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22/10/2016

Autunno 1946. Settanta anni fa: trattato di pace e “guerra fredda”


Il quadro complessivo delle relazioni internazionali appare dominato, nell’attualità, dal richiamo al ritorno del bipolarismo tra le superpotenze, USA e Russia, con la rievocazione del clima da “guerra fredda” nel quale il mondo si trovò immerso per un lungo periodo nel post – seconda guerra mondiale: “guerra fredda” fondata sull’equilibrio del terrore perché, nel frattempo, si era verificata l’escalation tecnologica nucleare nel campo degli armamenti.

Il quadro di relazioni internazionali caratterizzante la guerra fredda fu costruito esattamente settant’anni fa, nell’autunno del 1946, durante la fase preparatoria del Trattato di Pace tra le potenze vincitrici e quelle perdenti che fu firmato a Parigi il 10 gennaio 1947.

Nel frattempo il 26 giugno 1945 era stata firmata, a San Francisco, la carta istitutiva delle Nazioni Unite: organismo che, nell’intento dei promotori, avrebbe dovuto sostituire la defunta Società delle Nazioni nell’intento di preservare la pace nel mondo.

Risultò più forte la diversità tra i sistemi politici e, a Occidente, la paura del comunismo e nonostante appunto i principi elaborati in quella Carta fondamentale la divisione del mondo in diverse sfere d’influenza divenne pericolosa realtà.

Il problema più scottante, in questi mesi di settant’anni fa, risultava essere quello della divisione della Germania.

Il 5 febbraio 1946 Churchill aveva pronunciato il famoso discorso di Fulton, quello della “cortina di ferro da Stettino a Trieste” ma il primo atto concreto della nuova situazione mondiale e della sostanziale rottura dell’alleanza anti – nazista (del resto già insita nel tipo di spartizione prevista negli accordi di Jalta) si verificò il 2 dicembre 1946.

In quella data, infatti, USA e GB firmarono l’accordo per l’unificazione delle rispettive zone d’occupazione sul territorio tedesco, creando la “bizona anglo – americana”.

Nello stesso tempo Marshall sostituì Byrnes alla segreteria di Stato.

La nomina di Marshall da parte di Truman presentava uno specifico aspetto: Marshall, infatti, era reduce da una missione in Cina (peraltro non riuscita) nell’intento di evitare o contenere la completa affermazione delle forze comuniste rispetto al Kuomintang.

L’obiettivo della sua nomina, da parte dell’amministrazione USA, era dunque quello di rafforzare la presenza statunitense davanti agli elementi di crisi affioranti in varie zone del mondo, a causa dell’influenza dei regimi comunisti, già affermati o in via di formazione.

In realtà già in precedenza alla nomina di Marshall la diplomazia americana si era mossa attraverso una serie di iniziative, apparentemente legate alla politica degli aiuti per la ricostruzione europea, ma volta a rafforzare i partiti anticomunisti dell’Europa occidentale.

Fa rilevare Ennio Di Nolfo nel suo “Storia delle relazioni internazionali 1918 – 1992” come si trattasse di iniziative sviluppate in modo così complesso e minuzioso da non poter essere ricostruite analiticamente ma il cui indirizzo complessivo può essere riassunto come l’espressione dell’intento di diminuire l’influenza dei partiti comunisti o socialisti di sinistra nell’Europa Occidentale e nella collaborazione con tutti quelli che mirassero a superare le eredità lasciate dalla guerra nelle formazioni e nei sistemi politici di governo europei.

La principale di tale eredità era rappresentata dalla presenza nei governi dei maggiori paesi europei, dalla Francia all’Italia, dal Belgio alla Norvegia, di esponenti dei partiti comunisti.

La svolta che gli USA intendevano realizzare in campo economico attraverso la costruzione di sistemi interdipendenti nell’ambito dell’economia di mercato sarebbe risultata difficile, se non impossibile, qualora i partiti comunisti fossero stati presenti nei governi di quei paesi verso i quali l’azione americana intendeva svilupparsi.

Il cambiamento delle coalizioni di governo perciò appariva una sorta di precondizione per ulteriori iniziative politiche.

A questo punto è difficile non pensare che gli USA fecero tutto quanto era in loro potere per indurre le forze anticomuniste dell’Europa Occidentale a superare le loro esitazioni e a prendere l’iniziativa del cambiamento politico superando l’alleanza antifascista con i partiti comunisti presenti nelle diverse situazioni nazionali.

Fra l’autunno del 1946, quando furono gettate le basi di questo processo, e il maggio del 1947, quando esso giunse a conclusione, si verificò in Europa Occidentale e, di fatto, nella bizona angloamericana della Germania la preparazione per adattare efficacemente lo stato di cose in atto alla nuova politica americana.

Contemporaneamente si evolva il quadro nella zona di influenza sovietica: tra la fine del 1946 e la metà del 1947, con la sola eccezione della Cecoslovacchia (dove il processo fu completato soltanto nei primi mesi del 1948) in tutti quei paesi nei quali era intervenuta l’Armata Rossa si ebbe un rapido passaggio a regimi incentrati sull’egemonia del Partito Comunista.

Ciò si verificò in Bulgaria con il referendum del settembre 1946 e le successive elezioni dell'ottobre; in Romania con le elezioni del 19 Novembre 1946, in Polonia con quelle del 19 gennaio 1947.

Seguirono l’Ungheria e appunto la Cecoslovacchia.

Il timore degli USA era quello che, terminati i negoziati per la pace nei paesi minori e constatata l’evidente impossibilità di un rapido accordo per la Germania, i sovietici non intendessero più considerare come definitiva la linea tracciata dalla guerra ma si proponessero di allargare il perimetro della loro zona di sicurezza.

Intanto si verificò la mancata firma di un trattato di garanzia a quattro, mentre i sovietici agivano in maniera espansiva in Corea e in Cina.

In altri termini si era aperta una crisi che, dalla situazione degli equilibri da mantenere in Germania, poteva fungere da detonatore rispetto a una vasta serie di situazioni difficili riguardanti, in particolare, nella situazione allora geopoliticamente dominante, l’Europa.

La svolta americana rispetto all’alleanza antinazista avrebbe così trasformato il conflitto diplomatico con l’URSS in aperto scontro politico, ideologico, economico: in quella che appunto sarebbe stata denominata “guerra fredda” combattuta senza che si usasse lo strumento militare in un confronto diretto (infine, invece, nel periodo successivo le cosiddette “guerre per procura” da quella di Corea iniziata nel 1950).

La speranza di un sistema globale tutto interdipendente aveva ceduto alla realtà di un sistema effettivamente diviso in due campi.

Al centro del campo dominato dall’URSS stava un potere politico che, sia pure in maniera attenta e graduale, perseguiva un disegno di consolidamento, sicurezza, e allargamento.

Gli USA allora scelsero, in una situazione in gran parte imposta dai fatti, in luogo di una visione universalistica (quella adottata, poi, alla fine dell’URSS all’inizio degli anni ‘90 attraverso l’attualizzazione dei concetti di sola superpotenza, di “gendarme del mondo” di “esportazione della democrazia” di “fine della storia") una concezione particolaristica, riguardante un solo campo.

Per gli USA bisognava consolidare il campo occidentale, nella sua varietà di forme politiche ed economiche per evitare l’erosione che muoveva dalla Germania o dalla Grecia settentrionale o dalle incertezze della situazione italiana che poteva aprire la strada a una crisi del sistema capitalistico.

La sanzione definitiva allo “status” della guerra fredda arrivò attraverso l’enunciazione della cosiddetta “dottrina Truman” esplicitata dal presidente americano in un discorso tenuto a Camere Riunite il 12 Marzo del 1947.

In quel discorso si distinse tra i popoli “liberi” (quelli che si trovavano nella zona controllata dagli USA) e i regimi totalitari posti sotto l’influenza sovietica: la politica degli USA, secondo la dottrina Truman, avrebbe dovuto essere quella di aiutare – appunto – i cosiddetti “popoli liberi” mediante sussidi economici e finanziari.

Si trattava dei presupposti del Piano Marshall, ma anche dell’intervento diretto nelle vicende greche e turche: intervento che portò, in Grecia, a una guerra civile conclusa nel 1949 con un bilancio di 80.000 morti, in gran parte combattenti delle milizie comuniste che avevano sostenuto la lotta contro l’invasore nazista tra il 1941 e il 1945.

La guerra fredda era ormai in atto e si sarebbe sviluppata nel corso degli anni attraverso vicende molto complesse che in questa sede non possono essere efficacemente riassunte per evidenti ragioni di economia del discorso.

Settant’anni fa quella scelta fu compiuta per almeno quattro motivi fondamentali:

1) Il rischio di un’involuzione della situazione tedesca (lo si vedrà bene nel 1948 con la famosa vicenda del blocco e del ponte aereo).

2) La crisi inflattiva che assillava le economie dei paesi occidentali e che poteva rappresentare causa di sommovimenti politici in presenza di forti partiti comunisti, in particolare in Francia e in Italia.

3) La ricostruzione di un rapporto commerciale economicamente vitale tra gli USA e l’Europa.

4) La necessità di stabilire l’asse anglo – americano come punto di chiarimento nello scacchiere internazionale, dopo la fine dell’alleanza anti – nazista.

L’alleanza d guerra non si era dunque trasformata in alleanza di pace: era risultato impossibile spingere l’URSS ad accettare le regole internazionali del sistema capitalistico e il confronto divenne quindi tra sistemi economici e sociali opposti.

Oggi la situazione appare ben diversa, anche se tratti geopolitici comuni si possono rintracciare tra il persistere dell’imperialismo USA e il ritorno della vocazione imperiale russa: è il caso comunque di esplorare ancora ciò che accadde settant’anni fa in un momento di vera e propria svolta negli equilibri mondiali costruiti all’indomani della vittoria sul nazismo.

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