Lo scenario in cui Kiev, il 24 agosto, si appresta a celebrare, il 25° anniversario dell'indipendenza (dall'Urss!), non sembra propriamente intonato alla ricorrenza. Di recente il sito planet-today.ru ospitava un intervento di Ždan Jarilov che, prendendo spunto da un servizio della CNN e forzando evidentemente le previsioni, scriveva che l'Ucraina sarà divisa in tre parti prima della fine dell'estate. Nessun investitore occidentale è oggi interessato a risollevare l'economia ucraina, già oltre il collasso e Kiev non sarà più in grado di arrestare la divisione del paese. Secondo il canale americano, il Donbass è già perso per Kiev, mentre i territori occidentali finiranno come “protettorati” di Polonia, Ungheria e Romania. Più problematica la sorte della parte centrale: secondo news-front.info, questa parte di Ucraina continuerà a essere diretta ufficiosamente dagli USA, che tengono gli occhi puntati su Odessa, quale sito di basi strategiche Nato.
Del resto, non da oggi si accavallano le pretese rumene e ungheresi, ma soprattutto polacche, su alcune regioni dell'Ucraina occidentale. La questione può senza dubbio apparire cervellotica o, quantomeno, antistorica: un po' come se, mettiamo, l'Italia, in considerazione del numero di corsi di origine italiana, avanzasse pretese sulla Corsica un tempo pisana e genovese. Bisogna però tener conto della effettiva situazione dell'odierna Ucraina e delle condizioni che l'hanno ridotta a ruolo di semplice piazzaforte della strategia Nato di espansione verso est. In questo senso, i tutori occidentali del paese non paiono interessati tanto alla sua “integrità territoriale” – proclamata a ogni passo da Kiev a puri fini demagogici contro lo spauracchio della “minaccia russa” – quanto alla sua funzione geopolitica e, in questo senso, alcune parti del suo territorio possono benissimo esser lasciate a chi le rivendica. Tanto più se, ad avanzare delle pretese, è un altro “campione” della democrazia a stelle e strisce nell'Europa orientale, quale la Polonia e, nota Ilja Polonskij su topwar.ru, Varsavia non parlerebbe così apertamente della questione se non sentisse le spalle coperte dai tutori d'oltreoceano, tanto che il canale TVP1 polacco ha già mostrato una mappa di come viene vista la futura divisione dell'Ucraina.
Del resto, osserva lo scrittore Andrej Egorov su livejournal.com, pensate che le accuse di genocidio siano apparse di punto in bianco? Il genocidio di cui parla Egorov sono i massacri di cittadini polacchi – oggi definiti “genocidio” dal Senato polacco; le cifre oscillano da 40mila a 70mila uccisi – compiuti nel 1943-'44 dai filonazisti di OUN-UPA, che intendevano vendicarsi dell'occupazione della Galizia da parte della prima “Rzeczpospolita” (res publica) polacca. Ed è infatti proprio sulla Galizia, insieme alla contigua Volynija, che si appuntano le pretese di Varsavia; secondo Egorov, la questione del genocidio non sarebbe altro che l'involucro di un pacchetto territoriale da recapitare a Kiev.
Se la vittoria di “Prawo i Sprawiedliwość”(PiS) alle elezioni parlamentari dell'ottobre 2015 non ha portato ulteriori aggravamenti nella già aspra isteria russofoba polacca, nei confronti dell'Ucraina i rapporti sono sensibilmente peggiorati. Chiaro che, nella comune strategia atlantista di “contenimento” del nemico russo, anche le richieste del presidente polacco Andrzej Duda sulla necessità che in Ucraina cessi la eroicizzazione dei filonazisti di OUN-UPA e che nelle città della Galizia non si ripetano le marce dei loro odierni discepoli neonazisti, passano in secondo piano. Ma ciò non significa che a Varsavia si siano scordati dei massacri di polacchi della Volinija. All'inizio, sembra che i banderisti si limitassero ad attaccare i polacchi al servizio delle SS; dopo fu la volta dei polacchi rimasti nella Volinija alla fine della prima guerra mondiale e infine toccò a tutti i polacchi che, da secoli, vivevano per lo più nelle campagne della regione. In parte tali carneficine furono ripagate da azioni altrettanto feroci contro civili ucraini da parte della Armia Krajowa (AK), emanazione del governo borghese polacco in esilio a Londra.
D'altronde, scrive Polonskij, l'odio polacco per i banderisti, non ha impedito a Varsavia di mantenere stretti rapporti sia con l'ex presidente Viktor Juščenko, che aveva proclamato Stepan Bandera “eroe dell'Ucraina”, sia coi golpisti attuali, che hanno innalzato a festa nazionale la sua data di nascita. E, però, Varsavia e soprattutto l'organizzazione “Reštitúcia Kresov”, non sembrano aver rinunciato a sollevare la questione della restituzione dei beni e delle terre agli eredi di quei polacchi che vivevano in Galizia prima che la regione entrasse a far parte dell'Urss. E, se questa potrebbe essere una questione risolvibile, molto meno lo è la pretesa di alcuni politici polacchi del partito di governo di riannettere i territori dell'Ucraina occidentale (escluse Transcarpazia e Bucovina settentrionale, su cui avanzano pretese Ungheria e Slovacchia per la prima e Romania per la seconda) che facevano parte della Polonia tra le due guerre. In generale, escluse Crimea e Novorossija, che la Polonia può tranquillamente riconoscere (salvo esternazioni contrarie, dettate da motivi di alleanze) come regioni di lingua russa; escluse le regioni sudoccidentali di Transcarpazia, Bucovina settentrionale (con Černovtsi) e, ovviamente, Bessarabia meridionale, sembra che la Polonia non avrebbe particolari scrupoli a dichiarare proprio territorio quello di Galizia e di Volynija, con le province di L'vov, Ternopol, Ivano-Frank, Rovno, Lutsk, Žitomir. Di quella che Kiev definisce la “città più ucraina per eccellenza”, L'vov, i nazionalisti polacchi affermano da sempre che non può esistere una Polonia senza L'vov.
Varsavia parrebbe disposta a conservare una Ucraina “sovrana”, quale territorio cuscinetto tra Polonia e Russia, ma concentrata attorno a Kiev o poco più. Se anche Galizia e Volynija venissero lasciate nella compagine della nuova “piccola Ucraina”, nota ancora Ilja Polonskij, si ridurrebbero a fonti di forza lavoro a basso costo e a semplici satelliti di Varsavia. Ciò, ovviamente, con il beneplacito yankee: secondo la Reuters, un alto funzionario ucraino avrebbe dichiarato che il “progetto Ucraina” non è più all'ordine del giorno USA e l'ambasciatore Geoffrey Pyatt ha detto chiaro e tondo che Kiev non riceverà più crediti occidentali.
Che d'altra parte le recriminazioni polacche per il genocidio compiuto dall'OUN-UPA siano alquanto strumentali (al di là di un sacrosanto sdegno mai venuto meno) lo testimoniano alcuni altri fatti. Nel maggio scorso, dopo che Porošenko ebbe firmato la legge sulla decomunistizzazione, l'ambasciatore polacco a Kiev, Henryk Litwin, disse che essa danneggiava il dialogo polacco-ucraino, dal momento che, tra gli altri punti, riconosceva il titolo di “combattenti per l'indipendenza” ai filonazisti dell'UPA. Su tutti gli altri punti – divieto di ogni simbologia comunista e sovietica, divieto della ideologia comunista, ecc – il Ministero degli esteri polacco non ha visto nulla di deplorevole, dato che con quelle “iniziative legislative, Kiev sta costruendo la propria identità” e che Varsavia sta facendo altrettanto.
Che la Polonia sia in prima linea – forse, per buona parte, lo è sempre stata – nel cordone antisovietico e ora antirusso emerge anche dagli onori che Varsavia tributa a nomi che hanno poco da invidiare ai Bandera e Šukhevič ucraini, quali Władysław Liniarski (“Mścisław”), Zygmunt Szendzielarz (“Łupaszka"), Zygmunt Błażejewicz (“Zygmunt”) o Kazimierz Kamieński (“Huzar”). Questi personaggi, con i loro reparti dell'Armia Krajowa (AK), organizzarono incursioni contro truppe tedesche e, al tempo stesso – ricevendo materiale bellico dagli stessi nazisti, come nel caso del reparto guidato da Adolf Pilch (“Gòra”) – compirono stragi di militari sovietici e di civili in Galizia e nella regione Vilnius e proseguirono poi, a conflitto terminato, in azioni antipolacche e antisovietiche, con massacri di soldati dell'Armata Rossa, dell'NKVD e della milizia del nuovo governo popolare polacco, incendiando villaggi e chiese di religione ortodossa, uccidendo donne e bambini ebrei in Lituania, Polonia e Bielorussia, finché non furono eliminati nel luglio 1945. Tutti personaggi che, al pari delle loro controparti ucraine e con il contributo dell'Istituto polacco per la memoria nazionale, sono oggi considerati eroi e sono stati insigniti post-mortem delle più alte onorificenze dalle massime autorità di Varsavia. Di loro e delle loro “imprese” si tessono le lodi nelle conventicole di veterani dell'AK in Bielorussia e qui, nelle città di confine come Grodno, Brest, Lida, gli attivisti polacchi tentano di trasformare ogni luogo di scontro tra AK e reparti sovietici in oggetto di pellegrinaggio “patriottico”.
A Varsavia si guarda infatti non solo alle regioni occidentali ucraine, ma si cerca anche di “fare incetta” di quanti più possibile cittadini di origine polacca tra quel milione e passa che, secondo il Ministero degli esteri di Varsavia, vivono in Bielorussia. Il meccanismo è quello della “Carta del polacco”, che viene concessa a chiunque dimostri di avere almeno un antenato di origini polacche e che facilita di molto l'ottenimento della cittadinanza.
Praticamente tutta l'opposizione bielorussa, scrive Vladislav Makarov su ritmeurasia.org, è costituita da cittadini di origini polacche o di religione cattolica che, riuniti nel Fronte popolare bielorusso (FPB) e con il diretto incitamento di Varsavia, chiedono tra l'altro l'adesione alla Nato e l'irrigidimento delle formalità di transito alla frontiera con la Russia. Come in Polonia, anche qui il FPB chiede il riconoscimento di alcuni “eroi” antisovietici, che servirono prima nell'esercito polacco e passarono poi agli ordini dei nazisti, come Vladislav Kozlovskij, tra i fondatori del Partito nazionalsocialista bielorusso o Franz Kušal. Del resto, anche le regioni confinarie della Bielorussia, come quelle dell'Ucraina, facevano parte un tempo della Polonia e pare che Varsavia si stia dando un gran da fare per attivizzare i sentimenti filopolacchi delle popolazioni che vivono in quelle aree, non disdegnando, in questo caso, o addirittura coltivando, gli orientamenti neonazisti presenti e chiudendo un occhio su alcune rivendicazioni territoriali dei nazionalisti ucraini (Województwo podkarpackie) e bielorussi (regione di Białystok): le marce in onore di Pravyj Sektor in Ucraina o dell'Unione dei polacchi in Bielorussia non disturbano le rappresentanze diplomatiche polacche, se a organizzarle sono ucraini o bielorussi di origini polacche e se rispondono alle direttive russofobe di Varsavia.
Settantasette anni dopo che Varsavia si oppose alla formazione di una coalizione antihitleriana e minacciò di abbattere gli aerei sovietici se questi avessero sorvolato la Polonia per soccorrere la Cecoslovacchia attaccata dai nazisti, ancora oggi la vulgata ufficiale polacca non consente di parlare del contributo dell'NKVD sovietico nel salvare i villaggi dell'Ucraina occidentale, della Lituania o della Bielorussia assaliti dai nazisti ucraini di OUN-UPA, ma solo delle “repressioni dell'NKVD” contro i polacchi.
Settantasette anni dopo le mire della Druga Rzeczpospolita reazionaria di Józef Piłsudski contro la “minaccia di una grande Ucraina” non porteranno al sogno di una “grande Polonia” amica del Reich tedesco, ma potrebbero portare a una Trzecia Rzeczpospolit Polska ultraconservatrice, “legittimata” a gestire, per conto dei tutori d'oltreoceano, il complesso degli “affari comuni” geostrategici occidentali a est dell'Oder, dal Baltico al mar Nero.
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