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22/10/2016

La mappa dei soggetti in campo a Mosul

Chiara Cruciati – Il Manifesto

La fuga, limitata dalle violenze dell’Isis, è cominciata: in 10 giorni circa 5mila iracheni della zona di Mosul sono fuggiti in Siria. Si trovano ora nel campo profughi di al-Hol, già sovraffolato. L’Onu ne aspetta molti di più. Sul campo le truppe irachene avanzano con la lentezza dovuta alla resistenza islamista, campi minati e kamikaze: si parla di almeno due settimane per entrare in città e due mesi per liberarla.

Intanto crescono le tensioni intorno alle milizie sciite: Washington – su spinta della Turchia – ieri ha ribadito di non volersi coordinare con loro, sebbene operino sotto l’ombrello governativo. I gruppi più potenti si difendono: non cerchiamo vendetta sui sunniti, dicono. Ma i timori peggiori si concentrano sulla fuga dei miliziani Isis verso la Siria.

«La fase militare è la più semplice, molto più complessa quella politica. Dipenderà da come ogni parte proverà a consolidare la propria agenda». Salah al-Nasrawi, editorialista iracheno di Al-Ahram, Bbc e Ap, guarda a Mosul con pessimismo. Ha tracciato per il manifesto una mappa dei soggetti che combattono e dei loro interessi.

Chi si trova oggi sul campo di battaglia?

Le forze che partecipano all’operazione sono distinguibili in due categorie: irachene e straniere. Sul lato interno ci sono le forze di sicurezza governative – esercito, polizia federale e unità speciali di contro-terrorismo – a cui si affiancano le milizie sciite, le Unità di Mobilitazione Popolare. Sono in teoria sotto Baghdad e il suo comandante in capo, ma nella pratica hanno la loro agenda e potrebbero sorprenderci in futuro. All’interno di queste milizie non ci sono solo sciiti ma anche unità turkmene e cristiane come la Brigata Babilonia, gruppo caldeo. Si tratta di soggetti che intendono tornare nelle zone intorno Mosul a maggioranza cristiana o sciita, comunità sradicate da Daesh.

Spostandoci nel Kurdistan iracheno abbiamo i peshmerga, non certo un blocco unico: alcune unità sono sotto il Kdp (il partito del presidente Barzani), altre sotto il Puk (la fazione avversaria di Talabani) e altre ancora nate all’interno del Puk ma da cui si sono scisse. E poi migliaia di peshmerga “indipendenti”, per lo più presenti al confine con la Siria e a Sinjar, che hanno legami con i kurdi siriani, con piani diversi: rifondare il Kurdistan storico.

Sul piano internazionale c’è la coalizione a guida Usa, con alcuni paesi particolarmente attivi come gli stessi Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Francia, la Germania, l’Italia – presente nella diga di Mosul – e l’Australia. Il comando congiunto è a Erbil e da lì si coordina con Baghdad e Erbil.

E poi c’è la Turchia.

Ankara è il principale ostacolo perché non intende coordinarsi con il governo iracheno ma solo con Barzani e le tribù sunnite che addestra da tempo. Non vuole andarsene dall’Iraq, sulla base di quelli che chiama “diritti storici” su Mosul. Una narrativa pericolosa: altri potrebbero usarla per rivendicare territori, come l’Iran. L’insistenza turca si fonda sull’obiettivo di impedire la nascita di un grande Kurdistan: mantenendo truppe a Bashiqa e Mosul, creerà una situazione simile al nord della Siria anche grazie all’eventuale sostegno sunnita e turkmeno.

Tanti attori, tante agende: un conflitto nel fronte anti-Isis è probabile?

La mappa che abbiamo disegnato lo spiega bene: ognuno di questi soggetti combatte nello stesso luogo ma con obiettivi opposti. Senza coordinamento sul futuro di Mosul e dell’Iraq è probabile che a breve si combattano tra loro. Manca un piano politico: si parla di riconciliazione ma emerge solo disgregazione. Il governo iracheno e l’Iran, dopo aver investito denaro, energie e sangue, intendono riprendere Mosul, evitare la divisione del paese e sradicare non solo l’Isis ma tutti i gruppi estremisti sunniti per ricreare un asse sciita solido. Turchia e Usa puntano all’opposto. E Erbil vuole salvaguardare la sua autonomia e magari tramutarla in indipendenza.

Mosul non è la fine del conflitto, ma l’inizio. Un inizio reso peggiore da eventuali abusi sui civili sunniti e dalla fuga dalla città di migliaia di miliziani islamisti. Dove andranno? Le speculazioni sono molte: rapporti credibili parlano di un probabile ritorno dei foreign fighters ai paesi di origine attraverso la Turchia, da cui sono anche entrati. Erdogan gli ha permesso di entrare ed è possibile che ora gli copra la fuga, con un’Europa che non sa costringere Ankara ad un accordo in merito.

Come si inserisce in tale contesto la questione energetica?

Russia e Turchia hanno firmato da poco un accordo sul Turkish Stream, con un’intera regione che va da Cipro a Israele fino al Qatar che compete per vendere risorse energetiche. Senza accesso al mercato europeo, alcuni attori potrebbero interferire per ritagliarsi il proprio pezzo di export. Senza dimenticare l’Iran che rende la competizione ancora più stringente. Il conflitto non riguarderà solo il gas ma anche il controllo del territorio all’interno del quale le condutture correranno, in direzione Europa.

Sullo sfondo sta la graduale e incessante disgregazione degli Stati-nazione. Guardate a Erbil: ha assunto il controllo di porzioni di territorio che non intende dare indietro. O ascoltate Erdogan: martedì ha di nuovo parlato del suo piano B, restare a tempo indeterminato in Iraq su “invito” del Kurdistan iracheno. Questo creerebbe una nuova realtà sul terreno e porterebbe all’ufficiosa ma forse definitiva divisione dell’Iraq. Un paese che non vedrà stabilità e pace per anni. Forse l’obiettivo statunitense: dopotutto Obama non ha fatto che proseguire la via tracciata da Bush.

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