitense.

L’obiettivo, dice l’ambasciatore russo all’Onu Churkin, è convincere i sostenitori delle opposizioni ad usare la propria influenza per definire un reale cessate il fuoco, dopo i fallimenti degli ultimi mesi. Il più recente quello del mese scorso: la tregua siglata il 9 settembre da Mosca e Washington non è stata mai realmente rispettata, con i gruppi vicini all’ex al-Nusra che non hanno mai interrotto il lancio di missili, con i jet Usa che hanno colpito le truppe siriane nei pressi di Deir Ezzor e con il raid sul convoglio di aiuti umanitari imputato alla Russia.

Il presidente Obama, alla scadenza del mandato con una spada di Damocle dalle dimensioni enormi, ha incontrato ieri, prima del meeting di Losanna, il proprio consiglio di sicurezza con cui ha discusso la guerra in Siria e la lotta all’Isis, entità quasi dimenticata ma sempre radicata ed efficace. Secondo fonti raccolte dalla Reuters, Obama avrebbe discusso con i propri consiglieri opzioni militari in Siria nel caso i raid russi e governativi continuino. Una prospettiva terrificante che aprirebbe ad uno scontro militare globale e non più solo diplomatico, che si intreccia con le crisi in corso nel giro del mondo tra le due superpotenze impegnate nel pericolo processo di ridefinizione delle aree di influenza.

Poche ore prima il presidente siriano Assad aveva parlato con il quotidiano russo Komsomolskaya Pradva: Aleppo – ha detto Assad – è “il trampolino di lancio”, la città con la quale riprendere tutto il paese. “Non c’è altra scelta che ripulire l’area dai terroristi e rimandarli da dove sono venuti, in Turchia”. Parole non certo distensive che palesano – se ce ne fosse stato bisogno – la strategia governativa: Assad non può perdere Aleppo, la comunità siriana più importante dopo Damasco. Difficile, quindi, che accetti di ritirarsi se i gruppi armati di opposizione resteranno in città. Da parte loro i ribelli hanno un’identica visione della situazione: lasciare Aleppo significherebbe, per loro, aver definitivamente perso la guerra. Per questo nel nulla è caduto l’appello dell’inviato Onu de Mistura che si era offerto di fare da scudo umano per i miliziani qaedisti – i più numerosi, i meglio armati e i leader militari sul campo – se avessero lasciato la città.

E poi c’è la Turchia, il paese che ha infiammato al pari del Golfo il conflitto e infine invaso il nord della Siria, senza che però tale mossa abbia provocato particolari rimostranze (né dagli alleati Usa, nonostante sveli le contraddizioni interne di Washington che sostiene Ankara come i suoi nemici kurdo-siriani, né da Mosca che con Erdogan ha stretto rapporti commerciali fondamentali a tenerselo buono).

Ieri alla vigilia del meeting svizzero si è di nuovo sollevata la richiesta turca, ribadita costantemente negli ultimi due anni, di creare una safe-zone, una zona cuscinetto lungo il confine turco-siriano con il quale distruggere i piani di unità della kurda Rojava e addestrare i ribelli anti-Assad da spedire ad Aleppo, che così ne uscirebbe parzialmente circondata. Le capacità turche in tal senso sono già state ampiamente dimostrate: 1.500 miliziani dell’Esercito Libero Siriano sono entrati in Siria a fine agosto, pesantemente armati e coperti dalle truppe turche, mentre i villaggi kurdi venivano ripuliti. È la denuncia delle amministrazioni kurde nel nord della Siria: in due mesi, dicono, sarebbero 50 i villaggi spopolati dei residenti kurdi e in molti casi rasi al suolo dalle truppe turche, dalla città di Jarabulus alla comunità occidentale di al-Rai, nel distretto di  Aleppo.

Ci si chiede dunque cosa sia cambiato, ad un mese di distanza dall’ultima tregua: le posizioni delle parti restano inconciliabili, radicalizzate dagli obiettivi ancora non raggiunti. Per ora l’unica differenza sta nel gruppo chiamato a negoziare: più ristretto, non i 20 paesi dell’International Syria Support Group, ma solo cinque attori internazionali. Per il resto cambia poco per un conflitto che si trascina da quasi sei anni e che pare destinato a proseguire.

Ad Aleppo la situazione più grave: sarebbero 370 i morti civili dal 22 settembre, centinaia i feriti da entrambe le parti, con i quartieri orientali controllati dalle opposizioni ormai quasi privi di strutture mediche funzionanti per far fronte all’elevatissimo numero di feriti.

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