Indubbiamente il 21 ed il 22 Ottobre, con la convocazione dello sciopero generale e del No Renzi Day, rappresentano il primo momento di mobilitazione generale contro la riforma costituzionale proposta da Renzi e Napolitano ed in diretta contrapposizione con la mobilitazione per il SI prevista per il 29 Ottobre.
Le due giornate di mobilitazione non sono state promosse dal comitato per il NO, nonostante tramite la raccolta delle firme si fosse mobilitato per il pronunciamento referendario. La sua debolezza è stata però messa in evidenza dall'incapacità di raggiungere il numero di firme necessario per indurre un referendum di iniziativa popolare su un argomento, quello costituzionale, che comunque prevede, in base alle procedure costituzionali, il referendum, indetto poi dal governo per il 4 Dicembre.
E’ importante che la doppia mobilitazione sia stata promossa da un cartello, il “Coordinamento per il NO sociale”, nato su proposta della Piattaforma Sociale Eurostop alla quale hanno via via risposto positivamente – oltre a noi della RdC – forze sindacali come l’USB, l’USI e l’UNICOBAS, alle quali si sono poi aggiunte in modo autonomo il SICOBAS e l’ADL, e poi molti comitati territoriali, sociali, collettivi studenteschi, popolari e praticamente tutto lo schieramento politico della sinistra e dei partiti comunisti esistente oggi in Italia. Dunque quella che si prospetta è una mobilitazione articolata su due giorni, rappresentativa dell’opposizione sociale e politica del paese che intende dire no a Renzi ed ai suoi progetti reazionari.
Ma se il significato fosse solo questo, ridurremmo la mobilitazione ad un momento specifico, al solito “evento”, cosa che non ci permetterebbe di cogliere il perché è stato possibile arrivare ad un risultato abbastanza inedito, in cui sia la mobilitazione sindacale che quella sociale e politica sono riuscite a trovare un momento di unità abbastanza inusuale per la cultura politica di questo paese.
In realtà è il passaggio referendario che fa emergere obiettivamente un processo di politicizzazione delle contraddizioni in atto da tempo, ma che fino ad ora non ha trovato l’occasione di esprimersi in modo compiuto. Questo processo nasce direttamente dall’incedere della crisi che rende sempre più inesistenti i margini di trattativa e di mediazione sociale e dunque tende a far esprimere sul piano politico quello che non riesce più a manifestarsi sul piano sociale e sindacale.
Questa dinamica spiega anche perché si manifesta una divaricazione apparente tra la sostanziale stagnazione del conflitto e la spinta a votare forze cosiddette populiste quali il M5S con un voto di opposizione politica chiaro. Questa è per tutti è una condizione nuova – e non solo in Italia – che apre spazi ma che vede anche competitori pericolosi quali la destra estrema o la stessa Lega, una competizione che dunque ci obbliga ad una battaglia di egemonia che è ormai parte integrante della lotta sociale e politica che facciamo quotidianamente.
Il 21 ed il 22 ottobre si pongono esattamente su questo piano, ossia il piano in cui il conflitto sociale e quello politico devono fare i conti per forza in modo unitario con chi intende stravolgere le relazioni ed i rapporti di forza nella società a favore delle classi dominanti, trascinate a loro volta da una crisi alla quale non riescono a trovare risposte reali.
C’è inoltre un altro significato implicito in questa mobilitazione e nella prossima scadenza referendaria, è quello che si manifesta indirettamente nelle dichiarazioni di esponenti governativi che sottolineano la differenza tra il nostro referendum e quello della Brexit, cercando così di esorcizzare un fantasma che hanno invece ben presente. Poiché la riforma proposta nasce dai processi di centralizzazione decisionale nell’Unione Europea, necessaria a sostenere una competizione mondiale sempre più feroce, il rifiuto delle riforme proposte e sottoposte a giudizio popolare il 4 Dicembre implicitamente rappresentano un NO di fatto ai caratteri della costruzione dell’Unione Europea. Dunque il nostro referendum in realtà è in linea diretta con il pronunciamento popolare britannico e pone alla sinistra, ed ai comunisti soprattutto, il problema di dare un giudizio su questa dimensione istituzionale europea che sta svelando sempre più la sua natura reazionaria, antipopolare, irriformabile.
Continuiamo invece a sentir parlare di un’altra Europa, dell’Europa dei popoli etc. Ci sembra ormai che questo approccio sia assolutamente inadeguato, in quanto quella che si sta costruendo e affermando – vedi la proposta di esercito europeo – è una entità a carattere imperialista (anche se non ancora nelle forme statuali a noi note fino ad oggi). D’altra parte che l’Unione Europea sia affatto “l’Europa”, viene ormai smentito dai fatti, in quanto ad Ovest il Regno Unito è uscito dopo il pronunciamento sulla Brexit ed ad Est la Russia, oltre ad altri paesi, non è certo interlocutrice del processo unitario, nonostante questo paese sia grande e certamente europeo, fino a prova contraria.
Si ripropone dunque una questione antica e moderna che crea seri problemi al movimento di classe e comunista, ovvero la necessità di lottare anche contro il proprio imperialismo. Pensare che l’unico imperialismo, inteso da noi in senso leninista, sia quello americano e che una politica “campista” sia quella adeguata alle condizioni attuali, è un errore strategico che non fa vedere la dimensione reale delle relazioni internazionali e nemmeno i rapporti di classe dentro il polo imperialista europeo, correndo il rischio di subordinare gli interessi di classe ad una entità rappresentata idealisticamente in modo ben diverso dai processi reali in atto.
Questa è per noi la mobilitazione del 21 e del 22 Ottobre, con la coscienza che il passaggio da fare adesso è sconfiggere Renzi e Napolitano al referendum del 4 dicembre, ma che la battaglia deve continuare per rompere l’Unione Europea che rappresenta la malattia da sconfiggere e non la cura come ci viene detto continuamente.
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