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22/08/2016

Il “sogno di Ventotene” deriso su una portaerei

Lo storytelling è in crisi. La realtà erompe da tutte le parti e non ci sono più modelli narrativi per contenere i problemi che non trovano soluzioni. Ma lo scarto tra chiacchiere di governo e fatti diventa clamoroso per questo cosiddetto “vertice di Ventotene” tra i tre big residui dell'Unione Europea dopo la vittoria della Brexit, ossia Germania, Francia e Italia.

Diciamo che il “manifesto di Ventotene” sta all'Unione Europea reale come l'isola omonima a una portaerei. La Garibaldi, per la precisione. Perché sull'isola reale i tre non metteranno neanche piede, se non per una photo opportunity sulla tomba di Altiero Spinelli. Persino la conferenza stampa finale avverrà “a bordo”, con giornalisti selezionati (embedded) trasportati da Napoli fin da lunedì mattina.

Non ci potrebbe essere metafora più precisa per descrivere l'infamia di quel che c'è (l'Unione Europea dei trattati ordoliberisti, pensati per distruggere il “modello sociale europeo”) e l'idealismo progressista degli estensori del “manifesto” del 1941. Da un lato un meccanismo strangolante fondato sulla lex mercatoria (il “libero mercato” non deve avere vincoli né limiti, gli stati e gli esseri umani sì, soprattutto per quanto riguarda salario e diritti), dall'altra un sogno di salvezza nel momento più buio dell'Europa schiacciata dai panzer nazisti (la vittoria di Stalingrado arrivò all'inizio del '43), che immaginava una rivoluzione europea socialista, fondata su un'inedita alleanza tra classe operaia e intellettuali:
La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi l'emancipazione delle classi lavoratrici e la creazione per esse di condizioni più umane di vita.
L'esatto opposto di quel che ci impongono, giorno dopo giorno, le Merkel e gli Schaeuble, i Dijsselboem e i Draghi, gli Hollande e i Renzi. La stessa distanza tra un'isola e una portaerei.

Su quella nave da guerra, simbolo forse involontario della protervia e della paura in cui vivono i “decisori” della politica continentale, si riuniranno tre presunti leader reazionari in profonda crisi, ognuno nel proprio paese e con modalità diverse. Quello “nostrano”, soltanto ieri, ha rovesciato platealmente la strategia comunicativa relativa al referendum costituzionale d'autunno: “Comunque vada il referendum noi ce le abbiamo nel 2018”. Niente più dimissioni, insomma, nel caso ormai probabile, di sconfitta. E anche un'ignoranza costituzionale che mal s'addice a chi vuol stravolgere una Costituzione (nel caso di una crisi di governo, infatti, starebbe al presidente della Repubblica, l'impalpabile Mattarella, verificare se ci sono le condizioni per un nuovo governo o indire elezioni politiche).

Di Hollande non c'è più nulla da dire, dopo la loi travail imposta al paese senza neppure un voto parlamentare. Tutte le sue illusioni (chiamarle speranze sarebbe eccessivo) sono concentrate in un raddoppio del “piano Juncker” per sostenere la “ripresa” dell'economia. Un piano che nessuno ha ancora visto all'opera, che doveva mobilitare “a leva” 150 miliardi mettendocene realmente pochissimi (basterebbe vedere qui), e che dunque, anche “raddoppiando” le dimensioni, difficilmente potrebbe creare effetti visibili in popolazioni stremate da otto anni di austerità.

La stessa Merkel non sembra più possedere il tocco magico della “massaia”, abile a districarsi con il semplice “buon senso” tra spinte e interessi diversi. Anche lì, nella potente Germania, quindici anni di precarizzazione del lavoro (cominciò il “socialdemocratico” Gerhard Schroeder, con i “piani Hartz”) hanno prodotto un paio di generazioni di lavoratori a basso salario e senza diritti, disoccupazione e revanscismi reazionari che si polarizzano intorno al problema dei migranti.

Tre personaggi in cerca di improbabile salvezza, anche personale, che giocano disinvoltamente con i simboli e la storia mentre si trovano costretti a immaginare una “rifondazione” dell'Unione Europea dopo il voto sulla Brexit, che potrebbe portare con sé anche il fallimento dei negoziato sul Ttip. Al massimo, per obbligo, dovranno stilare un'agenda credibile per il vertice europeo del 27 settembre, che potrebbe altrimenti evidenziare slabbrature ancora più consistenti delle attuali.

I media mainstream elencano nervosamente i temi fondamentali su cui, pragmaticamente, i tre dovrebbero trovare qualche risposta: “sicurezza e difesa, crescita e investimenti, lavoro e giovani”. Temi che richiedono tutti, e in modo molto diverso, una struttura politica sovranazionale assai diversa dall'attuale. Che è bloccata nello status quo (austerità economica, ordine sparso sul terreno militare e del “terrorismo”, ecc) non da questioni ideologiche, ma da concretissimi e divergenti interessi.

Fa ridere quasi tutti, ormai, la chiacchiera senza pudore del contafrottole ("Gli italiani devono essere orgogliosi che in un luogo simbolo di un grande ideale dell'Europa, Merkel e Hollande verranno per rilanciare dal basso l'Unione europea"), aggrappato allo slogan “più flessibilità sui conti pubblici” per poter varare qualche misura spot prima del referendum.

A bordo della Garibaldi, per lui, ci sarà forse spazio per un “vedremo...” (non è interesse di nessuno, in quella sede, far cadere uno degli altri due), ma difficilmente potranno venire davvero “nuove idee” per reinventare una costruzione stanca, indebolita, oppressiva, impopolare ovunque.


L'unico punto su cui forse riusciranno a fare un passo avanti è anche il più minaccioso: la “difesa comune” ossia una maggiore integrazione tra le forze armate di paesi che comunque fin qui hanno risposto in modo assai diverso agli input di Washington (su Siria e Iraq) o agli appetiti nazionali (Libia, per la Francia). Se non altro, è questo l'augurio che si fa il sottosegretario agli esteri, l'ex pannelliano, ex berlusconiano, ex..., Benedetto Della Vedova: "trovo molto positivo che da parte italiana il presidente del Consiglio, sulla base di un documento elaborato dal ministro Gentiloni e dal Ministro Pinotti, metta al centro della discussione la proposta di avviare una Schengen della Difesa, quindi un accordo concreto e percorribile in tempi relativamente rapidi di integrazione di alcune funzioni legate alla difesa comune”.

Curioso, no? che mentre ogni Stato dell'Unione chiude i propri confini seppellendo il trattato di Shengen, un governante non trovi di meglio che adottarne la retorica (“libera circolazione”) per un obiettivo... militare. Le persone subiscono controlli e freni oggettivi sempre più pressanti, che sconsigliano in varia misura l'attraversamento dei confini, mentre i soldati di élite si avviano a diventare una forza armata “liberamente circolante” per operazioni coperte dallo stesso livello di segretezza che si usa per i “servizi” (è con questo escamotage, ad esempio, che truppe italiane stanno combattendo in Libia senza alcuna autorizzazione parlamentare).

Una “contraddizione” perfettamente coerente, però, con lo scarto immenso tra il sogno pacifista elaborato da antifascisti confinati su un'isola e la realtà economico-militare di una struttura politica sovranazionale orientata soltanto dal grande capitale multinazionale (i cosiddetti “mercati”).

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