E' accaduto che alcuni anni fa, numerose città e cittadine italiane, tra cui si sono distinte quelle amministrate da giunte di sinistra, abbiano dedicato piazze e viali a esponenti non di secondo piano della polizia politica sovietica. Una revanche postuma, penseranno alcuni, degli antichi intendimenti stalinisti di cui, a detta loro, quella sinistra non si è mai effettivamente liberata.
Niente di ciò, per carità. Chi accusasse costoro di rigurgiti vetero comunisti, nella difesa della “odiosa polizia segreta sovietica”, sarebbe in errore. Essi sbagliavano, non sapendo – forse – di farlo. I loro intenti erano esattamente opposti: essi intendevano innalzare agli allori della storia le “vittime innocenti” dei “rigurgiti di stalinismo” nei paesi che, venuti a trovarsi nell'area socialista alla fine della seconda guerra mondiale, avevano tentato di imboccare la strada della “libertà” e della “democrazia”, con l'aiuto dei paesi a loro vicini e che, più “fortunati”, già da anni navigavano a vele spiegate sulle acque del liberalismo.
E una di quelle “vittime innocenti” o, forse, “l'eroe” par excellence, il cui nome campeggia su numerose targhe toponomastiche di città italiane, fu Imre Nagy, l'ex Ministro dell'economia, ex Ministro degli interni ed ex Primo ministro ungherese giustiziato nel 1958 a due anni dalla fine della rivolta “democratica” ungherese dell'ottobre-novembre 1956.
In questi giorni, in cui ricorre il 60° anniversario di quella rivolta, il sito web del PCFR riporta la testimonianza di un ex ufficiale sovietico, testimone diretto di quei fatti. Il colonnello a riposo Boris Bratenkov ricorda come il liberale Nagy, per sfuggire al regime fascista ungherese di Miklós Horthy, nel 1930 riparasse in Unione Sovietica e, dopo un periodo di lavoro al Comintern, nella cerchia di Nikolaj Bukharin, nel 1933 fosse “arruolato” nello OGPU (Direzione politica statale unificata) e poi, nel 1938, dopo un arresto di qualche ora e su intervento della famosa 4° sezione della Direzione centrale del NKVD (Commissariato del popolo agli affari interni), iniziasse la sua attività di delatore contro gli esponenti ungheresi del Comintern.
Sorvolando su tutta la fase che, dalla liberazione dell'Ungheria a opera dell'Armata Rossa, nel 1944, fino alle vicende del 1955 e 1956, con le prime manifestazione “studentesche” e gli striscioni che inneggiavano all'amicizia sovietico-ungherese, è forse il caso di accennare soltanto al colpevole iniziale arretramento del contingente sovietico, che spianò la strada alle prime stragi compiute dagli ex nazisti e hortysti ai danni degli esponenti comunisti (la moglie dell'allora ambasciatore sovietico a Budapest, Jurij Andropov, che assistette dalle finestre dell'ambasciata ad alcuni di quegli atti di “liberalismo”, perse la ragione e non riuscì più, fino alla morte, a metter piede fuori di casa) e che costò la vita, tra il 24 e il 29 ottobre, anche a circa 350 soldati sovietici e a una cinquantina di loro familiari.
E' però il caso di puntualizzare sulle radici di un'insurrezione organizzata all'insegna della “libertà dal giogo sovietico”, alla cui testa si distinse tra gli altri, per l'appunto, l'ex agente del NKVD Imre Nagy e che fino al giorno d'oggi viene presentata come una “sanguinosa repressione sovietica”. Delle oltre 2.700 vittime di quella “rivolta per la libertà”, oltre 700, tra le giornate dell'ottobre e quelle di novembre (allorché il Ministro della difesa sovietico Georgij Žukov, lanciò l'operazione “Vikhr-Turbine”) furono soldati dell'Armata Rossa e alcune altre centinaia furono i comunisti e gli esponenti del governo ungherese assassinati e appesi a testa in giù agli alberi di Budapest, dai fascisti dell'ex regime hortysta addestrati in Germania.
Delle evidentemente legittime richieste di una popolazione ungherese ancora sofferente per un paese agricolo praticamente distrutto dalla guerra, approfittarono gli antesignani delle odierne “rivoluzioni colorate” nelle repubbliche ex sovietiche: gli ex capi filonazisti, addestrati dai servizi statunitensi, inglesi e tedeschi. Non è ormai più negato da nessuno che l'operazione “Focus” fosse stata messa a punto negli USA, curata dall'attaché militare britannico a Budapest e la direzione operativa giungesse dalla Germania. In loco, i caporioni fascisti facevano aperto riferimento alle vecchie organizzazioni hortyste “Spada e croce”; “Europa libera”, “Guardia bianca”, “Unione dei cadetti”, “Accordo di sangue” e altre. Tra le richieste dei “democratici”, lanciate già prima dell'ottobre, c'erano anche quelle dell'abolizione dell'insegnamento della lingua russa e della soppressione della festa della liberazione dal fascismo (per qualche ragione, viene in mente la “romantica” euromajdan della Kiev del 2014...). Non fu forse casuale che nei primi giorni dell'insurrezione, fossero liberati di galera oltre 9.000 ex fascisti e che moltissime vittime, appartenenti al governo, al partito comunista e agli organi della sicurezza, fossero di origine ebrea: tanto per ricordare da che parte stessero gli “insorti per la democrazia”.
Un ottimo esempio, dunque, per le “eurorivoluzioni” degli anni duemila. Ma, soprattutto, e in particolare in riferimento all'eroe principale di quella “rivoluzione”, Imre Nagy e ai suoi celebratori della sinistra di governo, non si può fare a meno di parafrasare il grande Mao: i liberalsinistri “sollevano una pietra per poi lasciarsela cadere sui piedi”.
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