Quando Occhetto annunciò, nella sorpresa generale, che aveva deciso di cambiar nome al partito,
esternai le mie perplessità ad un amico che era militante più che
ortodosso del Pci e che, con uguale ortodossia aderiva alla nuova linea.
Lui fu sorpreso, ricordando le mie molte polemiche con il Pci
(evidentemente poco capite, perché non era certo il nome comunista che
mi dava fastidio) e proruppe in un “Ma tu allora non sei anti-Pci, tu sei anti-Noi!”.
E ricordò una battuta di “Cuore” (l’allora supplemento satirico dell’“Unità”) nella quale Montanelli diceva in un telegramma: “Confermato il suffisso anti, per il seguito aspettiamo il nuovo nome del partito”.
Quella risposta mi illuminò: dunque,
c’era un noi che prescindeva dall’identità comunista e che gli era
sottostante, un noi che poteva chiamarsi in qualsiasi altro modo ma che
restava uguale a sé stesso. Che il Pci fosse un partito, per così dire,
in mutamento ideologico di sempre meno certa connotazione comunista era
cosa che noi dell’estrema sinistra sostenevamo (a torto o a ragione)
dagli anni settanta, ma, che quell’identità fosse diventata una sorta di
giacca intercambiabile con tanta indifferenza, era cosa tale da
sorprendere anche chi, come me, aveva sempre dubitato dell’identità
comunista del Pci.
La cosa era sconcertante perché il Pci
era il partito con la più radicata ed esibita identità ideologica, unico
con scuole di partito, diffusissime riviste ideologiche, con
frequentissime liturgie celebrative del comunismo (almeno sino al 1981
era regolarmente celebrata la ricorrenza del 7 novembre). Come era possibile che tutto questo si dissolvesse come un gelato a ferragosto?
Ben presto si capì che, con la
sua tradizionale disciplina, il popolo comunista avrebbe ratificato a
larga maggioranza la svolta. Questo era possibile solo ad una
condizione: che sotto la “pelle” comunista ci fosse un’altra identità,
quella sì, davvero radicata. E si poteva cambiar pelle senza troppi
dubbi. Anche se ci fu la scissione di Rifondazione Comunista a Rimini,
(e quella silenziosa di centinaia di migliaia di iscritti che non
rinnovarono la tessera e non aderirono a nessuna altra formazione
politica), nel complesso, la maggioranza degli iscritti seguì
disciplinatamente il gruppo dirigente. In nome di cosa?
Mi posi il problema di capire a quale “noi” si stava rivolgendo Occhetto,
quando esortò tutti gli iscritti a non temere la svolta perché
“sarebbero rimasti sempre gli stessi di sempre”. Certo, il Pci aveva
assorbito pezzi delle più diverse culture politiche (socialisti
riformisti e massimalisti, cattolici, liberali, azionisti, persino
anarchici o sinistra fascista) amalgamando tutto in una base ideologica
genericamente “socialista”, ma non si trattava di quello: non era
l’irrompere di culture politiche altre che, per anni, avevano covato
sotto la cenere comunista, se così fosse stato avremmo assistito ad una
esplosione, una diaspora. Invece si trattava di un flusso ordinatissimo:
le sezioni cambiavano la targa all’ingresso con la massima naturalezza,
gli iscritti si adattavano rapidamente al nuovo linguaggio e ai nuovi
simboli, la routine delle feste, del tesseramento ecc. riprendeva come
se nulla fosse.
Alcuni pensavano che, in realtà, si
trattava di un astutissimo espediente tattico per superare la conventio
ad exludendum ed andare finalmente al governo, ma la maggioranza capì
perfettamente che non si trattava solo di questo e fu ben lieta di
togliersi di dosso quel nome troppo pesante da portare. Quello che
reggeva tutto era quel “Noi” che cercavo di identificare.
Ben presto capii che esso era il frutto del racconto che il partito aveva fatto della sua storia:
il “popolo comunista” era, l’unica vera sinistra, possibile, la parte
migliore del paese, quella immune da scandali e corruzione e caricata di
una “missione storica”, quella di “salvare l’Italia”. L’identità
comunista era stata funzionale a questo disegno, ma, almeno dal 1956 (se
non dal 1944) non corrispondeva ad un particolare indirizzo ideologico
(come dimostra il fatto che, ad un certo punto scomparve dallo statuto
il riferimento al marxismo) e, insomma, non era affatto indispensabile
essere comunisti per aderire al Pci.
D’altra parte la leggenda del “comunismo italiano” diverso da tutti gli altri
(in parte vera ma in parte no) venne ripetuta all’infinito sino a
cancellare tanto la radice comunista quanto anche solo quella
socialista, lasciando solo il senso di appartenenza ad un soggetto che
si sentiva chiamato a “salvare l’Italia” perché diverso e migliore di
tutti gli altri italiani (la “diversità comunista” di Berlinguer,
ricordate?), anche se la perdita della cultura di origine, faceva si che
non si sapesse più da cosa si dovesse salvare il paese e come.
La nuova identità era nuda ideologicamente, nutrita solo da una autocelebrazione ormai priva di senso. Era la “chiesa” che è santa anche quando ha perso memoria delle sue origini e del messaggio evangelico da cui era sorta.
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