Intervista ad Alberto Garzón, coordinatore federale di Izquierda Unida e co-portavoce di Unidos Podemos, pubblicata il 3 agosto su “El confidencial”
Garzón è chiamato a esercitare un ruolo fondamentale non solo nella “nuova IU”, ma anche nell’appena nata “Unidos Podemos”. Conversiamo con lui riguardo a queste sfide e intenzioni.
La sinistra sta attraversando un momento paradossale. Dispone di una rappresentanza parlamentare che fino a quattro anni fa neppure si sognava, un partito come Podemos si è trasformato in una forza enormemente popolare e i prossimi tempi, che promettono di essere duri, potrebbero favorire la sua crescita. Ma, al tempo stesso, ci sono molti segni che mostrano come questo momento di auge potrebbe terminare presto. L’alleanza di sinistra è formata da un gran numero di gruppi con interessi differenti, il che renderà alcuni accordi complicati, ci sono troppe tensioni interne e le loro prospettive sulla direzione da prendere per questo fronte a volte sono troppo divergenti. Inoltre, le notizie che arrivano dall’Europa sottolineano che l’estrema destra sta guadagnando una presenza enorme, mentre la sinistra appare sempre più debole, in parte perché i suoi ragionamenti hanno smesso da tempo di fare presa sulle classi popolari e sul ceto medio impoverito, gli spazi politici che durante il XX secolo le appartenevano.
In questo contesto, Alberto Garzón (Logroño, 1985) è chiamato a giocare un ruolo fondamentale. Non solo in quanto leader di Izquierda Unida, ma anche in qualità di principale promotore, all’interno di Unidos Podemos, di una linea che dia centralità ai messaggi materiali, alla vicinanza alla gente e al recupero dei quartieri popolari. Conversiamo con lui riguardo a queste sfide e intenzioni.
DOMANDA. Quale dev’essere il ruolo di Izquierda Unida all’interno di Unidos Podemos e come deve strutturarsi questo agglomerato di forze progressiste?
RISPOSTA. Crediamo che attualmente ciò che serve è uno spazio politico che definiamo di sinistra, che sappia instaurare una connessione con le classi popolari, con quelle che soffrono maggiormente la crisi e le conseguenze del capitalismo. Occorre un movimento politico e sociale, non un macchinario elettorale, che entri nel tessuto sociale, nei conflitti riguardanti il lavoro e in quelli sociali, e questo è ciò che vogliamo costruire. All’interno di Izquierda Unida abbiamo approvato una road map che prevede il superamento di Izquierda Unida tramite la costruzione di un movimento politico e sociale con queste caratteristiche. Si costruisce con altri soggetti che dipendono dalle stesse dinamiche. Se Podemos vuole partecipare e gli sembra opportuno dovremo incontrarci per la costruzione di questo spazio politico. Abbiamo qualcosa di embrionale, cioè una coalizione elettorale creata in fretta, poco prima delle elezioni anticipate, che ha avuto difetti ma ha funzionato. Servono dibattiti congiunti per arrivare, per dirla con Gramsci, a un blocco storico.
D. Questo spazio sarà molto difficile da gestire. Non solo perché al suo interno convivono gruppi, come IU, che hanno non solo una propria struttura e una propria direzione, ma anche prospettive diverse. Il loro interesse per le questioni sociali può collidere, per esempio, con altri gruppi che pongono l’accento su questioni identitarie, come i nazionalisti.
R. In questo spazio politico eterogeneo di identità nazionale uno degli elementi che bisogna saper gestire è quello delle tradizioni politiche di provenienza. Persino Iñigo Errejón, la cui tradizione politica è differente, concorda sulla necessità di procedere verso l’organizzazione del tessuto sociale. Bisogna comprendere i cambiamenti internazionali che stanno avendo luogo. Poco tempo fa Dani Rodrik ha pubblicato un articolo che evidenziava come la sinistra si stesse mostrando incapace di confrontarsi con quest’estrema destra che sta attirando verso di sé i figli dei comunisti. Il figlio di un operaio francese della grande industria in quest’epoca di deindustrializzazione cade nelle grinfie di Marine Le Pen. Di fronte alla diminuzione dei salari e agli sfratti, dobbiamo controbattere tutto ciò offrendo protezione e sicurezza da un punto di vista civile. E su questo siamo tutti d’accordo, da IU ad Anova ad En comú podem, indipendentemente dal fatto che ci siano differenze notevoli riguardo altri aspetti.
D. Ma se l’estrema destra ha ottenuto il consenso dei figli delle classi popolari è perché in qualcosa la sinistra ha sbagliato, perché quello era un terreno che le apparteneva. Anche a Madrid il PP ha vinto nei quartieri più disagiati. Il che sottolinea come non solo ci sia qualcosa che non ha saputo fare, ma che bisogna fare qualcosa per recuperare ciò che è stato perso. E in questo senso non si vedono molte idee chiare.
R. La sinistra, nonostante fosse la sua tradizione politica, ha smesso di fare analisi per capire come si comportano le classi sociali. Gli studi demoscopici dimostrano che il profilo dell’elettore di IU e della sinistra anticapitalista in Europa è stato, praticamente, e lo dico senza generalizzare, il profilo di un membro della classe media istruita, mentre le classi più popolari non sostenevano il progetto politico che offriva la sinistra. Noi di Podemos e IU mettiamo in evidenza aspetti differenti di questo fatto. Per noi, il problema è stata l’istituzionalizzazione, nella tradizione politica dell’eurocomunismo, che aveva accettato il regime in vigore dal 1978 come il migliore possibile, ragion per cui il partito dedicava energia e risorse alla propria istituzione e restava scollegato da una società che stava cambiando. Il sistema politico nei suoi tratti essenziali si è mantenuto stabile ma la società spagnola è cambiata molto, in termini di struttura produttiva e di classe. Podemos sottolinea, in maniera azzeccata, il fatto che la sinistra faccia politica in maniera banale, mentre l’estrema destra fa politica aggressiva, come dice Zizek. La società, in un momento di crisi, abbraccia posizioni che le risultano allettanti perché offrono protezione. Il nocciolo di questa situazione lo segnalava già Karl Polanyi, affermando che nel momento in cui il mercato avanza come criterio centrale della vita e quando la redditività si impone nelle imprese, ma anche nella sanità e nell’educazione, si elimina ogni speranza nel futuro. La gente cerca di mettersi al riparo e lo fa affidandosi al fascismo o al socialismo. È lì che sta la battaglia politica. In Europa il livello di frustrazione e rassegnazione è talmente alto che la questione è chi lo saprà canalizzare, se lo farà l’estrema destra che promette protezione dai migranti e dalla globalizzazione, o la sinistra. È la battaglia cruciale in questo momento. Questi sono gli elementi da cui partire per armare un blocco storico che ci permetta di entrare nel tessuto sociale. Chiaramente è più facile dirlo che farlo, perché questo richiede organizzazioni capaci di schierarsi nel territorio.
D. L’analisi di classe che lei fa si scontra frontalmente col populismo di sinistra che ha caratterizzato l’“ipotesi Podemos” e il suo sforzo di trasformarsi in una forza trasversale.
Ho avuto un dibattito a Lavapiés con Pablo Iglesias, nella sala Mirador, prima che Podemos diventasse un fenomeno elettorale. Abbiamo discusso di come fermare l’estrema destra, perché il fenomeno Le Pen esiste da un po’ di tempo. Pablo insisteva sull’aspetto emozionale per attirare in questi settori, mentre io insistevo nella costruzione del popolo. Se si costruisce e come. Se sono comunità immaginate, come direbbe Anderson, come si costruisce? Solo dalle istituzioni, solo discorsivamente, in funzione di quanto sei abile a evitare le etichette connotate negativamente? Si può costruire un popolo solo così o nella pratica è più facile convincere la gente di un progetto politico? Quando sei nel conflitto sociale, quando sei con loro cercando di aiutarli affinché non abbassino loro il salario, allora importa la strategia discorsiva, “fermo lo sfratto perché è ingiusto che una banca sfrutti la gente comune”, e non per il plusvalore. Bisogna strutturare un buon ragionamento, ma dobbiamo anche avere un’organizzazione nel conflitto tra classi, all’interno della struttura produttiva. Il falso problema sta tra costruire la sinistra o costruire il popolo, ma noi vogliamo anche essere il popolo, perché si costruisce nella prassi. Abbiamo bisogno di un’organizzazione capace di stare nel conflitto sociale per raccogliere più gente per auto-organizzarci e qui le etichette si sbiadiscono. In accademia è più facile distinguere il populismo dalla preparazione politica, ma nella strada è più difficile. Alla fine uno ascolta quel che dicono il PP e il PSOE e ascolta le stesse logiche.
D. Ho la sensazione che la sinistra non abbia saputo capire che cosa sta accadendo in una società che è cambiata sostanzialmente, e che per questo non sa bene che offrire. Podemos credeva di essere capace di ricomporre questo con significanti ed emozioni. Ma se non hai una lettura concreta di quello che sta accadendo adesso, qualcuno offrirà sicuramente una formula migliore della tua.
R. Uno dei punti deboli della sinistra consisteva nel fatto che una volta le organizzazioni erano strutturate senza pensare in termini elettorali. Un esempio: il PCE durante la dittatura logicamente non pensava alle elezioni, l’organizzazione era strutturata in maniera diversa e le assemblee si organizzavano settorialmente. Ora si organizzano in funzione delle circoscrizioni e dei distretti e questo ha rotto molto lo spazio organico che esisteva in IU e nel PCE, e ha influenzato molto l’azione degli intellettuali. La Spagna non ha avuto intellettuali di sinistra noti, o che si siano dedicati a riflettere su questa realtà. Trotsky, Lenin e Bucharin lo erano per il partito comunista sovietico, Sartre e Althusser per quello francese e Gramsci per quello italiano. In Spagna, se si escludono Manuel Sacristán o Francisco Fernández Buey, non abbiamo potuto contare su di loro. Non c’è stato spazio per riflettere. Ed è importante, perché per agire nella realtà hai bisogno di una mappa, e quest’ultima è una buona diagnosi in termini storici. Oggi siamo in una nuova fase del capitalismo diversa da quella keynesiana, perché non c’è lavoro fisso, non c’è stabilità, non c’è copertura per i diritti dei lavoratori e i giovani non hanno neppure la speranza di ricevere una pensione.
D. È incredibile come si sia persa ogni speranza nel futuro.
R. Questo è penetrato nella coscienza della gente perché si è rotta la linearità progressiva della modernità, quest’idea secondo la quale la storia fosse un continuo miglioramento. Ora sappiamo che non vivremo meglio dei nostri genitori, e che il socialismo non viene automaticamente dopo il capitalismo. Tutto questo ha influenzato la nostra vita e la sinistra non l’ha analizzato. Lo hanno fatto accademici nell’università ma senza connessioni con le organizzazioni politiche. Adesso stiamo cambiando approccio ma siamo molto in ritardo. La destra ha molto ben chiaro l’ordine sociale che vuole, e come compiere questo salto verso l’ordine che vuole a partire da quello attuale, mentre noi siamo ancora fermi alle mozioni parlamentari.
D. Neppure le lotte settoriali del PCE prima del salto elettorale avrebbero senso nell’era postindustriale, in un modo del lavoro con delle frontiere sempre più vaghe. Questa nuova prassi di cui sta parlando si sta circoscrivendo alle lotte municipali. È questa la via da seguire?
R. Le lotte municipali sono spazi di resistenza, non di costruzione, perché hanno delle limitazioni pazzesche, collegate alle strutture economiche e che hanno a che fare con le competenze. Sánchez Mato, che è assessore all’economia di Ahora Madrid e che fa parte della direzione di IU, approva un bilancio che aumenta la spesa sociale e riduce il debito, ma è limitato da Montoro (il Ministro delle Finanze e della Pubblica Amministrazione spagnolo, NdT). Lo scontro istituzionale è molto violento e ci sono altre lotte multinazionali che sono capaci di sconfiggere il governo nazionale. Sono d’accordo sul fare un’analisi storica di lungo periodo. Le tesi secondo cui il ciclo elettorale è terminato forse hanno ragione, ma questo non si valuta a partire dal numero di elezioni ma a partire da qualcosa di innovativo che è iniziato con l’irruzione di Podemos e Ciudadanos, ma che ora sembra essersi stabilizzato. Per me è l’espressione di qualcosa di più profondo, che è cominciato dal deterioramento del sistema dei partiti, con il deterioramento delle istituzioni, con un’oligarchia che è stata incapace di gestire la crisi economica.
Le cause che hanno portato al 15-M sono gli stessi problemi che continuano a esistere. La situazione, per quanto riguarda la precarietà e l’occupazione, non è migliorata, anzi, è peggiorata. Il ciclo politico non è migliorato. Errejón ha detto che il ciclo politico è iniziato con il 15-M ed è terminato con il 26-J (le ultime elezioni politiche del 26 giugno, NdT). Non posso concordare su questo, sul fatto che la fine di un ciclo sia segnata da un risultato elettorale. Le condizioni di vita non sono migliorate. Non voglio vedere la politica come Game of Thrones, ma piuttosto come una scacchiera che si muove sotto i nostri piedi. Possiamo vedere le opportunità di una sinistra combattiva, ma con un progetto politico.
D. Al momento di offrire sicurezza e stabilità, il che è una richiesta ovvia, ci sono grandi limitazioni per la sinistra. È evidente che Bruxelles detta le regole e che i programmi economici che impone non sono progressisti. Le Pen, per esempio, ha tratto vantaggio da questo, perché nel suo programma si incontrano misure economiche che favoriscono le classi popolari e medie e che mostrano una grande resistenza a Bruxelles. In termini economici, vedremo una qualche alleanza europea tra la sinistra e questo tipo di destra?
R. La tesi di Polanyi negli anni ’40 sosteneva che l’utopia del mercato autoregolato, questo pensiero secondo cui il criterio della redditività può dominare ogni ambito della vita umana, comportava frustrazione e caos, e portava al radicamento delle persone nella comunità, la qual cosa faceva sì che la gente abbracciasse posizioni politiche che le offrivano protezione. C’erano due opzioni, quella di chi proteggeva sopprimendo la democrazia, o quelle che sopprimevano l’economia, come il socialismo. Oggi siamo di fronte a questioni molto simili. Come allora, l’estrema destra propone misure protezioniste per la sua gente. Ciò che la rende diversa dalla sinistra sono i valori che stanno dietro, la xenofobia, il classismo, il razzismo, e secondo le specificità, sciovinismo e nazionalismo estremi. Ma quando ascolti Marine Le Pen è ovvio che si rivolge a vittime della globalizzazione massacrate dal tentativo di costruire un mercato autoregolato mondiale e che si sentono attratte da chi promette loro che vivranno dignitosamente. Quel che oggi chiedono le classi popolari non è il paradiso ma pane, casa e lavoro. Serve una sinistra che centri questo punto. Ma a fronte di una Marine Le Pen che ha saputo dire le cose in maniera chiara, abbiamo trovato una sinistra contaminata dal socioliberismo e che ha promosso la struttura neoliberista dell’UE, e facendo questo lascia il suo spazio all’estrema destra.
D. Promuovete un nuovo ciclo di mobilitazione e fate appello affinché l’estrema destra non se ne impossessi, ma la macchina elettorale sembra aver assorbito i movimenti sociali. Le organizzazioni che scesero in piazza il 15-M ora sono praticamente disciolte, molti dei loro quadri sono nelle istituzioni e non c’è stato né rinnovamento né cambiamento.
R. Questo è stato argomento di dibattito durante l’ultima assemblea di IU. Il parlamento è uno strumento, ma non è fine a se stesso, così come i municipi. Dobbiamo essere presenti nel tessuto sociale, vediamo un impoverimento dei movimenti sociali, una loro istituzionalizzazione e chi prima organizzava oggi è deputato e chi non lo è, un consulente. Questo si è verificato in maniera naturale, ma dobbiamo fare un passo indietro perché le istituzioni sono solo altoparlanti. En Comú Podem lavora molto bene in quest’ambito, è un soggetto che è movimento politico e sociale. All’interno di IU abbiamo combattuto il carrillismo con 30 anni di ritardo, quella concezione secondo cui le istituzioni sono l’unico mezzo con cui si risolvono i problemi dei cittadini. Essere il conflitto non è la stessa cosa di stare all’interno del conflitto. La nuova organizzazione di IU ora capisce quello che diceva Gramsci, che lo Stato non è un soggetto con una sua ideologia, un complesso di istituzioni di cui puoi prendere possesso e che sono neutrali. Lo Stato è una relazione sociale, o come diceva Jéssop, una correlazione di forze mutevoli. Anche la società civile, la Chiesa e i mezzi di comunicazione sono parte di questa relazione sociale. Non puoi cambiare la società partendo da uno solo dei due assi, ma neppure soltanto dal governo.
D. Nei suoi discorsi appaiono molte citazioni ad autori, ma sono quasi tutte autoreferenti. Ed è un male diffuso, perché sembra che nella sinistra passiate molto tempo a riflettere su voi stessi e che parliate molto meno di quello che accade fuori. È come se combatteste tra di voi e tra le vostre tradizioni anziché farlo contro la realtà.
R. Quando ricorriamo ai classici è perché sono stati capaci di identificare i fondamenti del mondo in cui viviamo. I testi di Marx sulla speculazione finanziaria sembrano riguardare l’ultima crisi finanziaria e quelli sulla globalizzazione di Lenin ritraggono molto bene i comportamenti di Google. Le loro logiche ci permettono di guardare oltre la superficie, e in questo consiste la scienza, nel saper separare l’epidermide da ciò che sta sotto.
D. Senza dubbio, ma i riferimenti agli intellettuali che si citano abitualmente hanno a che fare con pensatori degli anni ’70, con il carrillismo, le cui analisi erano troppo legate al loro tempo, o a posizioni massimaliste, o a Foucault, o all’idea per cui “ogni potere è sempre oppressivo”.
R. Bene, noi non parliamo di carrillismo, lo combattiamo. Il marxismo ha avuto delle fasi, e in alcune di esse gli intellettuali hanno iniziato a razionalizzare e a riflettere sull’alienazione o sui micropoteri, e meno sulle questioni materiali. Questi sono gli intellettuali del maggio del ’68 e i postmoderni, che vennero dopo. Oggi sono cose lontane dalla gente, perché i problemi che viviamo hanno a che vedere di più con il XIX secolo, con la disoccupazione e con la fame, che con quelli degli anni ’60, ragion per cui i linguaggi devono cambiare. Vengo da un paese vicino Málaga e sono l’unico ragazzo della mia generazione che è arrivato all’università. Era una cittadina della costa, che si reggeva sulle agenzie immobiliari e sull’edilizia, il che era un incentivo enorme affinché tutti decidessero di lavorare anziché studiare. Guadagnavano già tremila euro, perché studiare? Oggi, ciononostante, sono tutti disoccupati e non politicizzati, sono quella tipica fetta quasi di sottoproletariato, che vive con le loro famiglie in una sola casa, che odiano la politica e che se entra in scena un furbo di estrema destra che promette loro casa e lavoro e che caccerà i migranti lo voteranno sicuramente. Io voglio parlare di cose che loro capiscono, ed è più facile stabilire una connessione con loro se parliamo di problemi quotidiani che parlando di biopolitica o della situazione francese. La sinistra razionalizza molto, come se pensasse “ho i miei concetti e li incastrerò nella realtà” invece di analizzare la realtà e trarre da lì nuovi concetti.
D. Parlate poco di misure concrete. Per stabilire una connessione con la gente bisogna anche fare proposte che la motivi e le vostre non sono state chiare, né molto attraenti da un punto di vista economico.
R. Durante la campagna elettorale il problema non è stata la carenza di proposte, quanto l’incapacità di trasmetterle. Oggi la politica si fa nei media, che non sono uno spazio neutrale ma condizionano i messaggi. Quando allo scattare dei 30 secondi ti interrompono Inda o Marhuenda, è impossibile spiegare una proposta economica concreta. I media hanno un format tremendamente spettacolarizzato: le sedie sono lontane affinché tu debba gridare, perché i microfoni comunicano solo con gli spettatori e devi alzare la voce perché ti sentano, e sei circondato da gradoni come se fossi un gladiatore. Inoltre, l’agenda la detta uno spettatore che non vuole parlare del cambio di modello produttivo, né del motivo per cui in Germania hanno salari migliori e lavorano meno ore. Neppure nel dibattito economico con Guindos, Garicano e Jordi Sevilla ho potuto parlare di questo, perché Sevilla mi attaccava tutto il tempo dandomi del comunista e dicendo che volevo portare la Spagna fuori dall’euro. Così era impossibile parlare di cose concrete. Le proposte finiscono col diventare le caricature di se stesse, perché non puoi ridurre 40 pagine di programma economico a uno slogan. Questo non ci priva di ogni responsabilità, ma credo che il format che ci condiziona sia terribile. Per la gente è molto noioso parlare di economia e molto divertente parlare di Marhuenda.
D. La storia della sinistra è infestata da scontri, scissioni e fughe. Unidos Podemos deve ancora ripensarsi, decidere come strutturarsi e organizzarsi. Che rischi implica affrontare questi dibattiti?
R. Di rischi ce ne sono molti, derivanti dalla congiuntura e persino rischi più strutturali come quelli organizzativi, l’oligarchia, la legge di ferro di Robert Michels, burocrazie interne e affinità e lealtà interne legate ad interessi materiali, e questo è inquinante perché crea una lotta di fazioni. Se diventi deputato e non sei previdente, se non stabilisci un salario massimo, per esempio, avrai la tendenza ad abituarti a quei privilegi, passi dall’essere disoccupato all’avere uno studio e un assistente. Queste questioni sono ostacoli ad un dibattito franco. Se vuoi superare le organizzazioni in uno spazio politico congiunto, qualcuno può pensare che è troppo rischioso per la sua posizione personale. Vedo invece meno rischi politici, anche se ci sono delle differenze politiche, differenze tra Pablo o Iñigo o tra Podemos e IU, ci sono elementi pragmatici e persino tattici e strategici comuni. Iñigo e la sua gente, per esempio, non erano sostenitori della confluenza e forse non sono a loro agio, ma l’hanno accettato. Saluta anche in maniera diversa da Pablo (il primo usa il simbolo della vittoria e il secondo il pugno chiuso) perché crede che questo possa essere più attraente per il Paese, anche se a me sembra che lo spazio a cui sta arrivando sia sempre più limitato, ma questo è secondario. Io credo che Iñigo sia imprescindibile quanto Pablo. Non è una buona cosa camminare verso una “Vita di Brian” permanente, così pregiudiziale per la sinistra.
D. L’accordo per la costruzione di Unidos Podemos è stato un accordo tra direzioni, senza la partecipazione delle basi e senza primarie. Questo “peccato originale” condizionerà in negativo i futuri dibattiti per lo sviluppo di Unidos Podemos?
R. Abbiamo bisogno di tempo e dibattiti sani, diretti e pubblici. Questa coalizione si è formata dopo cinque mesi di enormi ostilità e tre mesi dopo che Podemos ci ha negato l’aiuto per formare un gruppo parlamentare. Tutto questo genera tensioni. I nostri militanti hanno saputo essere all’altezza e al di sopra di queste miserie, anche se in certi spazi ci sono stati molti scontri perché è difficile dire che in tre settimane siamo diventati amici perché l’unità non si decreta, si pratica. Per questo le campagne sono state un caos, con comizi separati e discorsi che non combaciavano. Questo ha influito, ma ci sono state variabili che hanno influito molto di più, come la Brexit.
articolo originale: “Errejón e Iglesias son necesarios, pero hay que evitar una ‘Vida de Brian’ permanente”
Traduzione di Angelica Bufano
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