Con questo testo si chiude il ciclo di
approfondimento che abbiamo dedicato al referendum che ha sancito
l’uscita della Gran Bretagna dall’UE. In calce all’articolo potete
trovare i link alle prime due parti.
1. Dopo il referendum la sterlina ha subito avuto un deprezzamento.
I sostenitori della Brexit hanno subito sottolineato i vantaggi che ne
derivano per l’economia inglese: diventa più facile esportare merci,
attrarre turisti e si deprezzano i salari inglesi, rendendo più facile
investire. Tuttavia non stiamo parlando né del Bangladesh né di qualche
paese caraibico. Non stiamo parlando di un’economia relativamente
arretrata, dominata da due o tre settori chiave, basata sulla
manifattura da esportazione, su un basso consumo interno e una necessità
disperata di attrarre i flussi monetari dall’estero attraverso il
turismo. Stiamo parlando della culla del capitalismo, con un’economia
stratificata, complessa, con esigenze contraddittorie. Un’economia dove
esportare è importante tanto quanto importare. Un’economia dove il
settore finanziario e dei servizi sono importanti tanto quanto, se non
di più, di quello industriale.
2. Il deprezzamento della sterlina non giova l’economia inglese più di quanto potenzialmente non la danneggi.
Per il momento il primo effetto è quello di determinare una fuga di
capitali, specialmente nel mercato immobiliare. Con il calare della
sterlina, cala anche il valore degli asseti immobiliari espressi in
sterline. I capitali parcheggiati nel mattone inglese iniziano perciò a “rientrare dalle proprie posizioni”:
chiedono ai grandi istituti finanziari inglesi che hanno investito in
asset immobiliari di avere indietro i propri capitali. Per rimborsare i
propri clienti, questi istituti finanziari devono a loro volta mettere
in vendita immobili per cercare di monetizzarli e acquisire liquidità.
L’aumento improvviso di offerta sul mercato immobiliare peggiora a sua
volta il calo dei prezzi: lo scoppio della bolla speculativa sul mercato
immobiliare si trasforma potenzialmente in un domino che fa cadere
l’intera economia finanziaria.
3. Per questo la Brexit spinge l’economia inglese inesorabilmente in tre direzioni:
a) una ulteriore giro di vite della dipendenza e della compenetrazione con l’economia statunitense. Se prima il Regno Unito era il pungolo atlantico nella Ue, oggi diventerà il pungolo atlantico alle soglie della Ue. Tutti i trattati di liberalizzazione del commercio che si stavano provando ad affermare con il Ttip saranno applicati prima di tutto alla Gran Bretagna.
b) i vantaggi persi nel rapporto con l’economia dell’Unione Europea, dovranno essere compensati con ogni genere di concessioni fiscali al capitale che investe nel Regno Unito. Ci sarà quindi un nuovo giro di detassazione sul capitale in ogni sua forma. Già oggi è il paese con maggiori agevolazioni alle imprese e con zone speciali “detassate”. Londra non potrà che insistere su questa via.
c) in parte l’economia inglese dovrà andare verso un processo relativo di “re-industrializzazione”. Diciamo “relativo” perché non stiamo parlando di un ritorno al 1800. Un’economia imperialista senile come quella inglese non può tornare ai suoi albori. Dovrà però rafforzarsi ulteriormente quel processo chiamato “reshoring” – di ritorno cioè in “patria” degli investimenti industriali che si erano precedentemente diretti verso le cosiddette economie emergenti. Allo scorso maggio i casi di reshoring erano 730 a livello mondiale: gli Usa guidano la classifica, l’Italia è seconda e non a caso la Gran Bretagna è terza per rientri di investimenti produttivi.
4. Per questo uno degli aspetti fondamentali della Brexit sarà proprio il “controllo sulle frontiere” dei flussi umani, il che significa maggiore controllo e possibilità di disporre a proprio piacimento della forza-lavoro: di respingere e di accettare mano d’opera a basso costo in piena autonomia secondo le migliori condizioni per l’economia inglese. L’effetto della Brexit su cui nessun conservatore transige è in fondo questo: tutto il proletariato europeo è dichiarato in un colpo solo “extracomunitario” e ad esso si applicheranno gli stessi respingimenti, le stesse restrizioni, assenze di diritto, salari da fame. Ad ogni piccolo segnale di crisi, le aziende dichiarano esuberi. Ma ad ogni ripresina lamentano mancanza di mano d’opera: per essere esatti lamentano mancanza di mano d’opera meno costosa di quella che hanno precedentemente espulso dal ciclo produttivo. Così, sembra paradossale, nella scorsa primavera uno studio sul settore edile lamentava mancanza di mano d’opera in Europa. E la Gran Bretagna guida le classifica. Esistono aziende nel Regno Unito in crisi non per esuberi ma per mancanza di profili adatti. Lo stesso settore sanitario è stato costretto per anni a importare mano d’opera dal resto d’Europa. Il punto per il capitale inglese non è quindi avere meno immigrazione, ma avere immigrati ancora più sottomessi.
5. Alle porte del Regno Unito i capitalisti cercheranno di appendere un cartello: “no taxes, cheaper labours, no boring restrictions to capital freedom, come on in and make your game (no refugees welcomes unless we need them…)”. Niente tasse, mano d’opera più conveniente, nessuna tediosa restrizione alla libertà del capitale, vieni e fai il tuo gioco (astenersi clandestini a meno che non ne abbiamo bisogno noi...). Non si tratta di nulla di qualitativamente differente da quanto faccia l’Unione Europea nel suo complesso. Semplicemente ora l’economia inglese, ballando da sola, potrà e dovrà muoversi in maniera ancora più disinvolta sulla pista da ballo, costringendo tutti gli altri ad adeguarsi al nuovo ritmo della festa.
6. Si parano però due ostacoli sulla via intrapresa dai conservatori inglesi: uno alle spalle e uno davanti. Alle spalle, nel loro stesso campo, la Brexit ha aperto un processo centrifugo interno al Regno Unito: in particolare la Scozia, dove ha vinto il Remain, può tornare a vantare pretese di indipendenza, restando così autonomamente nell’Ue. Già da ora si può dire che tanto più i capitalisti inglesi spingeranno avanti la rottura con il resto del capitalismo europeo, tanto più il resto del capitalismo europeo sarà interessato a rompere il Regno Unito.
7. E davanti a sé la borghesia inglese troverà lo stesso “popolo” tanto invocato dai sostenitori della Brexit. Come chi si accorge improvvisamente che il croupier ha truccato le carte al tavolo da gioco, i lavoratori si accorgeranno presto che non ci sono né fondi aggiuntivi per la sanità, né una diminuzione della concorrenza nel mercato della forza-lavoro. Scopriranno che è stato trovato solo un altro sinonimo alla parola “sacrifici”.
8. La Brexit determina forse una maggiore omogeneità interna all’area Euro? Questo è quello che Francia e Italia danno a credere. Al contrario: la minaccia di fare come la Gran Bretagna sarà uno spettro ancora più assillante a Bruxelles. Ogni paese potrà quindi alzare le proprie minacce ad ogni dissapore. E del resto l’omogeneità interna al capitalismo europeo non è minacciata dalla rottura di questo o quel trattato: essa non è minacciata per nulla. Semplicemente non esiste. Troppo deboli per stare da soli, troppo forti per lasciarsi soggiogare reciprocamente, troppo diversi per mettersi d’accordo, troppo collegati per non provare ad accordarsi: questo è il destino dell’europeismo capitalista.
9. Dunque infine, torniamo alla domanda: Leave o Remain? Brexit sì o no? Le negatività della Brexit possono forse far passare in secondo piano la mostruosità dell’europeismo? E’ in verità una domanda mal posta: è l’agnello che si chiede quale sia il modo migliore per essere macellato. In politica non è solo importante cosa si fa, ma anche chi lo fa, come e con che scopi. L’unico fattore che poteva cambiare lo scenario sarebbe probabilmente stata la discesa in campo a favore della Brexit del movimento di massa attorno Corbyn: assumendo un programma sociale avanzato, specificando le basi sociali su cui si rompeva la gabbia dell’Unione Europea, sarebbe forse stato possibile attaccare frontalmente la corrente blairiana e sfilare migliaia di lavoratori alla propaganda dell’Ukip. Sarebbe stato possibile forse trasformare un terreno sfavorevole come quello di un referendum così ambiguo, in un messaggio internazionalista ai lavoratori del resto del Continente. Ma è solo un’ipotesi. Così non è accaduto, e non è accaduto per il semplice fatto che la socialdemocrazia europea, perfino nelle sue forme di sinistra, non ha in verità alcuna capacità di staccarsi più di tanto dal carro della borghesia europeista.
10. Torniamo quindi al punto essenziale: non è attraverso la questione delle frontiere che si giunge al programma rivoluzionario. Ma è dal programma rivoluzionario che al contrario si giunge alla questione delle frontiere. Non è attraverso la lotta per i confini nazionali o viceversa in difesa dell’Unione Europea che si giungerà alla lotta di classe. Ma è attraverso la lotta di classe che si giungerà a porre il problema della rottura dell’Unione Europea in termini di superamento dei confini: siano essi gli antichi confini nazionali o i confini più allargati della fortezza Europa.
3. Per questo la Brexit spinge l’economia inglese inesorabilmente in tre direzioni:
a) una ulteriore giro di vite della dipendenza e della compenetrazione con l’economia statunitense. Se prima il Regno Unito era il pungolo atlantico nella Ue, oggi diventerà il pungolo atlantico alle soglie della Ue. Tutti i trattati di liberalizzazione del commercio che si stavano provando ad affermare con il Ttip saranno applicati prima di tutto alla Gran Bretagna.
b) i vantaggi persi nel rapporto con l’economia dell’Unione Europea, dovranno essere compensati con ogni genere di concessioni fiscali al capitale che investe nel Regno Unito. Ci sarà quindi un nuovo giro di detassazione sul capitale in ogni sua forma. Già oggi è il paese con maggiori agevolazioni alle imprese e con zone speciali “detassate”. Londra non potrà che insistere su questa via.
c) in parte l’economia inglese dovrà andare verso un processo relativo di “re-industrializzazione”. Diciamo “relativo” perché non stiamo parlando di un ritorno al 1800. Un’economia imperialista senile come quella inglese non può tornare ai suoi albori. Dovrà però rafforzarsi ulteriormente quel processo chiamato “reshoring” – di ritorno cioè in “patria” degli investimenti industriali che si erano precedentemente diretti verso le cosiddette economie emergenti. Allo scorso maggio i casi di reshoring erano 730 a livello mondiale: gli Usa guidano la classifica, l’Italia è seconda e non a caso la Gran Bretagna è terza per rientri di investimenti produttivi.
4. Per questo uno degli aspetti fondamentali della Brexit sarà proprio il “controllo sulle frontiere” dei flussi umani, il che significa maggiore controllo e possibilità di disporre a proprio piacimento della forza-lavoro: di respingere e di accettare mano d’opera a basso costo in piena autonomia secondo le migliori condizioni per l’economia inglese. L’effetto della Brexit su cui nessun conservatore transige è in fondo questo: tutto il proletariato europeo è dichiarato in un colpo solo “extracomunitario” e ad esso si applicheranno gli stessi respingimenti, le stesse restrizioni, assenze di diritto, salari da fame. Ad ogni piccolo segnale di crisi, le aziende dichiarano esuberi. Ma ad ogni ripresina lamentano mancanza di mano d’opera: per essere esatti lamentano mancanza di mano d’opera meno costosa di quella che hanno precedentemente espulso dal ciclo produttivo. Così, sembra paradossale, nella scorsa primavera uno studio sul settore edile lamentava mancanza di mano d’opera in Europa. E la Gran Bretagna guida le classifica. Esistono aziende nel Regno Unito in crisi non per esuberi ma per mancanza di profili adatti. Lo stesso settore sanitario è stato costretto per anni a importare mano d’opera dal resto d’Europa. Il punto per il capitale inglese non è quindi avere meno immigrazione, ma avere immigrati ancora più sottomessi.
5. Alle porte del Regno Unito i capitalisti cercheranno di appendere un cartello: “no taxes, cheaper labours, no boring restrictions to capital freedom, come on in and make your game (no refugees welcomes unless we need them…)”. Niente tasse, mano d’opera più conveniente, nessuna tediosa restrizione alla libertà del capitale, vieni e fai il tuo gioco (astenersi clandestini a meno che non ne abbiamo bisogno noi...). Non si tratta di nulla di qualitativamente differente da quanto faccia l’Unione Europea nel suo complesso. Semplicemente ora l’economia inglese, ballando da sola, potrà e dovrà muoversi in maniera ancora più disinvolta sulla pista da ballo, costringendo tutti gli altri ad adeguarsi al nuovo ritmo della festa.
6. Si parano però due ostacoli sulla via intrapresa dai conservatori inglesi: uno alle spalle e uno davanti. Alle spalle, nel loro stesso campo, la Brexit ha aperto un processo centrifugo interno al Regno Unito: in particolare la Scozia, dove ha vinto il Remain, può tornare a vantare pretese di indipendenza, restando così autonomamente nell’Ue. Già da ora si può dire che tanto più i capitalisti inglesi spingeranno avanti la rottura con il resto del capitalismo europeo, tanto più il resto del capitalismo europeo sarà interessato a rompere il Regno Unito.
7. E davanti a sé la borghesia inglese troverà lo stesso “popolo” tanto invocato dai sostenitori della Brexit. Come chi si accorge improvvisamente che il croupier ha truccato le carte al tavolo da gioco, i lavoratori si accorgeranno presto che non ci sono né fondi aggiuntivi per la sanità, né una diminuzione della concorrenza nel mercato della forza-lavoro. Scopriranno che è stato trovato solo un altro sinonimo alla parola “sacrifici”.
8. La Brexit determina forse una maggiore omogeneità interna all’area Euro? Questo è quello che Francia e Italia danno a credere. Al contrario: la minaccia di fare come la Gran Bretagna sarà uno spettro ancora più assillante a Bruxelles. Ogni paese potrà quindi alzare le proprie minacce ad ogni dissapore. E del resto l’omogeneità interna al capitalismo europeo non è minacciata dalla rottura di questo o quel trattato: essa non è minacciata per nulla. Semplicemente non esiste. Troppo deboli per stare da soli, troppo forti per lasciarsi soggiogare reciprocamente, troppo diversi per mettersi d’accordo, troppo collegati per non provare ad accordarsi: questo è il destino dell’europeismo capitalista.
9. Dunque infine, torniamo alla domanda: Leave o Remain? Brexit sì o no? Le negatività della Brexit possono forse far passare in secondo piano la mostruosità dell’europeismo? E’ in verità una domanda mal posta: è l’agnello che si chiede quale sia il modo migliore per essere macellato. In politica non è solo importante cosa si fa, ma anche chi lo fa, come e con che scopi. L’unico fattore che poteva cambiare lo scenario sarebbe probabilmente stata la discesa in campo a favore della Brexit del movimento di massa attorno Corbyn: assumendo un programma sociale avanzato, specificando le basi sociali su cui si rompeva la gabbia dell’Unione Europea, sarebbe forse stato possibile attaccare frontalmente la corrente blairiana e sfilare migliaia di lavoratori alla propaganda dell’Ukip. Sarebbe stato possibile forse trasformare un terreno sfavorevole come quello di un referendum così ambiguo, in un messaggio internazionalista ai lavoratori del resto del Continente. Ma è solo un’ipotesi. Così non è accaduto, e non è accaduto per il semplice fatto che la socialdemocrazia europea, perfino nelle sue forme di sinistra, non ha in verità alcuna capacità di staccarsi più di tanto dal carro della borghesia europeista.
10. Torniamo quindi al punto essenziale: non è attraverso la questione delle frontiere che si giunge al programma rivoluzionario. Ma è dal programma rivoluzionario che al contrario si giunge alla questione delle frontiere. Non è attraverso la lotta per i confini nazionali o viceversa in difesa dell’Unione Europea che si giungerà alla lotta di classe. Ma è attraverso la lotta di classe che si giungerà a porre il problema della rottura dell’Unione Europea in termini di superamento dei confini: siano essi gli antichi confini nazionali o i confini più allargati della fortezza Europa.
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