Domenica scorsa nelle principali città d’Italia si sono svolte, nel
silenzio generale, le elezioni “di secondo grado” delle ex province
trasformatesi ora in “Consigli delle città metropolitane”, in
ottemperanza alle disposizioni della Legge Delrio (Legge n.56 del 7
aprile 2014) che disciplina il nuovo ordinamento. Ma l’evento contiene,
su scala locale, gli elementi essenziali di una “restaurazione
oligarchica” sempre meno mascherata (anzi addirittura rivendicata come connaturata alla democrazia:
siamo evidentemente alla demenza senile). La strombazzata “abolizione
delle provincie” ha prodotto il paradosso per cui queste continuano a
sopravvivere, con compiti specifici e consiglieri preposti e nominati,
ma non più elette dal popolo. Il
restringimento radicale, con leggi elettorali oligarchiche, di ogni
forma di rappresentanza politica in tutti i gradi dell’ordinamento
istituzionale, racchiude forma e sostanza di questo processo immane di
restaurazione per cui il ceto politico vota se stesso, descrivendo
questa involuzione democratica come “abolizione dei costi della
politica”, o addirittura “snellimento burocratico”, senza sprezzo del
ridicolo. Anzi, sfruttando pessime e ambigue retoriche altrui per
raccattare qualche voto, complice l’assoluta alienazione del corpo
elettorale.
Nel nostro paese questa restaurazione viene da molto lontano, almeno
trent’anni, e trova la sua spinta propulsiva dalle scorie lasciate sul
campo della politica da Tangentopoli. L’avvento della cosiddetta
“Seconda Repubblica”, sostanziata dallo svuotamento del ruolo del
Parlamento, dal presidenzialismo di fatto, dalla decretazione d’urgenza,
e condita dalla riforma elettorale in senso maggioritario, chiude
un’epoca e ne apre una volta al restringimento di ogni possibile
rappresentanza. Le modifiche istituzionali esprimevano la sintesi
formale di una restaurazione economica con il preciso obiettivo di
restringere gli spazi “sovradimensionati” della rappresentanza, sempre
più di ostacolo ai movimenti del capitale trans-nazionale, nonché delle
nuove forme di governance sovranazionale che si andavano in quegli anni
perfezionando. Queste le premesse dell’attuale tentativo di revisione
costituzionale ed elettorale di Renzi.
La retorica della casta politica che sprecava soldi pubblici si è
tramutata nell’autoelezione di ceti sempre più ristretti di dirigenti
locali, nella completa autoreferenzialità di una classe politica che
intende l’idea di rappresentanza come appendice fastidiosa nel governo
economico di popolazione e territorio. Questo “piccolo” fatto, passato
inosservato, è solo un’anteprima di quello che ci attende dopo il 4
dicembre nella malaugurata ipotesi di una vittoria dei Si.
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