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18/08/2016

Sotto il velo dell’impostura. Di burka, burkini e PornoBurka.

Nel mezzo di una strada moderna della Barcellona alternativa e diversa, cosmopolita, appare senza complessi, senza rimorsi, senza colpa apparente, senza aver chiesto permesso né averne avuto, né più né meno, un burka. Una donna sotto un burka, sarebbe giusto dire, ma il primo termine non importa. Di donne ce ne sono molte, di burka, no. Un burka sopra una donna scomparsa, inghiottita da una griglia azzurra che incornicia di filigrana gli occhi che non si vedono. Non si vede niente, né le mani, coperte da guanti, né le caviglie, coperte da calzini. Niente e, ciononostante, tutto. Si vede il burka. C’è bisogno di vedere qualcosa di più? […] Un burka. Afghanistan, il nome maledetto o benedetto secondo il lato da cui si guarda, il nome che rimette tutti al loro posto, che scopre chi è chi a migliaia di km dal posto dove ciascuno è qualcosa. Peshawar, i campi profughi, la sodomia, i talebani, l’11 settembre e il Kashmir, strappato dai maledetti indigeni. I pashtun, i patti, Musharraf, la bomba atomica, gli Stati Uniti, l’Iran, un islam o l’altro e ancora più in là. E adesso tutto ricomincia, sta qui in forma di burka. Stai con loro o contro di loro, sei dei nostri o stai fuori?

Brigitte Vasallo, PornoBurka.

Correva l’anno 2001 e, dopo l’11 settembre, tirato fuori dalle lande desolate dell’Afghanistan, s’imponeva sulla scena mediatica il burka. Le Torri gemelle, Al Qaeda e Osama Bin Laden in fuga a cavallo di una moto scalcagnata sulle montagne dell’Hindu Kush, i Talebani e le donne avvolte nel burka. Le donne oppresse e assoggettate in Afghanistan, le donne che non possono studiare, le donne che devono essere liberate da un occidente civile e democratico, pericolosamente attaccato dal fondamentalismo islamico. Iniziava così la guerra globale al terrorismo, con i corpi delle donne avvolte nei burka usati come grancassa mediatica per la chiamata globale ad una guerra fondata su ipocrisie e imposture, cui non si è sottratta nemmeno Amnesty International, invocando la Nato ad intervenire militarmente in nome delle donne e delle bambine afghane, per ripristinare i diritti umani a suon di bombe.

A distanza di 15 anni, l’esportazione coatta della democrazia, come era prevedibile, non ha funzionato. L’Afghanistan è ben lungi dall’essere un paese pacificato, le donne continuano ad indossare il burka, nella sostanziale indifferenza delle e degli indignat* di allora e la guerra ha travalicato i confini nei quali ci si illudeva di poterla contenere, tra  un’occupazione militare camuffata da missione di peace keeping e la fascinazione esotica di un viaggio a Kandhar.

Celata sotto il velo dell’ipocrisia e dell’impostura, per dirla con Brigitte Vasallo, la vita continua con tutta la sua merdosità, movimentata di quando in quando da qualche stanca polemica di fine estate sull’opportunità o meno di indossare il burkini alle olimpiadi o in spiaggia. Pseudo-dibattiti che si trascinano noiosamente, quel tanto che basta per dare la parola ai Salvini e agli HalfAno di turno e per riaccendere i riflettori su una Zanardo in cortocircuito, perennemente dedita alla stesura del suo manuale della perfetta dignità muliebre, atto a stabilire – e imporre – i centimetri di carne da coprire/scoprire e nulla più. E intanto tapemos la mierda, nascondiamo sotto il tappeto la polvere prodotta dalle macerie delle guerre che, dopo aver tagliato la testa di coloro che avevano guidato i movimenti decoloniali di liberazione, fingono di voler esportare civiltà e democrazia.

A distanza di 15 anni dall’attacco all’Afghanistan, è l’evoluzione del burka, la sua versione postmoderna, a misurare lo stato di salute del corpo sociale e ad agitare una sorta di pseudo-dibattito che inchioda sul corpo delle donne la domanda fondamentale, limitandone e travisandone il senso e la portata: chi decide cosa? Non sia mai che la fauna vomitata dalle cloache di questo mondo tanto felice si dimentichi per un momento quali sono le regole del gioco che si gioca qui [..] Non sia mai si dimentichi per un istante che stanno in Europa, la grande Europa, e qui ci piacciono la pace, l’ordine e la giustizia.

Il burka, confinato e contenuto in uno spazio geografico ben preciso, tutto sommato non rappresentava una minaccia tangibile, ci riguardava solo nella misura in cui ci permetteva di auto-rappresentarci come la polarità positiva, nella costruzione di uno scontro di civiltà. Ma la comparsa di un burkini su una spiaggia, o alle olimpiadi, è un elemento disturbante, e tanto più pericoloso, perché è il segno tangibile e manifesto di una presenza che è qui e ora e non chiede a noi il permesso di esistere, rifiutando l’Eldorado di una integrazione intesa come assimilazione alle regole del gioco dominante.

E allora, invece di affannarsi tanto nel tentativo di trovare il modo per strappare civilmente il velo dal capo di altre, pretendendo di liberarle, si dovrebbe trovare il coraggio e l’onestà di strappare il velo dell’ipocrisia e dell’impostura biopolitica con cui continuiamo a coprirci le pudenda, sfuggendo a noi stesse. In questi scampoli di fine estate, invece di accalorarsi troppo nel cercare di capire, sui social, come liberare le altre, val forse la pena ripassare la storia recente e magari leggere un buon libro,  PornoBurka di Birigitte Vasallo, per esempio, un libro sulla verità, una sorta di battaglia per avvicinarci a ciò che realmente siamo. Magari provare a porci di fronte allo scandalo dell’altra assoggettata e sottomessa, dell’altro senza volto per effetto del potere, per scoprire la nostra schiavitù e le nostre miserie mascherate da pace, tolleranza, diversità e consumo. (Marina Garcés)

Ah, vero. PornoBurka non  è stato tradotto in italiano.

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