Da circa due anni va avanti il dibattito attorno all’inflazione europea, giudicata, a detta di commentatori ed economisti,
eccessivamente bassa per garantire la crescita economica. In effetti
l’inflazione si aggira tra lo 0,2 e lo 0%, ben al di sotto del target
fissato dalla Bce del 2%. Come sappiamo,
il controllo dell’inflazione è uno degli strumenti, anzi, lo strumento,
attraverso cui la Banca centrale europea impone agli Stati membri la
moderazione salariale e impedisce qualsiasi spesa pubblica in deficit.
Bloccare ogni rialzo di prezzi e salari è l’obiettivo ideologico della
Ue, ma l’inflazione allo 0% ha portato molti commentatori a criticare le scelte della stessa Ue come troppo restrittive.
Sillogismi fantasiosi – del tipo: “se i prezzi scendono i consumatori
non comprano” (ma quando mai... semmai i prezzi scendono perché cala la
domanda interna, che a sua volta cala perché il reddito disponibile si
riduce) – contribuiscono ad orientare un dibattito tutti interno
all’economia politica liberista. Bravi, benissimo.
Eppure, in questi giorni ha trovato un certo risalto la notizia
dell’aumento dell’inflazione in Gran Bretagna, che sale allo 0,6%,
sempre troppo poco per i presunti standard liberisti europei, ma
comunque in crescita rispetto agli altri paesi del continente costretti
nella gabbia europeista. Una notizia in realtà di poco conto, ma il modo
in cui è stata trattata sui media e il risalto datogli ha smascherato
il rosicamento che ancora si prova tra Bruxelles e Francoforte.
Secondo
coerenza, la notizia avrebbe dovuto essere accolta positivamente dalla
sequela di sòla che commentano l’economia europea. E invece sui giornali
scopriamo l’esatto contrario. Il Corriere titola: “Effetto
Brexit, l’inflazione britannica sale più del previsto”. Nell’articolo
poi si sciorinano i danni derivanti da questo aumento improvviso(!)
dell’inflazione britannica, concludendo prima che comunque la salita “è
ancora sotto il target del 2% della Bce”, e subito dopo raggiungendo
l’acme: “Ci vorrà del tempo per capire se sarà un bene o un male per
l’economia”. Chapeau.
Il Sole 24 ore, se possibile, supera il Corriere in destrezza ideologica: “Brexit spinge l’inflazione inglese ai massimi da venti mesi”, chiaramente denotando negativamente la dinamica dei prezzi quando invece da
due anni lo stesso giornale implora un aumento dei prezzi al consumo
per risollevare le sorti dell’economia italiana. L’articolo è
meraviglioso, ne riportiamo solo alcuni passi ma ne consigliamo la
lettura integrale: “l’indice dei prezzi al consumo è passato dallo 0,5%
di giugno allo 0,6% di luglio, salendo oltre le previsioni degli analisti”. In
altri termini: l’inflazione sale dello 0,1% ma è comunque più di quello
che gli analisti prevedevano! Sorge immediata la domanda su quanto si
aspettavano “gli analisti”, visto che sotto lo 0,1% nelle statistiche
macro-economiche non si tiene conto. Misteri dell’economia politica. Ma
continua: “L’aumento dell’inflazione limita la spesa dei consumatori e aumenta i costi per le imprese”.
Davvero, stupefacente, egregio, inarrivabile: il 27 giugno 2016, neanche due mesi fa, lo stesso giornale titolava: “La deflazione imbavaglia i consumi”. E si potrebbe continuare, da Repubblica al
resto dei prestigiatori europeisti. La realtà è che la Brexit non solo
ha dato alla testa a più di un tecnocrate europeista, ma soprattutto nessuna delle sventure economiche augurate alla Gran Bretagna si sta avverando.
Fuori dalla Ue c’è vita, e questo spaventa molto di più di qualche
attentatore programmato, della deflazione o dei migranti “all’assalto
della fortezza europea”.
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