Nel mezzo di una strada moderna della Barcellona alternativa e
diversa, cosmopolita, appare senza complessi, senza rimorsi, senza colpa
apparente, senza aver chiesto permesso né averne avuto, né più né meno,
un burka. Una donna sotto un burka, sarebbe giusto dire, ma il primo
termine non importa. Di donne ce ne sono molte, di burka, no. Un burka
sopra una donna scomparsa, inghiottita da una griglia azzurra che
incornicia di filigrana gli occhi che non si vedono. Non si vede niente,
né le mani, coperte da guanti, né le caviglie, coperte da calzini.
Niente e, ciononostante, tutto. Si vede il burka. C’è bisogno di vedere
qualcosa di più? […] Un burka. Afghanistan, il nome maledetto o
benedetto secondo il lato da cui si guarda, il nome che rimette tutti al
loro posto, che scopre chi è chi a migliaia di km dal posto dove
ciascuno è qualcosa. Peshawar, i campi profughi, la sodomia, i talebani,
l’11 settembre e il Kashmir, strappato dai maledetti indigeni. I
pashtun, i patti, Musharraf, la bomba atomica, gli Stati Uniti, l’Iran,
un islam o l’altro e ancora più in là. E adesso tutto ricomincia, sta
qui in forma di burka. Stai con loro o contro di loro, sei dei nostri o
stai fuori?
Brigitte Vasallo, PornoBurka.
Correva l’anno 2001 e, dopo l’11 settembre, tirato fuori dalle lande
desolate dell’Afghanistan, s’imponeva sulla scena mediatica il burka. Le
Torri gemelle, Al Qaeda e Osama Bin Laden in fuga a cavallo di una moto
scalcagnata sulle montagne dell’Hindu Kush, i Talebani e le donne
avvolte nel burka. Le donne oppresse e assoggettate in Afghanistan, le
donne che non possono studiare, le donne che devono essere liberate da
un occidente civile e democratico, pericolosamente attaccato dal
fondamentalismo islamico. Iniziava così la guerra globale al terrorismo,
con i corpi delle donne avvolte nei burka usati come grancassa
mediatica per la chiamata globale ad una guerra fondata su ipocrisie e
imposture, cui non si è sottratta nemmeno Amnesty International,
invocando la Nato ad intervenire militarmente in nome delle donne e
delle bambine afghane, per ripristinare i diritti umani a suon di bombe.
A distanza di 15 anni, l’esportazione coatta della democrazia, come
era prevedibile, non ha funzionato. L’Afghanistan è ben lungi
dall’essere un paese pacificato, le donne continuano ad indossare il
burka, nella sostanziale indifferenza delle e degli indignat* di allora e
la guerra ha travalicato i confini nei quali ci si illudeva di poterla
contenere, tra un’occupazione militare camuffata da missione di peace
keeping e la fascinazione esotica di un viaggio a Kandhar.
Celata sotto il velo dell’ipocrisia e dell’impostura, per dirla con Brigitte Vasallo, la vita continua con tutta la sua merdosità,
movimentata di quando in quando da qualche stanca polemica di fine
estate sull’opportunità o meno di indossare il burkini alle olimpiadi o
in spiaggia. Pseudo-dibattiti che si trascinano noiosamente, quel tanto
che basta per dare la parola ai Salvini e agli HalfAno di turno e per
riaccendere i riflettori su una Zanardo in cortocircuito,
perennemente dedita alla stesura del suo manuale della perfetta dignità
muliebre, atto a stabilire – e imporre – i centimetri di carne da
coprire/scoprire e nulla più. E intanto tapemos la mierda,
nascondiamo sotto il tappeto la polvere prodotta dalle macerie delle
guerre che, dopo aver tagliato la testa di coloro che avevano guidato i
movimenti decoloniali di liberazione, fingono di voler esportare civiltà
e democrazia.
A distanza di 15 anni dall’attacco all’Afghanistan, è l’evoluzione
del burka, la sua versione postmoderna, a misurare lo stato di salute
del corpo sociale e ad agitare una sorta di pseudo-dibattito che
inchioda sul corpo delle donne la domanda fondamentale, limitandone e
travisandone il senso e la portata: chi decide cosa? Non
sia mai che la fauna vomitata dalle cloache di questo mondo tanto
felice si dimentichi per un momento quali sono le regole del gioco che
si gioca qui [..] Non sia mai si dimentichi per un istante che stanno in Europa, la grande Europa, e qui ci piacciono la pace, l’ordine e la giustizia.
Il burka, confinato e contenuto in uno spazio geografico ben preciso,
tutto sommato non rappresentava una minaccia tangibile, ci riguardava
solo nella misura in cui ci permetteva di auto-rappresentarci come la
polarità positiva, nella costruzione di uno scontro di civiltà. Ma la
comparsa di un burkini su una spiaggia, o alle olimpiadi, è un elemento
disturbante, e tanto più pericoloso, perché è il segno tangibile e
manifesto di una presenza che è qui e ora e non chiede a noi il permesso
di esistere, rifiutando l’Eldorado di una integrazione intesa come
assimilazione alle regole del gioco dominante.
E allora, invece di affannarsi tanto nel tentativo di trovare il modo
per strappare civilmente il velo dal capo di altre, pretendendo di
liberarle, si dovrebbe trovare il coraggio e l’onestà di strappare il
velo dell’ipocrisia e dell’impostura biopolitica con cui continuiamo a
coprirci le pudenda, sfuggendo a noi stesse. In questi scampoli
di fine estate, invece di accalorarsi troppo nel cercare di capire, sui
social, come liberare le altre, val forse la pena ripassare la storia
recente e magari leggere un buon libro, PornoBurka di Birigitte
Vasallo, per esempio, un libro sulla verità, una sorta di battaglia per avvicinarci a ciò che realmente siamo. Magari provare a porci
di fronte allo scandalo dell’altra assoggettata e sottomessa,
dell’altro senza volto per effetto del potere, per scoprire la nostra
schiavitù e le nostre miserie mascherate da pace, tolleranza, diversità e
consumo. (Marina Garcés)
Ah, vero. PornoBurka non è stato tradotto in italiano.
Fonte
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