La vera notizia di questi giorni non è l’operazione di facciata del
vertice autoconvocato e autonominato Renzi-Hollande-Merkel a largo di
Ventotene (e su di una portaerei, a proposito di simbolismi), per
tentare di dare ossigeno ad una Ue in crisi politica, che ancora non si è
ripresa dall’incubo Brexit (incubo che ormai si legge quotidianamente
sui giornali, ad esempio il Corriere di ieri 23 agosto: “tenere unita la Ue non solo nel post Brexit, probabilmente meno drammatico di quanto temevano”. E’
proprio questo l’incubo: che non c’è nessun dramma fuori dalla Ue). La
notizia è che Renzi teme fortemente di perdere il referendum di novembre
(se sarà a novembre, ormai è una barzelletta), e per evitare di fare la
fine di Cameron, finito nella pattumiera della storia, dichiara il
giorno prima dell’incontro fra i tre “leader” che il referendum non è su
di lui, sul suo governo o contro l’Ue (figuriamoci), e che la sua
eventuale sconfitta non significherebbe andare alle elezioni politiche
anticipate. In realtà la marcia indietro viene da lontano, e soprattutto
non c’entra nulla con la volontà di Renzi.
La débâcle delle amministrative di giugno, la profonda crisi
economica che attanaglia il paese in una stagnazione totale, il fermo
della produzione industriale e il contesto europeo sconquassato dalla
Brexit, hanno costretto il Pd, in accordo con la sempre presente regia
dell’ex presidente della Repubblica Napolitano, a cambiare strada, anzi,
a fare una vera e propria inversione a U in autostrada. Il nuovo corso
punta a depoliticizzare il referendum, la natura essenzialmente
strategica di quello che può significare la vittoria del SI o del NO, e
allora si torna a parlare di modernizzare il paese, risparmiare sui
costi della politica e semplificare la macchina dello stato. Tutti
argomenti usati ed abusati, a cui ormai credono veramente in pochi,
forse neanche più i Cinquestelle. Questa mossa dimostra, invece, in
maniera netta che è in gioco l’equilibrio politico del governo
europeista. E’ l’Europa che sta imponendo a Renzi un dietrofront
rispetto alle sue poco gestibili uscite di qualche mese prima. Dopo la
Brexit non si gioca più. A ricordarlo è, fra gli altri, Joseph Stiglitz,
paladino dei movimenti occupy e dei sinistrati nostrani, che in questi
giorni si è affannato a specificare il senso della pessima scelta del
referendum: “il referendum costituzionale che si terrà in Italia in autunno è un grosso rischio, perché potrebbe avere un esito disastroso [cioè vincere il NO, ndr] per
la moneta unica e il progetto europeo[…]L’opzione migliore per
assicurare la stabilità dell’Unione europea sarebbe quella di
cancellarlo”. Si, proprio così si è espresso il guru dei
socialdemocratici globali, a dimostrazione di come, di fronte alla
tenuta dello status quo europeista, le differenze politiche vengano
puntualmente ricondotte nell’alveo della compatibilità istituzionale. E
l’ingrato compito di dire pane al pane e vino al vino viene sempre
lasciato a quella sinistra “radical” campione olimpica di giravolte.
In realtà si profila un referendum non solo su Renzi e il renzismo,
ma sulla Ue, come rilevato prima e meglio della sinistra dalle stesse
agenzie europee. I grandi giornali economici internazionali, dal Wall Street Journal al New York Times, al Financial Times, arrivano a sostenere che l’impatto negativo della vittoria del NO al referendum andrebbe oltre la Brexit.
E allora, al di là della campagna terroristica mediatica che è appena
iniziata per condizionare il voto, cosa non riuscita in Inghilterra a
giugno, la posta in gioco è decisiva. Non ci troviamo di fronte ad un
passaggio qualsiasi della politica italiana, ma di fronte al tornante
storico che definirà il nostro modello di sviluppo di qui ai prossimi
decenni. Ne vedremo delle belle nelle prossime settimane, si userà
senza scrupoli l’arma delle offerte (o minacce) economiche, calcolando
che entro ottobre dovrà essere presentata la Legge di stabilità, con il
solito stanco teatrino mediatico-europeista tra Renzi che vuole
“spendere di più” e la cattiva Merkel che non glielo lascia fare.
La partita è aperta e non ci sogniamo certo di vendere la pelle
dell’orso prima della sua morte, ma l’annuncio di ieri ci dice che
l’orso è preoccupato, ma che soprattutto sta intervenendo il governo
sovra-nazionale per amministrare al meglio ciò che le “élite” politiche
nazionali hanno dato prova di non saper amministrare.
L’annuncio che non cambia nulla se vince il NO, in realtà, è un
tranello mediatico per tentare di spoliticizzare la tornata
referendaria, è un modo per alimentare la sfiducia nel cambiamento. Se
Renzi perdesse sarebbe una carta bruciata, la sua storia politica finita
e tirerebbe definitivamente nel caos un partito che in tutti questi
anni è stato il più leale sostenitore delle politiche liberiste, e certo
non ci sarebbe a questo punto la carta del centro destra che non
dimostra minimamente di essere un valido sostituto. L’articolo sul Corriere
di qualche giorno fa, a firma del professore con l’elmetto Angelo
Panebianco, decano del giornalismo imbavagliato, che invoca come
soluzione un patto tra Berlusconi e Renzi, cioè il fantomatico “partito
della nazione”, la dice lunga sul livello di lucidità che alberga nelle
menti più spocchiose dell’establishment mediatico. Le manovre di palazzo
nei prossimi tempi saranno innumerevoli e servirà essere attenti e
lucidi nell’interpretarle, perché – ripetiamo – il passaggio di qui
all’autunno è uno di quelli storici per il paese, il terreno su cui si
giocherà la capacità della Ue di determinare le politiche nazionali
degli Stati membri.
Una cosa però è sicura: il SI porterebbe ad una fase di
stabilizzazione relativa nella gestione politica della crisi e una
situazione compromessa per qualsiasi movimento di protesta nel paese.
Sarebbe in altre parole la definizione di quello Stato d’eccezione
permanente ancora in corso in Francia. Quel carattere oggettivo di
discontinuità apertosi con le elezioni amministrative si chiuderebbe,
forse definitivamente. Il No, all’opposto, aprirebbe a un periodo di
instabilità politica che favorirebbe, potenzialmente, la ricostruzione
di un discorso d’opposizione alle politiche liberiste europeiste
generalizzato nel paese. Sarebbe a quel punto una partita tutta interna
al “nostro” mondo, assolutamente non scontata né probabile, ma
quantomeno possibile. E’ una partita, quella del referendum, in cui la
sinistra di classe gioca oggettivamente un ruolo subalterno e
minoritario. Si tratta di mobilitare decine di milioni di voti, un campo
dunque fuori dalla portata degli attuali movimenti di classe.
Nonostante ciò, il contributo che da questi potrà venire favorirà quel
processo che potrebbe aprirsi con l’eventuale vittoria dei NO. Non
giocarsi nemmeno la partita, al contrario, regalerà quei NO alla
rappresentanza politica della destra reazionaria o populista. La più
classica delle eterogenesi dei fini.
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