Di passaggio notiamo come questo implicitamente ammetta che la riforma vada nel senso di un rafforzamento del governo ai danni del Parlamento, cosa ostinatamente negata dai sostenitori del Si alla riforma.
Dato che prevedevo sarebbe saltato fuori l’argomento del mondo globale che esige decisioni pronte ed immediate, ho dedicato al tema qualche pagina del mio libro appena uscito (“da Gelli a Renzi”) che vi propongo anche come risposta ad un tema che sentirete usare sempre più spesso dagli ineffabili alfieri della schiera renziana. Spero gradirete.
*****
Ricordiamo la frase di Renzi per la quale il sistema elettorale deve far sì che gli italiani sappiano “già dalla sera dei risultati” chi governerà nei 5 anni successivi. Per Renzi non si vota per eleggere un Parlamento, ma per eleggere un governo di cui il Parlamento non sarà che cassa di risonanza, con opposizioni limitate ad un puro “diritto di tribuna” ma assolutamente non in grado di incidere sul processo decisionale. E questa è la “governabilità”.
Questa della governabilità, è solo una estrema banalizzazione di un problema reale.
In realtà, la situazione sembra essersi sensibilmente ed ulteriormente complicata nell’ultimo trentennio: la crisi fiscale dello Stato si è riprodotta, ma questa volta non certo per effetto del residuo stato sociale, quanto piuttosto per il peso degli interessi sul debito pubblico, che ha conosciuto una impennata per l’irrisolta crisi bancaria.
La crisi dell’ordine bipolare ha prodotto una elevata instabilità internazionale che si è tradotta nella moltiplicazione delle sfide esterne (dal fenomeno di immigrazione e profughi al contagio finanziario, dal terrorismo internazionale alle montagne russe dei prezzi delle materie prime, dalle guerre locali all’inquinamento ambientale). Di fronte al proliferare di queste sfide la reazione più facile ed istintiva è quella dell’unità decisionale simboleggiata dall’“uomo solo al comando”, che risponde con prontezza ad ogni sfida e, dunque, un sistema istituzionale imperniato sul “dittatore temporaneo”.
Ovviamente, è indubbio che in un contesto internazionale di questo genere è essenziale opporre una risposta tempestiva all’emergenza. Ma siamo sicuri che tempestività faccia sempre rima con immediatezza? Mi spiego meglio: noi viviamo in un’epoca di crisi del pensiero strategico in gran parte prodotta proprio dai processi di globalizzazione, con la loro velocità e complessità, che moltiplicano i fenomeni di tipo controintuitivo. Basti una rapida (e necessariamente schematica) carrellata sulle crisi dell’ultimo decennio:
– nel 2007 i prezzi petroliferi toccarono il picco contribuendo ad affettare il crollo bancario americano dovuto ai mutui sub prime;
– la crisi bancaria indusse la speculazione finanziaria a spostarsi sul biofuel (e più in generale sulle materie prima) il che si combinò, nel 2009, con l’epidemia fungina africana ed i grandi incendi dei campi russi, che distrussero i rispettivi raccolti di cereali e con i pessimi raccolti di Francia e Canada il che ebbe l’inevitabile effetto di un brusco rialzo dei prezzi del frumento. E questo, a sua volta, produsse una ondata senza precedenti di rivolte della fame in 55 paesi;
– i prezzi petroliferi diminuirono, per il calo della domanda mondiale seguito alla crisi finanziaria ed alla produzione di combustibili da fonti rinnovabili, ma le rivolte della fame contribuirono a determinare lo scoppio della “primavera araba” che, se da un lato, fecero temere una nuova impennata del barile di greggio, dall’altro determinarono una estesa destabilizzazione dell’area mediorientale e nord africana nella quale si inserirono maldestramente Usa, Francia e Gran Bretagna, con un intervento diretto in Libia ed indiretto in Siria che precipitarono in guerre interne ancora irrisolte;
– i focolai di Libia e Siria hanno determinato, da un alto, ingentissimi ed incontrollati flussi di profughi verso l’Europa, dall’altro hanno aperto la porta ad un soggetto islamista ben più pericoloso di Al Quaeda, l’Isis, lo stato islamico intorno a cui si è costituita una fittissima rete di foreign fighters e di terroristi in parte mescolati con i flussi migrativi, in parte nella popolazione islamica già presente sul territorio europeo;
– gli effetti congiunti di crisi economica (ancora perdurante con indici di occupazione e consumi proporzionalmente fra i più bassi dal 1945 in poi), dell’ondata migrativa e degli attentati terroristici ha prodotto violente reazioni di tipo populista nei paesi europei che stanno destabilizzando i rispettivi regimi politici;
– questa serie di fenomeni sta generando una situazione internazionale sempre più ingovernabile ed il processo tende a peggiorare; basti considerare lo sbigottimento delle classi dirigenti occidentali che non sanno che fare di fronte alla Brexit ed all’evoluzione della crisi politica in Turchia in qualche modo prodotte proprio dai processi che abbiamo descritto subito sopra.
Fermiamoci qui: certamente non sono mancate le risposte molto rapide ma, sfortunatamente, non delle più riuscite, per cui ogni scelta ha posto le premesse per la crisi successiva ed a tamburo battente. E’ mancata una adeguata considerazione degli effetti controintuitivi che esse avrebbero comportato. Dunque, non sempre immediatezza è garanzia di successo, anzi spesso pregiudica la possibilità di una risposta più meditata che, per quanto tempestiva, sia strategicamente più calibrata.
In secondo luogo, il modello dell’“uomo solo al comando” forse (forse...) offre qualche vantaggio nell’immediato, ma, nel medio periodo, comporta anche effetti non desiderabili. L’opinione pubblica, di fronte ad una emergenza qualsiasi, in genere reagisce facendo quadrato intorno al governo e meglio ancora se esso è personificato da un leader dal quale ci si attende la difesa contro la sfida che viene. Spesso questo comporta l’isolamento delle opposizioni e la delegittimazione di ogni dissenso. Ma la gente vuole risultati e non ha una pazienza infinita: se dopo un certo periodo la crisi continua ad imperversare, l’occupazione stagna e il reddito medio scende oppure, se dopo qualche tempo, gli attentati terroristici si infittiscono anzi che diminuire, si produce una sostanziale delegittimazione del sistema che trova sfogo in una ondata di proteste che non si indirizza verso le opposizioni interne al sistema – a suo tempo emarginate – ma in nuovi soggetti molto più radicali e non sempre di ispirazione democratica (basti pensare al Fn francese o ad Alba Dorata in Grecia). Oppure può accadere che la protesta, pur contenuta in limiti democratici, possa produrre situazioni come la Brexit o rendere molto più prossime al successo le istanze secessioniste come sta accadendo in Scozia o Catalogna. Il leader che prima univa la nazione contro la sfida esterna, a quel punto incarna il simbolo della spaccatura ed il paese si scopre più diviso e perciò più debole, il tutto, mentre la democrazia finisce per correre rischi molto seri. Siete sempre convinti che il metodo “dittatore temporaneo” sia preferibile al metodo delle decisioni condivise di una normale democrazia?
D’altra parte, parlare oggi di governabilità significa fare i conti con una governance mondiale sempre più instabile ma sempre più condizionante. Governare come, senza la sovranità monetaria? Quale governabilità con una fonte di produzione giuridica del tutto indipendente, e non sottoposta nemmeno alla Costituzione, come la Ue con le sue direttive? E si pensi alla vicenda del bail in.
Dunque, il problema della governabilità c’è ma è cosa molto più sofisticata e complessa di quanto non dica la retorica provinciale e un po’ sgangherata che sostiene questa riforma.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento