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22/08/2016

Ecco chi finanzia Hillary Clinton

Senza ombra di dubbio Donald Trump, dal punto di vista dei personaggi della comunicazione politica, rappresenta un’originale interpretazione americana di una, diremo nel nostro linguaggio, sintesi tra Bossi e Berlusconi. Ovvero un incrocio, immancabilmente di destra, tra “quello che non le manda a dire”, per attirare l’elettorato frustrato e travolto dalle ristrutturazioni dell’economia, e l’imprenditore che spende la propria fama per alimentare la mitologia dei grandi creatori di ricchezza. L’originalità, dal punto di vista italiano sta nell’incarnarli entrambi (Berlusconi invece faceva la parte del moderato) radicalizzando gli archetipi contenuti nelle figure che interpreta. Trump interpreta il ruolo dell’uomo libero da vincoli che dice “le cose come stanno” e, allo stesso tempo, quello di colui che ha accumulato ricchezze favolose con un tocco che può contagiare anche l’istituzione della presidenza americana. Per il resto, possiamo dire, dopo un ventennio di Bossi-Berlusconi, che quanto visto in Usa appare straordinariamente familiare: un establishment ripetitivo (il partito democratico) o bollito (il partito repubblicano), qualcuno che si propone come nuovo che avanza facendosi forza sulle frustrazioni di una parte importante dell’elettorato. Magari irridendo e delegittimando linguaggi, simboli, idee della politica che lo hanno preceduto. E qui se gli Usa, all’inizio degli anni ’80, innovavano in comunicazione politica candidando un attore alla presidenza (Ronald Reagan) evidenziando il primato della funzione comunicativa su quella politica, l’Italia non è rimasta indietro. Essendo stato un paese televisivo come pochi in Europa alla fine degli anni ’80, si è posta come terreno di innovazione comunicativa (forme tecnologiche, stili, linguaggi) nella liquidazione di un sistema politico morente. Peccato, viene da sorridere, che la sinistra di queste innovazioni non se ne sia accorta, se non nella forma dell’anatema, scomparendo, alla fine, assieme al vecchio sistema politico (e non era scontato). E viene ancor di più da sorridere se si pensa alla legione di consulenti della comunicazione che, dagli Usa, negli anni sono venuti in Italia per fare consulenza, ben pagati, su un terreno dove erano stati gli italiani a innovare (lo stesso Berlusconi se ne era lamentato dicendo “questi americani conoscono poco l’Italia”). Segno, oltre che gli analisti americani del settore sanno occupare il mercato, che in Italia si è conosciuta la pratica della innovazione comunicativa ma si è difettato in teoria (e qui il disastro delle facoltà e dei dipartimenti che si occupano di comunicazione, qualcosa ci combina, e si vede).

Quindi, vedere dall’Italia lo scontro Trump-Clinton è qualcosa di familiare. Nelle accuse che i democratici, in coro, rivolgono a Trump non solo ci sono tutte le retoriche dell’antiberlusconismo e persino dell’antigrillismo che abbiamo visto fiorire in Italia. E che dire della presenza del Bertinotti del Vermont, Bernie Sanders? Uno che quando criticava (giustamente, dal punto di vista etico) Wall Street già mostrava di conoscere poco i meccanismi antitrust del suo stesso paese (su questo Bloomberg è stata impietosa), ed è arrivato a concludere un accordo, “per senso di responsabilità” contro Trump in appoggio con Hillary Clinton?

Diciamo che rischia di fare la fine del Prc a suo tempo: prima ondata di perdita di un elettorato deluso dall’accordo, seconda ondata, bagno di sangue vero in caso di vittoria elettorale della Clinton. E qui, dopo la comunicazione, si passa alla dimensione materiale. Così si capisce, fin da subito, il perché il Bertinotti del Vermont è destinato a veder travolte le proprie preteste di contrastare la Clinton, all’interno del partito democratico, sui temi dello strapotere di Wall Street e sulla politica estera. Basta dire che i primi cinque finanziatori della campagna della Clinton, secondo le stime del Center for Responsive Politics, sono fondi di investimento o di consulenza finanziaria tra cui l’immancabile Soros Management group. Ci sono anche associazioni di insegnanti, lavoratori, carpentieri ed ingegneri. Ma sono del tipo di associazioni di alleanza tra capitale e lavoro che piace ai Clinton, marito e moglie: sono tutti legati a fondi pensione, quelli che per dare un rendimento certo alle loro pensioni private vanno a caccia di rendimenti nel pianeta favorendo privatizzazioni, dismissioni e bolle finanziarie. Essendo il mondo dei media, grazie anche alle capacità della rete diplomatica dei Clinton, già schierato con Hillary se l’ex first lady vincerà le elezioni i dubbi saranno pochi: il solito cortocircuito di media, finanza ed establishment politico che ha prodotto le più devastanti bolle finanziarie di sempre potrà continuare l’opera. Certo, alla convention democratica è stato approvato il ritorno, in materia di controllo sulla speculazione finanziaria, allo stato del Glass-Steagall act del 1933 in piena grande depressione. Una misura evidentemente gradita a Sanders. Ma c’è da ricordare che l’abolizione del Glass-Steagall, che ha permesso alle grandi banche di usare i fondi dei risparmiatori per ogni speculazione finanziaria, è stata proprio voluta dai Clinton, firmata da Bill nel 1999. Ed è stata all’origine di almeno due grandi bolle finanziarie, immettendo la liquidità dei risparmiatori nel mercato del capitale di rischio: quella dei tecnologici del 2000-2001 e il grande botto supbrime del 2008. Farsi finanziare dai fondi di investimento, e dai titolari di fondi pensione, e restringere le occasioni di speculazione, con il ripristino del Glass-Steagall act, ovviamente è un’operazione impossibile. O meglio, possibile solo in campagna elettorale, puntando tutta l’attenzione sulle doti di pagliaccio di Trump per allargare l’effetto spaventapasseri (e Trump si dà da fare per guadagnarsi il ruolo), in modo da attirare alle urne il tremulo elettore americano di sinistra spingendolo a votare contro il nuovo fascismo. All’arrivo dello scoppio di qualche altra bolla finanziaria favorita dalle politiche dei Clinton, l’Economist del 20 agosto ha puntato di nuovo sul mercato immobiliare già sinistrato nel 2008, qualcosa a chi ha votato “Hillary” si racconterà. O meglio, piuttosto che tagliare alle grandi banche, e ai fondi di investimento che finanziano la sua campagna, magari si punterà all’aggiornamento del Dodd-Frank act. Stiamo parlando della riforma di Wall Street, voluta da Obama ed entrata a regime dal 2013, che deve monitorare ed impedire nuove bolle finanziarie. Sui limiti e l’efficacia del Dodd-Frank act questa infografica, su fonti della agenzia federale americana OCC, aiuta parecchio.

Come si vede nel primo quarto del 2015, le prime cinque banche americane detenevano ancora 200 trilioni di derivati, una quantità di titoli tossici in grado di far saltare l’economia del pianeta (nel 2007 secondo Forbes i titoli tossici in Usa ammontavano a 130 milioni). Mentre Goldman Sachs e Citigroup, come si può constatare nell’infografica, hanno visto aumentare, dal 2009, la loro esposizione in derivati. E quali rapporti ci sono tra Goldman Sachs, dove Draghi ha lavorato (esponendo tra l’altro, quando era direttore generale del tesoro, il nostro paese a derivati che costano l’interno ammontare delle recenti privatizzazioni) e Hillary Clinton?

Fonte CNN: dopo l’approvazione del Dodd-Franklin act, l’asse temporale ce lo mettiamo noi, che per Goldman, non è andato male in esposizione in derivati, Hillary Clinton ha tenuto per questa corporation finanziaria 92 conferenze a 225 mila dollari l’una per un totale di 21,8 milioni di dollari.

Come dire, avrà molte materiali ragioni la Clinton, come componente della coppia Bill e Hillary che fece fuori il Glass-Steagall act che durava dal 1933, per reiterare l’appoggio al mondo dei titoli tossici. Magari revisionando i limiti delle leggi, come il Dodd-Frank, in modo che chi ha finanziato le sue conferenze, ed è attore di primo piano della finanza tossica globale, trovi una certa soddisfazione.

Il partito democratico, secondo un articolo del Manifesto esprime la piattaforma elettorale più a sinistra degli ultimi anni. D’altronde chi, a suo tempo, ha creduto a babbo natale in Italia non può che credere, oggi, alla befana che arriva con la calza e i dolcetti in America. Ma il punto qui non è la fine politica del Bertinotti del Vermont, che appare comunque solo questione di tempo, è che Hillary ha un’esposizione economica impressionante verso i maggiori protagonisti del gioco d’azzardo, i cui costi vengono pagati dal resto del pianeta, della finanza globale.

Se si vuole, invece, l’esposizione, in materia di finanziamenti da zone di crisi geopolitica, è persino, o altrettanto, preoccupante. E spiega come tanta campagna elettorale americana si sia giocata sullo schierarsi o meno nei confronti di Putin. Fermo restando la politica in medio oriente, che appare interventista, suggeriamo di guardare questo grafico, fonte Wall Street Journal, sulla nazionalità dei finanziatori esteri, negli ultimi dieci anni, della Clinton Foundation.


Non stupisce che il paese che esprime la strategica borsa di Londra (l’Inghilterra) abbia finanziato la Clinton. Tantomeno il protagonismo, tra i donatori, del paese di tante esternalizzazioni, ed evasioni fiscali, americane ovvero l’Irlanda. Da leggere il protagonismo dei finanziatori arabi specie alla luce della complessità odierna dello scenario mediorientale. Ma quello che balza agli occhi è il primato, nelle donazioni decennali, dei fondi provenienti dall’Ucraina. Stiamo parlando del paese che, secondo la Strategic Vision del guru del primato politico americano Zbigniew Brzezinski, deve essere tolto definitivamente dall’influenza russa, facendo da spartiacque tra quel paese e l’Europa. Favorendo, secondo Brzezinski, sia un allentamento dei rapporti Usa-Russia che un indebolimento della federazione guidata da Putin. In modo da garantire una nuova egemonia politica americana in un mondo multipolare ma frammentato. Ora, senza entrare in affinità e divergenze tra Obama, Hillary Clinton e Brzezinski quando la Clinton era segretario di stato, oggi si possono notare alcuni fatti.

Il primo è l’accusa, pubblica, della Clinton a Trump di essere quinta colonna di Putin in America; il secondo alla Russia di aver hackerato le email del partito Democratico; il terzo l’evidenza del peso dei finanziamenti, provenienti dall’Ucraina, alla Clinton Foundation; il quarto, la notizia, arrivata proprio dall’Ucraina e che ha avvantaggiato la Clinton nei sondaggi, dei finanziamenti al capo della comunicazione di Trump poi licenziato.

Senza avventurarsi in dietrologie, perché la politica è qualcosa di diverso dalle facili associazioni tra personaggi, è evidente che c’è un rapporto reale tra finanziamenti ucraini alla Clinton, campagna elettorale americana e rapporto conflittuale con Putin. Un rapporto talmente solido, per il Counterpunch, da far scrivere che “Hillary” fa stabilmente parte del partito della guerra. Del resto la vicenda Ucraina non riguarda solo i rapporti Usa-Europa-Russia ma è ormai legata, nel più classico effetto domino allo scacchiere medio-orientale. Il partito della Clinton, che sia della guerra o delle tensioni internazionali, perlomeno, grazie anche ai finanziatori ucraini, ha mostrato aggressività e vivacità in questa serie di crisi collegate, complesse e a rischio allargamento.

Negli Usa, nella campagna elettorale, si stanno confrontando due tendenze, una che, almeno nelle intenzioni e nelle retoriche fin qui manifestate, vedono due ruoli diversi per l’ “America”. Quella di Trump che prova a innovare, e su questo ha spaccato il partito repubblicano, reinterpretando tendenze isolazioniste, nazionalistiche attraverso le quali rileggere, ovviamente da destra, l’eccezionalismo americano. Quella della Clinton, in continuità con le politiche del marito, che vede nel nesso bolla finanziaria-guerra lo strumento con il quale mantenere, e accrescere, i profitti delle corporation e il peso della presenza geopolitica americana.

Entrambi i modelli – al di là dei tatticismi del Bertinotti del Vermont e delle infatuazioni di stagione da parte di chi, in Italia, si è fatto spolpare, non solo elettoralmente, dall’originale – hanno pericolosi, per quanto differenti, contraccolpi per l’intero pianeta. Dal punto di vista finanziario, mondo che esprime ordigni in grado di far saltare interi paesi, e da quello della guerra sul campo. In ogni caso, l’elezione 2016 che esprima o meno continuità con le politiche di Obama, è destinata a lasciare il segno sulla superficie globale.

Proprio perché in Italia non si vota, e tantomeno in Europa, sarebbe preferibile maggiore distanza, clinica e politica, da quanto sta accadendo in Usa. Invece, grazie sia all’intreccio tra grandi media e corporation finanziarie che alla capacità diplomatica della Clinton Foundation (senza parlare dell’agitarsi di Trump che spaventa non poco), tutta la propaganda del partito democratico, assieme alla sua agenda politica, passa praticamente senza filtri. Eppure le cose vanno viste in un altro modo.

Se Trump è un problema, lo è in egual misura la Clinton. Basta dare un’occhiata, anche sommaria, ai suoi maggiori finanziatori.

Redazione 22 agosto 2016

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