di Chiara Cruciati il Manifesto
«Nel nostro villaggio,
Kalidiya, a sud di Mosul, abbiamo assistito a scontri pesanti tra
esercito iracheno e Isis. Ci sono stati molti morti, ci siamo salvati
per un soffio». Amar Saad Nadimi ha 20 anni e da tre giorni si trova al
campo profughi di Dabaqa, Kurdistan iracheno. Intervistato da Middle East Eye,
racconta le divisioni che ruotano intorno alla controffensiva su Mosul:
con alcuni amici voleva unirsi all’esercito governativo o ad una delle
milizie impegnate nell’operazione sulla città. Ma Baghdad e Erbil non li
vogliono: come gli altri sunniti arrivati qui, sono stati perquisiti e
interrogati per verificare che non avessero legami con l’Isis.
Il clima è teso: l’altro ieri il capo kurdo della polizia di
Kirkuk ha accusato sunniti rifugiati in città di aver aiutato l’Isis ad
infiltrarsi e il 30% degli sfollati presenti di sostenere lo Stato
Islamico. Su queste divisioni il “califfato” fonda la
sua strategia militare e politica già da prima dell’occupazione di un
terzo del paese nel 2014. E continua a farlo: l’assalto a
Kirkuk ne è la prova. Gli scontri armati sono finiti solo all’alba di
ieri, dopo oltre 24 ore e 80 morti, soprattutto membri delle forze di
sicurezza.
In città ne sono convinti: l’operazione, inattesa, era volta a
distogliere energie e attenzione da Mosul. «In qualche modo – dicono ad al Jazeera dei
comandanti peshmerga – la manovra ha avuto successo: alcune delle forze
inviate a Kirkuk ieri, che siano peshmerga o iracheni, sono stati
richiamati dalla linea del fronte».
Lo squilibrio di forze, in ogni caso, fa preannunciare la
prossima caduta di Mosul: 30mila uomini – peshmerga, miliziani sciiti,
soldati iracheni – contro 3-6mila miliziani arroccati in città.
Per questo, per difendere il più a lungo possibile la roccaforte
irachena, lo Stato Islamico dà sfogo alle peggiori barbarie, suo macabro
marchio di fabbrica. Due giorni fa l’Onu denunciava il rapimento di
circa 550 famiglie da due villaggi alle porte di Mosul, portati via per
fare da scudi umani al momento della guerriglia urbana: «C’è un elevato
rischio che l’Isis non voglia usarli solo come scudi umani – avverte
Zeid Ra’ad al-Hussein, alto commissario Onu ai diritti umani – ma
potrebbe preferire ucciderli piuttosto che vederli liberati».
Un timore che sarebbe già realtà: secondo i servizi segreti
iracheni, ieri 284 uomini e ragazzi sarebbero stati giustiziati a Mosul e
gettati in una fossa comune nell’ex facoltà di Agraria della città.
Uomini e adolescenti, uccisi forse per il timore che potessero unirsi
alla resistenza anti-Isis, come i migliaia già detenuti in campi di
prigionia. E l’Isis usa anche i gas: l’avanzata di
iracheni e truppe Usa è stata rallentata ieri dall’incendio appiccato
dall’Isis all’impianto di zolfo di Mishraq. Due civili hanno perso la
vita, in centinaia sono rimasti intossicati.
Sul piano politico gli Stati Uniti tentano di mettere a
tacere le tensioni regionali: il segretario della Difesa Carter l’altro
ieri è arrivato a sorpresa a Baghdad. Con il premier al-Abadi
ha discusso del ruolo turco, dopo aver annunciato venerdì il
raggiungimento di un accordo di principio tra governo iracheno e Ankara.
Ma al-Abadi smentisce il Pentagono: il premier ha ribadito l’importanza
di avere buone relazioni con Ankara ma anche il no secco alla
partecipazione delle truppe turche alla battaglia per Mosul.
Una prospettiva che preoccupa: la politica da neo impero
ottomano del presidente Erdogan punta ad un ampliamento virtuale dei
confini verso zone considerate naturale prosieguo della leadership
turca. Nei fatti, una longa manus che potrebbe tradursi in un controllo più o meno diretto del nord dell’Iraq.
Nello specifico si vocifera che tra i piani di Erdogan ci sia
la creazione di una zona cuscinetto sul modello di quella immaginata
per il nord della Siria, sia per infilarci i profughi a cui l’Europa
chiude le porte che per separare il proprio sud-est (a maggioranza
kurda) dalla kurdo-siriana Rojava e dal montuoso nord iracheno dove
opera il Pkk. E sul piano internazionale anche l’Iraq entra
nello scontro tra Russia e Usa: due giorni fa Mosca ha accusato gli
Stati Uniti di aver bombardato un funerale a Daquq, sud di Kirkuk. 17
morti, dice Mosca, scambiati per islamisti.
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