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21/10/2016

Clinton e Trump, l'ultimo show

di Michele Paris

Uno dei rarissimi momenti significativi del terzo e ultimo faccia a faccia tra Hillary Clinton e Donald Trump, andato in scena nella notte di mercoledì a Las Vegas, è stato probabilmente il ripetuto riferimento della candidata Democratica alla Casa Bianca agli ex presidenti Repubblicani, Ronald Reagan e George W. Bush, con l’intento di sottolineare le differenze tra questi ultimi e il suo rivale. In questo modo, la ex first lady ha cercato ancora una volta di convincere gli elettori e gli ambienti di potere Repubblicani delle sue credenziali conservatrici, se non reazionarie, che, infatti, hanno convinto da tempo numerosi esponenti della galassia “neo-con” e dell’establishment militare ad appoggiare pubblicamente la sua candidatura.

In effetti, durante praticamente tutto il dibattito all’università del Nevada, Hillary ha navigato gli attacchi di Trump e le domande di Chris Wallace di FoxNews, moderatamente più incisive rispetto ai primi due “duelli”, nel tentativo di conciliare le sue posizioni elitarie e guerrafondaie, a malapena celate, con proclami vagamente progressisti e, soprattutto, con appelli alle politiche identitarie.

Forse ancor più rilevante, anche se tutt’altro che sorprendente, è stata poi la quasi totale assenza di riferimenti al contenuto delle e-mail del capo della campagna elettorale della candidata Democratica, John Podesta, pubblicate in questi giorni da WikiLeaks. Le rivelazioni sono state a tratti devastanti nel ritrarre una candidata al servizio di Wall Street nonostante un’immagine pubblica costruita attorno alla difesa della classe media americana.

In una sola occasione Chris Wallace ha posto una domanda a Hillary sulle e-mail segrete, in relazione cioè all’auspicio da lei espresso, in un discorso privato a una banca brasiliana e pagato ben 225 mila dollari, di vedere “un mercato comune nell’emisfero occidentale” senza confini e senza dazi.

In linea con l’atteggiamento tenuto finora da tutto l’ambiente Democratico, Hillary ha subito dirottato la discussione sulla responsabilità del governo russo nell’avere violato account privati di posta elettronica negli Stati Uniti, puntando il dito direttamente contro il presidente Putin per essersi intromesso nelle elezioni americane a favore di Trump.

Proprio sulla politica estera, l’ex segretario di Stato ha manifestato apertamente le sue credenziali da “falco”. Riconoscendo che anche l’amministrazione Obama, di cui ha fatto parte, è contraria alla creazione di una no-fly zone sui cieli della Siria, Hillary ha confermato la sua decisione a istituirne una dopo il suo ingresso alla Casa Bianca.

Quando Wallace le ha fatto notare che, secondo lo stesso capo di Stato Maggiore USA, generale Joseph Dunford, implementare una no-fly zone in Siria comporterebbe probabilmente entrare in guerra con la Russia, la Clinton ha attenuato di poco i toni, affermando in maniera confusa che questa iniziativa dovrebbe essere il frutto di trattative con gli stessi governi di Mosca e Damasco per proteggere la popolazione civile.

Sulle operazioni americane in Medio Oriente, Trump ha invece da parte sua attaccato Hillary e Obama, ricordando più volte le responsabilità di entrambi nel favorire il dilagare del fondamentalismo islamista in Iraq e in Siria. Nel rispondere poi alle accuse della rivale circa la sua attitudine troppo tenera nei confronti del Cremlino e i giudizi negativi espressi sulla NATO, Trump non ha nascosto la disponibilità a ristabilire rapporti sereni con Mosca e l’intenzione di sollevare gli Stati Uniti dai compiti di difesa degli alleati.

Sugli altri argomenti toccati dal dibattito, Hillary Clinton ha ostentato una retorica “liberal” per differenziare le proprie posizioni da quelle al limite del fascismo di Trump: dalla questione degli immigrati all’intervento dello stato nell’economia, dal diritto all’aborto alla salvaguardia dei rimanenti programmi pubblici di assistenza sociale. Ciononostante, Hillary non ha contestato l’impostazione della discussione data dal moderatore della serata su questi ultimi, accettando la premessa della necessità di contenerne i costi per evitare l’esplosione del debito pubblico.

Né Wallace né Trump, se non in maniera marginale, hanno fatto notare come le promesse di stampo progressista di Hillary contrastino clamorosamente con quanto da lei sostenuto nei discorsi alle grandi banche rivelati da WikiLeaks. In essi, la candidata Democratica ha sostanzialmente espresso la necessità di distribuire un elenco di menzogne al pubblico per contenere il malcontento e le tensioni sociali, mentre in realtà l’azione politica deve essere rivolta ai grandi interessi economico-finanziari.

Verso la fine del dibattito, dopo una tirata di Hillary sulla sua “missione” da presidente a favore degli americani comuni e contro “gli interessi dei potenti”, Trump ha fatto notare come la sua rivale stia “raccogliendo denaro [per la campagna elettorale] da quelle stesse persone che dice di voler tenere sotto controllo”.

I resoconti del dibattito apparsi giovedì sui media americani hanno comunque insistito su una dichiarazione di Trump, con la quale quest’ultimo si sarebbe rifiutato di riconoscere la legittimità democratica delle elezioni presidenziali. Il momento più citato dai giornali è avvenuto quando la discussione è stata portata sulle parole pronunciate da Trump nei giorni scorsi su un voto che potrebbe essere manipolato a favore di Hillary.

Quando il giornalista di FoxNews ha chiesto se è pronto ad accettare senza riserve il risultato delle elezioni, Trump ha risposto che tutto dipenderà da come si svolgeranno e che, per il momento, intende lasciare la “suspence” in merito alla sua decisione sull’esito del voto. Trump ha poi elencato le presunte manovre in atto per distorcere i risultati a favore della sua avversaria, alla quale, a suo dire, dovrebbe essere impedito di correre per la Casa Bianca, visti i crimini di cui si è macchiata.

Queste parole di Trump vanno intese come un serio avvertimento circa la sua intenzione di creare un movimento pseudo-fascista contro il sistema politico di Washington partendo dal rifiuto di accettare elezioni in qualche modo truccate. In questo scenario, la denuncia dell’irregolarità delle elezioni è perfettamente coerente con la strategia di Trump di presentarsi agli americani più penalizzati dalla crisi economica e dai processi di globalizzazione come fattore destabilizzante di un sistema manipolato a esclusivo favore dei poteri forti.

I suoi appelli alla “working-class” emarginata hanno però un certo successo solo grazie al vuoto della sinistra americana. Inevitabilmente, peraltro, le ricette economiche di Trump combinano una sorta di nazionalismo economico, alimentato dall’opposizione ai trattati di libero scambio che hanno favorito il trasferimento dei posti di lavoro in altri paesi, a logori cavalli di battaglia neo-liberisti, come il taglio delle tasse per le grandi aziende e altri favori a queste ultime per innescare magicamente una sostenuta crescita del PIL americano.

Alla fine della serie dei dibattiti previsti tra i due principali candidati alla presidenza degli Stati Uniti e a meno di tre settimane dal voto, la stampa americana sostiene che una vittoria di Trump risulta poco meno che impossibile, visti gli scenari delineati da quasi tutti i sondaggi pubblicati nelle ultime settimane.

Se l’immagine di Trump è già screditata dalla sua appartenenza al sottobosco semi-criminale del business americano, gli attacchi della stampa ufficiale, schierata pressoché interamente con Hillary Clinton, hanno contribuito ad arrestare una rimonta che sembrava possibile durante l’estate. La strategia utilizzata contro Trump è stata in larga misura già utilizzata infinite volte per regolare i conti nella classe dirigente americana, quella cioè di sollevare accuse di molestie sessuali.

Il repentino e massiccio cambiamento di opinione dei potenziali elettori, almeno come viene caratterizzato dai media “mainstream”, appare però sospetto a molti, tanto più che è legato a questioni di importanza secondaria rispetto a quelle cruciali in ballo con il voto, legate all’economia, al welfare e, soprattutto, alla guerra.

Rilevazioni di opinione di vari istituti indicano comunque, se non un sostanziale equilibrio, almeno un vantaggio per la Clinton non troppo superiore al margine di errore. Gli stenti della ex first lady sono chiaramente dovuti sia alla persistente e più che giustificata ostilità degli americani per una candidata che è l’incarnazione stessa dei grandi interessi che dominano la politica americana, sia all’ondata di risentimento nei confronti del sistema che ha l’unica valvola di sfogo in un “non politico” populista di estrema destra.

Se il risultato del voto dell’8 novembre prossimo sembra già segnato, la peculiarità della campagna per le presidenziali forse più degradante della storia americana e la ribellione latente contro l’establishment suggeriscono tuttavia di non escludere del tutto, a urne chiuse, qualche possibile clamorosa sorpresa.

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