La Resistenza italiana, inserita nel contesto della Resistenza Europea, è stata animata da un moto di popolo che ha contrastato ribellandosi l’invasione nazi – fascista tra il 1943 e il 1945. I partiti politici, costituitisi in CLN, hanno diretto la Resistenza organizzando formazioni militari ad essi legate. I comunisti furono egemoni nelle Brigate d’assalto Garibaldi che pure comprendevano anche partigiani di matrice socialista e laica (questi presenti pure nelle formazioni di Giustizia e Libertà collegate con il Partito d’Azione). L’ANPI che nasce nell’immediato dopoguerra come espressione unitaria del movimento resistenziale si è successivamente scissa a seguito delle vicende legate alla guerra fredda e allo svilupparsi del sistema politico italiano negli ultimi anni ’40 trasformandosi sostanzialmente nell’espressione dei partigiani garibaldini. Esisteva quindi un legame ideologico e politico con i partiti di sinistra e, prevalentemente, con il PCI nella linea del collateralismo (si pensi anche al concetto di “cinghia di trasmissione”). Questo meccanismo si è modificato nel tempo ed ha evidentemente concluso la sua funzione quando il PCI ha esaurito la propria presenza all’interno del sistema politico italiano così come si cerca sinteticamente di spiegare nel testo.
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La posizione assunta dall’ANPI nel merito del NO nel referendum confermativo sulle deformazioni costituzionali ha assunto un grande rilievo mediatico a causa della assolutamente spropositata reazione da parte della maggioranza del PD e, in particolare, da parte del “giglio magico” renziano che si è sentito, evidentemente, toccato sul vivo.
Si è partiti dalle scomuniche pronunciate dal ministro Boschi (erede di una famiglia esponente di Banca Etruria, l’istituto di credito di cui era “cliente” Licio Gelli) che ha voluto distinguere tra “partigiani veri” e altri (evidentemente falsi), proseguendo fino alle polemiche di queste ore sugli spazi riguardanti la partecipazione dell’ANPI alle Feste dell’Unità.
A parte l’usurpazione da parte del PD della testata del giornale che fu “organo del Partito Comunista Italiano” e della relativa insegna riguardante le feste (che all’inizio si denominavano “Settembrata”: la prima a Mariano Comense nel 1945) si ravvedono nodi politici molto complessi da sciogliere.
Il primo riguarda l’assoluto equivoco riguardante l’appartenenza del PD alla sinistra e al filone per così dire “ereditario” del PCI.
Non esiste, se non nella propaganda di destra a suo tempo ben alimentata da Berlusconi, alcun PCI – PDS – DS – PD.
Il nodo per la gran parte dell’ANPI è proprio quello del rapporto con la storia originale e specifica del PCI.
Deve essere smentito un primo dato: la storia del PCI chiude ben prima di Rimini 1991, nel corso del confronto politico tra il SI e il No (ancora una volta il Si e il No fatali nella storia politica d’Italia).
La storia politica del PCI si chiude senza eredi alla fine di settembre del 1990 col convegno di Arco nel corso del quale il gruppo dirigente della mozione del NO (presenti altri esponenti dell’area comunista italiana dal Manifesto a Democrazia Proletaria) si divise, non tanto sul tema dei contenuti (tutti a parole parvero riconoscersi nella relazione svolta da Lucio Magri “Il nome delle cose”) ma essenzialmente sulla prospettiva organizzativa attraverso il confronto tra la posizione “scissionista” di Cossutta e Garavini, e quella dello “stare nel gorgo” portata avanti da Ingrao.
Ne sortì una specie di “inanità politica” e soprattutto di distacco verticale non tanto verso la base ma verso il concetto stesso di radicamento nella rappresentanza e di pedagogia politica che avevano contraddistinto peculiarmente la vita del “partito nuovo” togliattiano e successive modificazioni (nonostante passaggi difficili anche di rottura avvenuti nel tempo, dall’indimenticabile ’56 alla questione del Manifesto).
Fu quello il punto di rottura del PCI e non ci furono eredi di alcun tipo: si proseguì in una sorta di colossale equivoco.
Un equivoco che nessuno ha avuto il coraggio di affrontare fino in fondo: forse paradossalmente l’unico elemento di eredità vera lasciato dall’antico PCI è stato quello di una delle sue parti peggiori quello del tatticismo della “doppiezza”. “Doppiezza” che pure nella visione togliattiana, ben corroborata teoricamente dalle note gramsciane su Machiavelli, disponeva di una sua profondità politica nel legarsi alla necessità della legittimazione nazionale del partito, ma che nei suoi successori aveva assunto soltanto l’aspetto dell’espediente e come tale fu utilizzata anche nel momento dello scioglimento del Partito, del quale fu contrabbandata una improbabile “trasformazione”. In realtà la caduta del Muro c’entrava ben poco, prevaleva la paura della sottrazione del potere e l’idea di aver trovato una scorciatoia utile per arrivare all’agognato “governo”.
Rifondazione Comunista ha terminato presto il suo percorso politico trasformandosi in un drammatico impasto tra movimentismo e governativismo in particolare originando l’esistenza di un ceto politico locale legato a opzioni di potere di profilo almeno mediocre.
Il PDS – DS sorto sulla base della convinzione che si sarebbe realizzato “lo sblocco del sistema politico” asserzione dalla quale è originata (in questo sì che si ritrova una continuità con il SI alla Bolognina) la cosiddetta “vocazione maggioritaria”, ha continuato a usare una certa simbologia attinta dal passato semplicemente per ragioni di esercizio del potere laddove questo era stato esercitato con continuità anche nel passato: non a caso, per tornare all’attualità, le maggiori reazioni all’interno dell’ANPI arrivano dall’Emilia Romagna e dalla Toscana dove esisteva un vero e proprio sistema di potere che, esclusivamente sotto quest’aspetto, è parzialmente transitato dal PCI al PDS, poi DS e – ancor più parzialmente nel PD.
Sì aprì in quel momento un evidentemente ancora irrisolto problema riguardante il collateralismo relativo alla CGIL (per la quale era stato attuato per decenni un rapporto basato sul concetto di “cinghia di trasmissione” che valeva sia per la componente comunista, sia per quella socialista) e la serie di associazioni che consentivano, con la loro organizzazione, al PCI di essere presente in tutti i gangli della società italiana. Un sistema di collateralismo che, in parallelo all’organicità di relazione con il partito di determinati settori dell’intellettualità, dell’informazione, dell’economia cooperativa, del mondo bancario come nel caso dell’MPS e delle assicurazioni, ha composto una galassia della quale è necessario, con il massimo dell’onestà intellettuale, riconoscere il parziale permanere almeno nelle regioni nelle quali il PD ha mantenuto un forte potere (niente a che vedere, ovviamente, con il concetto gramsciano di egemonia proprio perché fondato su di un mix di potere economico, clientelismo, indirizzo di risorse pubbliche attraverso gli Enti Locali).
Un rapporto di collateralismo di cui l’ANPI ha fatto per decenni oggettivamente parte, e che ha composto un pezzo non secondario di quel “puzzle” dell’equivoco che si sta cercando di analizzare nella sua realtà.
La memoria della Resistenza è sempre stata fattore di identità per la parte più avanzata e progressista del Paese (ben al di là delle strumentali accuse rivolte ai comunisti di volerla acquisire “in toto”) e, in questo, si è realizzata proprio quella “continuità dell’equivoco” che oggi viene allo scoperto rivelando l’esistenza di una drammatica frattura culturale e politica.
Pigrizia intellettuale derivante dallo smarrimento dei connotati ideali e convenienze elettorali hanno alimentato nel tempo questo equivoco gigantesco fino a quando ci si è accorti che un partito a vocazione maggioritaria non poteva che essere un partito contendibile.
L’equivoco restò possibile anche nella prima fase della colpevole e sciagurata scelta delle primarie.
Primarie che parevano destinate soltanto a suffragare l’esito voluto dalle proposte elaborate dal gruppo dirigente e, in una fase di smarrimento della realtà organizzativa, a contrabbandare un presunto disegno di allargamento della partecipazione democratica (nel frattempo tutti facevano finta di non accorgersi che la vera partecipazione democratica scendeva precipitosamente di peso, in coincidenza con una caduta verticale nei numeri delle espressioni di voto).
Invece le primarie (con buona pace di chi le ha utilizzate e praticate pensando a uno strumento di “sinistra”, com’è capitato ai Sindaci cosiddetti “arancioni”) hanno rappresentato il veicolo attraverso il quale cordate di avventuristi improvvisatori hanno accortamente scalato ciò che rimaneva di un partito improvvisamente fusosi con i residui del correntismo democristiano (ben provvisto di pericolose ramificazioni periferiche di potere).
Si è così arrivati alla “resistibile ascesa” di Renzi e all’attacco diretto alla Costituzione Repubblicana quale corollario indispensabile al mutamento d’asse complessivo del nostro sistema politico in senso autoritario personalistico in linea con la torsione antidemocratica sviluppatasi in ambito internazionale a partire dall’affermarsi del reaganian-tachterismo e della prevalenza del tecnicismo economico sulla politica.
Il vero punto di continuità attuato dal “Giglio Magico” renziano è stato, nello specifico della vicenda italiana, con l’operazione demolitrice della democrazia avviata con il referendum Segni – Occhetto del 1993 e con il successivo avvento di Berlusconi e della destra, con il “capolavoro” della doppia alleanza nelle elezioni del 1994.
In precedenza si era già realizzata l’adesione al trattato di Maastricht: altra scelta sbagliata così come è stata acriticamente compiuta e attuata, gravida di conseguenze negative.
Il resto è stato tutto in discesa: la soluzione di continuità con la storia del PCI si è ben vista, nel corso del ventennio nel quale si è comunque realizzata, è bene ricordarlo, l’alternanza al governo.
L’alternanza al governo non ha però significato un dato di alternanza al potere.
Il potere “vero” in questo Paese e in rapporto con l’Europa è rimasto ben saldo nella disponibilità del consociativismo ex-CAF che ha sempre accomunato i centri del potere di questo paese, in particolare quelli finanziari in rapporto con l’Europa dei banchieri, la cui ispirazione politica è stata rappresentata dal documento di Rinascita Nazionale elaborato dalla P2 nel 1975, del quale si trovano consistenti elementi nell’idea di struttura istituzionale che presiede alle deformazioni costituzionali oggetto del prossimo referendum confermativo.
Ed è con questo tipo di potere che ha dovuto faticosamente mediare lo schieramento di centrosinistra una volta arrivato al governo (1996, Prodi – D’Alema – Amato; 2006, Prodi): una mediazione al ribasso che ha causato un cedimento di terreno avvenuto nel quadro di una situazione internazionale agita in funzione, dopo il dissolvimento dell’URSS, della sola superpotenza “gendarme del mondo” e delle reazioni a questo fenomeno che ha generato, guerre, terrorismo, impoverimento globale.
Gli esponenti di storia ex PCI rimasti nel PD, al di là di deplorevoli e immorali episodi di trasformismo soggettivo che pure ci sono stati, hanno portato avanti opzioni che nulla avevano a che fare con le storiche ragioni politiche dalle quali provenivano per ragioni anagrafiche: a testimonianza di questa affermazione di totale discontinuità stanno tentativi di riforme costituzionali fondate sul semipresidenzialismo, il sostegno a leggi elettorali maggioritarie, la partecipazione ai bombardamenti della NATO, le sciagurate privatizzazioni dei principali soggetti economici di utilità pubblica (energia elettrica, telefonia, autostrade, ferrovie, servizi pubblici essenziali attraverso gli Enti Locali), l’adozione di un modello di presunto “federalismo” nel rapporto tra Stato centrale e sistema delle autonomie locali adottato aderendo sostanzialmente a modelli pseudo – culturali basati su arroccamenti identitari mai esistiti (riti celtici, ampolle con l’acqua del Po', Padania) e modificando in questo addirittura la Costituzione, modificando ancora il rapporto tra i cittadini e la pubblica amministrazione rendendo questa ancor più inaccessibile e lontana dalle vere esigenze di base.
Adesso che i nodi vengono al pettine e che si propone la fuoriuscita anche formale dal sistema di democrazia Parlamentare voluto dalla Costituzione Repubblicana sinceri democratici hanno (finalmente) avvertito il pericolo ormai ben più che incombente.
Nel referendum (del quale non si conosce ancora la data di svolgimento) è in gioco la forma stessa dello Stato democratico, pur nell’accettazione della sua versione sostanzialmente liberale.
La stragrande maggioranza dell’ANPI ha saputo riconoscere, sia pure in ritardo, la realtà della posta in gioco e si è opportunamente schierata per il NO alle deformazioni proposte.
Insistere però nel contestare al PD un’appartenenza politica di affinità con un certo tipo di storia legata alla sinistra e al movimento operaio italiano, risulta alla fine costituire un dato dannoso per la necessaria identità di un NO che appartenga per intero a questa storia (considerato anche che di NO ce ne saranno di parecchi tipi, soprattutto legati a opportunistiche convenienze legate al momento politico).
Il PD è totalmente fuori da questa storia, anzi ne rappresenta l’esatto contrario nel senso di un pericoloso trasformismo.
Il PD e queste “Feste dell’Unità”, questo schieramento del “SI”, non c’entrano proprio nulla con il mantenimento della memoria della Resistenza Italiana e lo sviluppo possibile della democrazia repubblicana ed esprimono nella loro azione politica e organizzativa l’impasto di arrivismo e avventurismo che contraddistinguono pericolosamente questa fase della storia d’Italia.
Sicuramente il PD nell’esprimere questo impasto di arrivismo e avventurismo non è da solo all’interno del sistema politico italiano: basta guardarsi attorno con attenzione.
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