di Michele Giorgio - il Manifesto
L’Iraq smentisce ma è
evidente il coinvolgimento, non richiesto, della Turchia nell’offensiva
volta a strappare Mosul al controllo dell’Isis. Domenica era stato il primo ministro turco Binali Yildrim
ad annunciare che l’artiglieria di Ankara aveva aperto il fuoco contro
obiettivi dell’Isis da posizioni a nord-est della seconda città irachena. Il
comando delle forze congiunte irachene però ha negato «la partecipazione
turca di qualsivoglia tipo nelle operazioni per la liberazione (della
provincia) di Ninive». E altrettanto ha fatto il generale dei
peshmerga curdi Eskender Gerdi. «Non abbiamo chiesto alla Turchia di
fornire un sostegno di artiglieria contro le posizioni terroriste»,
ha detto Gerdi alla televisione Rudaw. Tuttavia giornalisti locali, che
seguono l’avanzata curda verso la cittadina di Bashiqa, dicono di aver
visto numerosi colpi di artiglieria sparati dalla vicina base turca
cadere su postazioni dello Stato islamico.
Come ha fatto nel nord della Siria con l’offensiva Scudo
dell’Eufrate, ufficialmente contro i jihadisti ma in realtà contro i
curdi, il leader turco Erdogan ha ordinato ai comandi militari
di rompere gli indugi anche in Iraq. L’obiettivo è quello di garantire
una poltrona alla Turchia al tavolo delle possibili discussioni sul
futuro del nord della Siria e dell’Iraq ed impedire qualsiasi forma di
autodeterminazione vera per i curdi. Per Baghdad la presenza
militare turca nel territorio iracheno è fonte di rabbia e imbarazzo ma
le intimazioni alla Turchia di uscire subito dal Paese hanno fatto solo
il solletico ad Erdogan ben cosciente della debolezza dell’Iraq.
Guarda in avanti, con occhi e finalità ben diverse da quelle di Erdogan, mons.
Rabban al Qas, vescovo di Zakho e Amadya dei Caldei, nel Kurdistan
iracheno. Se l’avanzata in corso su Mosul alimenta le speranze di
cristiani, sciiti, yazidi di poter tornare a vivere in quella città e
nei villaggi circostanti, al Qas ha messo in guardia dalle gravi
tensioni sociali che sorgeranno dopo la liberazione dall’Isis.
«Quando Mosul sarà liberata – ha spiegato il vescovo ieri alla
fondazione pontificia Acs – la speranza dovrà confrontarsi con la
realtà: nuove tensioni per chi dovrà governare una città totalmente
diversa da quella abbandonata nel 2014». Fra le famiglie cristiane ad
Erbil o a Duhok , ha aggiunto al Qas, «è percepibile il profondo dolore
per il tradimento dei vicini di casa, musulmani sunniti che inizialmente
hanno accolto con favore gli uomini del Califfo. Sarà difficile
garantire una pacifica convivenza nel breve termine. Speranza quindi,
ma con i piedi ben piantati per terra. Gli iracheni non debbono
illudersi che il giorno dopo sarà tutto risolto». Timori ben
fondati. Non è escluso che tra le centinaia di migliaia di abitanti di
Mosul che, quando comincerà la battaglia strada per strada,
abbandoneranno la città ci saranno anche una parte di quelli che
nell’estate 2104 applaudirono ai jihadisti e che non mossero un dito per
impedire espulsioni ed esecuzioni sommarie di sciiti, cristiani e
yazidi. Persone che ora temono le vendette dei familiari di chi è stato
ucciso dall’Isis.
L’offensiva comunque va avanti. Le truppe della coalizione irachena sarebbero giunte a cinque miglia da Mosul
entrando, secondo fonti locali, in un villaggio dove hanno distribuito
acqua e generi alimentari alla popolazione. Si è già affievolito invece
l’attacco che i miliziani dell’Isis, in parte infiltrati da giorni nella
città, alla fine della settimana passata hanno lanciato contro Kirkuk
per aprire un secondo fronte ed alleggerire la pressione su Mosul. Gli
attacchi aerei sono incessanti e non sempre colpiscono “chirurgicamente”
le postazioni dello Stato islamico, come vorrebbero far credere i
comandi militari, a cominciare da quelli americani. Human Rights Watch
ha chiesto una indagine sul raid aereo della coalizione a guida Usa che
ha centrato la sezione femminile di una moschea sciita nella città di
Daquq facendo almeno 13 morti. L’Isis invece colpisce a centinaia di km
dal fronte. A Baghdad gli ultimi attentati suicidi hanno fatto almeno 11
morti.
Si stringe la morsa anche intorno alla zona est di Aleppo, in
Siria, occupata dai qaedisti di an Nusra e da altre milizie jihadiste
riunite nel Jaish al Fateh, e abitata ancora, stando all’Onu, da oltre
200mila civili. Terminato il cessate il fuoco unilaterale proclamato dalla Russia e da Damasco, i combattimenti sono ripresi
e le truppe governative appoggiate dall’aviazione hanno conquistato
altre importanti postazioni. I comandanti di Jaish al Fateh da parte
loro sostengono di essere sul punto di lanciare attacchi che spezzeranno
l’accerchiamento di Aleppo est.
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