La tensione sopra Losanna è alle stelle. Con Aleppo costantemente
vittima di bombe e missili, violenze ininterrotte sia sui quartieri est
che ovest, le potenze globali e regionali si incontrano oggi in Svizzera
per riaprire un dialogo mai così difficile sulla crisi siriana.
Ci saranno russi e statunitensi, ma anche i rappresentanti di Iran,
Turchia, Qatar e Arabia Saudita, i due fronti opposti della guerra. Non
ci saranno i siriani. A far temere un nuovo insuccesso sono le
dichiarazioni che accompagnano la vigilia: l’intervista del presidente
Assad al quotidiano russo Komsomolskaya Pradva, le pre-condizioni poste da Ankara, l’incontro del consiglio di sicurezza statunitense.
L’obiettivo, dice l’ambasciatore russo all’Onu Churkin, è convincere i
sostenitori delle opposizioni ad usare la propria influenza per
definire un reale cessate il fuoco, dopo i fallimenti degli ultimi mesi. Il più recente quello del mese scorso: la tregua siglata il 9
settembre da Mosca e Washington non è stata mai realmente rispettata,
con i gruppi vicini all’ex al-Nusra che non hanno mai interrotto il
lancio di missili, con i jet Usa che hanno colpito le truppe siriane nei
pressi di Deir Ezzor e con il raid sul convoglio di aiuti umanitari
imputato alla Russia.
Il presidente Obama, alla scadenza del mandato con una spada
di Damocle dalle dimensioni enormi, ha incontrato ieri, prima del
meeting di Losanna, il proprio consiglio di sicurezza con cui
ha discusso la guerra in Siria e la lotta all’Isis, entità quasi
dimenticata ma sempre radicata ed efficace. Secondo fonti raccolte dalla
Reuters, Obama avrebbe discusso con i propri consiglieri opzioni militari in Siria nel caso i raid russi e governativi continuino.
Una prospettiva terrificante che aprirebbe ad uno scontro militare
globale e non più solo diplomatico, che si intreccia con le crisi in
corso nel giro del mondo tra le due superpotenze impegnate nel pericolo
processo di ridefinizione delle aree di influenza.
Poche ore prima il presidente siriano Assad aveva parlato con il quotidiano russo Komsomolskaya Pradva: Aleppo
– ha detto Assad – è “il trampolino di lancio”, la città con la quale
riprendere tutto il paese. “Non c’è altra scelta che ripulire l’area dai
terroristi e rimandarli da dove sono venuti, in Turchia”. Parole non
certo distensive che palesano – se ce ne fosse stato bisogno – la
strategia governativa: Assad non può perdere Aleppo, la
comunità siriana più importante dopo Damasco. Difficile, quindi, che
accetti di ritirarsi se i gruppi armati di opposizione resteranno in
città. Da parte loro i ribelli hanno un’identica visione della
situazione: lasciare Aleppo significherebbe, per loro, aver
definitivamente perso la guerra. Per questo nel nulla è caduto
l’appello dell’inviato Onu de Mistura che si era offerto di fare da
scudo umano per i miliziani qaedisti – i più numerosi, i meglio armati e
i leader militari sul campo – se avessero lasciato la città.
E poi c’è la Turchia, il paese che ha infiammato al pari del Golfo il
conflitto e infine invaso il nord della Siria, senza che però tale
mossa abbia provocato particolari rimostranze (né dagli alleati Usa,
nonostante sveli le contraddizioni interne di Washington che sostiene
Ankara come i suoi nemici kurdo-siriani, né da Mosca che con Erdogan ha
stretto rapporti commerciali fondamentali a tenerselo buono).
Ieri alla vigilia del meeting svizzero si è di nuovo
sollevata la richiesta turca, ribadita costantemente negli ultimi due
anni, di creare una safe-zone, una zona cuscinetto lungo il confine
turco-siriano con il quale distruggere i piani di unità della kurda
Rojava e addestrare i ribelli anti-Assad da spedire ad Aleppo, che così
ne uscirebbe parzialmente circondata. Le capacità turche in tal
senso sono già state ampiamente dimostrate: 1.500 miliziani
dell’Esercito Libero Siriano sono entrati in Siria a fine agosto,
pesantemente armati e coperti dalle truppe turche, mentre i villaggi
kurdi venivano ripuliti. È la denuncia delle amministrazioni kurde nel
nord della Siria: in due mesi, dicono, sarebbero 50 i villaggi
spopolati dei residenti kurdi e in molti casi rasi al suolo dalle truppe
turche, dalla città di Jarabulus alla comunità occidentale di al-Rai,
nel distretto di Aleppo.
Ci si chiede dunque cosa sia cambiato, ad un mese di distanza
dall’ultima tregua: le posizioni delle parti restano inconciliabili,
radicalizzate dagli obiettivi ancora non raggiunti. Per ora l’unica
differenza sta nel gruppo chiamato a negoziare: più ristretto, non i 20
paesi dell’International Syria Support Group, ma solo cinque attori
internazionali. Per il resto cambia poco per un conflitto che si
trascina da quasi sei anni e che pare destinato a proseguire.
Ad Aleppo la situazione più grave: sarebbero 370 i morti civili dal
22 settembre, centinaia i feriti da entrambe le parti, con i quartieri
orientali controllati dalle opposizioni ormai quasi privi di strutture
mediche funzionanti per far fronte all’elevatissimo numero di feriti.
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