“Non sparate sul tetto del 3%”
implora l’economista De Romanis dalle colonne del Corriere della Sera
di lunedì 10 settembre. Nelle prossime settimane se ne parlerà spesso:
il governo giallo-verde sta scrivendo la manovra finanziaria e tutti si
chiedono se la spesa pubblica resterà all’interno del perimetro imposto
dall’Europa, il famigerato limite del 3% del disavanzo pubblico, oppure
se sforerà i confini pattuiti per finanziare un ambizioso (nei numeri)
programma di governo, che prometteva un reddito di cittadinanza, la flat
tax e l’abolizione della riforma Fornero. Il dilemma è chiaro:
tranquillizzare i mercati, l’Europa e la De Romanis, varando la solita
finanziaria di tagli e sacrifici, oppure accontentare i propri
cittadini, che si aspettano quantomeno un assaggio delle promesse
elettorali, ovvero un allentamento della pressione inflitta da dieci
anni di crisi? È il dilemma che caratterizza la politica europea da
oltre trent’anni, un lasso di tempo tanto lungo quanto privo di colpi di
scena: puntualmente, i nostri governi di qualsiasi colore politico
hanno eseguito scrupolosamente quello che ci chiede l’Europa, la
disciplina di bilancio. Tutto lascia intendere che la parabola del
governo “più populista d’Europa” sarà – ingloriosamente – la medesima.
Da ultimo, le parole del vicepremier Salvini, quello che sulla carta
dovrebbe recitare la parte del duro con l’Europa ma che sembra capace di
fare il cattivo solo con i più deboli, gli immigrati imprigionati sui
barconi, mentre sfodera un’inaspettata sensibilità quando si confronta
con le istituzioni europee: “non sforeremo ma sfioreremo il 3%”. Poesia,
che in prosa significa: come tutti i governi che ci hanno preceduto,
rispetteremo i vincoli europei ma faremo talmente tanto chiasso da far
sembrare che il tavolo stia per saltare. Manco a dirlo, il dibattito
pubblico si sta concentrando sul chiasso – come si ci fosse davvero un
briciolo di possibilità che il governo giallo-verde vari una finanziaria
in controtendenza rispetto all’austerità che sta massacrando il Paese.
Se ignoriamo il misero teatrino politico e ci concentriamo sui numeri,
riusciamo a far emergere con chiarezza il contesto di finanza pubblica
che si va definendo: l’ennesima finanziaria lacrime e sangue.
I termini del discorso. Per
decifrare il balletto di cifre intorno al 3% che ci accompagnerà in
autunno, vogliamo provare innanzitutto a chiarire il significato di
questi numeri, niente affatto banale. Iniziamo col dire che si parla in
termini percentuali perché si commisura ciascuna grandezza in esame (il
disavanzo pubblico, il debito e così via) con la produzione annua
dell’economia, indicata dal Prodotto Interno Lordo (PIL). Nel Trattato
di Maastricht del 1992 è stato fissato, per i paesi aderenti all’Unione
Economica e Monetaria Europea, un limite al disavanzo pubblico del 3%
del PIL; poiché nel 2017 il PIL italiano si aggirava intorno ai 1.700
miliardi di euro, il limite del 3% imponeva all’Italia di mantenere il
disavanzo pubblico entro 51 miliardi di euro. Il disavanzo o deficit
pubblico è la differenza tra le spese e le entrate dello Stato, quindi
l’Europa ci dice che non possiamo spendere più di 51 miliardi oltre
quello che raccogliamo con le entrate fiscali: non possiamo creare nuovo
debito per più di quella cifra.
Per passare dai numeri al loro
significato economico dobbiamo soffermarci brevemente su alcune
categorie analitiche utili. In primo luogo, occorre operare una
fondamentale distinzione all’interno della spesa pubblica, che si
compone essenzialmente di spesa primaria, cioè consumi (si pensi agli stipendi pagati dallo Stato) e investimenti (infrastrutture), e spesa per interessi,
che rappresenta il costo dell’indebitamento pubblico pagato
regolarmente ai creditori dello Stato: mentre consumi e investimenti
pubblici hanno un forte impatto positivo sull’economia, la spesa per
interessi esercita, nelle migliore delle ipotesi, solamente uno stimolo
alla produzione minimo. Pensiamo ad esempio allo stipendio di un
insegnante, che rientra nella spesa primaria tra i consumi pubblici:
quei 1500 euro di spesa pubblica iniziale daranno vita ad una espansione
della domanda ben più rilevante, perché una parte di quel denaro sarà
spesa dall’insegnante per i suoi consumi, e per questa via rientrerà
nell’economia (come stipendio del cassiere del supermercato dove
l’insegnante fa la spesa) alimentando un circolo virtuoso (lo stesso
cassiere spenderà parte del suo reddito per consumi e così via) che stimola produzione ed occupazione.
Lo stesso non si può dire per la spesa pubblica per interessi, per un
motivo molto semplice: solamente il 5% del debito pubblico è detenuto
direttamente dalle famiglie, cosicché le risorse pagate dallo Stato per
interessi sul debito finiscono per la stragrande maggioranza sui conti
di grandi banche e società di investimento e lì restano, gonfiando i
loro profitti senza alimentare i consumi e dunque senza alcun impatto
macroeconomico positivo. Nel considerare la spesa pubblica in una
prospettiva macroeconomica, dunque, possiamo dire che solo la spesa
primaria ha un’influenza positiva su produzione e occupazione.
Le entrate dello Stato hanno, esattamente
per le stesse ragioni, un impatto macroeconomico negativo, perché
sottraggono risorse che altrimenti potrebbero essere spese per consumi e
investimenti e – per quella via – alimentare la domanda e dunque
accrescere la produzione e l’occupazione. La strada maestra per
stimolare l’economia è storicamente rappresentata dalla spesa pubblica
in disavanzo, ovverosia dalla spesa pubblica finanziata tramite nuovo
debito e non tramite maggiori imposte: il deficit pubblico consente di
introdurre nuove risorse nel sistema economico, risorse prese in
prestito sotto forma di debito pubblico. Se quelle risorse vengono
raccolte con la tassazione e non con il debito, l’impatto positivo della
maggiore spesa viene sensibilmente contenuto dall’impatto negativo
della maggiore imposizione fiscale: la spesa in pareggio di bilancio –
quella coperta da un equivalente ammontare di tasse – non fa che
redistribuire risorse già presenti all’interno del sistema. Se poi le
maggiori tasse eccedono addirittura la spesa abbiamo un avanzo di
bilancio pubblico: lo Stato sottrae all’economia con le imposte più di
quanto versi con la spesa pubblica, in modo tale da produrre un impatto
macroeconomico negativo, riducendo domanda e occupazione. In sintesi, il
deficit pubblico stimola l’economia mentre il suo opposto, l’avanzo
pubblico – e cioè un’eccedenza delle tasse sulla spesa – deprime
produzione e occupazione perché sottrae al sistema con le imposte più di
quanto non aggiunga con la spesa. L’intervento pubblico avrà dunque un
impatto positivo o negativo sull’economia a seconda che si caratterizzi
per un disavanzo o un avanzo di bilancio.
Tornando al dibattito attuale sulla legge
finanziaria, potrebbe sembrare che si stia discutendo di una manovra
espansiva e dell’entità di tale stimolo all’economia: a prima vista,
l’Europa pare infatti concederci margini di stimolo fiscale, con un
disavanzo entro il 3% del PIL, ed il dibattito ruoterebbe intorno alla
opportunità o meno di spingere lo stimolo oltre quel confine. Ci si
dimentica di precisare che il disavanzo di cui si discute è il disavanzo
totale, ovverosia la differenza tra la spesa totale, comprensiva della
spesa per interessi che non ha alcun impatto macroeconomico positivo, e
le entrate. Ma abbiamo avuto modo di spiegare che l’unica spesa capace
di stimolare l’economia è la spesa primaria, e se limitiamo a quella il
conteggio, ignorando per un attimo la spesa per interessi sul debito,
otteniamo il saldo primario, cioè la differenza tra la sola spesa primaria
e le entrate fiscali. Questa grandezza rappresenta il migliore
indicatore dell’entità dello stimolo alla crescita proveniente
dell’intervento pubblico in economia: un saldo primario positivo, o
avanzo primario, significa che lo Stato prende più di quanto spende e
dunque indebolisce l’economia, mentre un deficit primario segnala un
contributo netto positivo del settore pubblico all’economia.
Indubbiamente una spesa in deficit aumenta la massa di debito pubblico,
su cui in futuro vanno pagati gli interessi. Al contempo, però, questa
spesa stimola in maniera proporzionalmente maggiore, grazie all’operare
dei moltiplicatori fiscali, anche il reddito e la produzione dello
Stato, la cui capacità di fare fronte ai pagamenti sul debito quindi
migliora, nonostante il debito stesso sia aumentato. Nel disegnare la
legge finanziaria, un governo si schiera con o contro l’austerità in
funzione del saldo primario di bilancio: un avanzo primario significa
austerità, un disavanzo primario significa crescita. Di cosa si discute
oggi?
L’Italia viene da una lunghissima serie di avanzi primari:
dalla metà degli anni '90 i governi che si sono succeduti hanno
realizzato sempre un’eccedenza delle entrate fiscali sulla spesa
primaria, drenando risorse dall’economia come ci chiedeva l’Europa
(unica eccezione fu il 2009, anno in cui il morso della crisi fu
talmente forte da ridurre inaspettatamente le entrate fiscali e
generare, al di là di qualsiasi volontà politica, un disavanzo primario
minimo). Il risultato è la lunga crisi che ha messo in ginocchio la
nostra economia, una crisi che è in buona misura logica conseguenza di
una politica fiscale restrittiva. Tuttavia, il nostro Paese spende ogni
anno per gli interessi sul debito pubblico una cifra che si aggira
intorno al 4% del PIL: questo significa che l’avanzo primario si trasforma in un disavanzo complessivo non
appena includiamo nel computo la spesa per interessi, quella spesa che
ha un effetto trascurabile su reddito ed occupazione. Nel 2017, per
esempio, abbiamo realizzato un avanzo primario dell’1,5%, ma con una
spesa per interessi del 3,8% abbiamo raggiunto un disavanzo complessivo
del 2,3%. Un disavanzo che non ha evidentemente alcun impatto positivo
sull’economia perché si compone unicamente di spesa per interessi.
Appare allora in tutta la sua evidenza il ruolo svolto dai vincoli
europei nel contesto della finanza pubblica nazionale: un limite al 3%
del disavanzo complessivo significa, in un Paese che spende circa il 4%
del PIL per interessi sul debito, un obbligo a realizzare avanzi
primari, cioè a sottrarre risorse all’economia alimentando la crisi e
generando disoccupazione. L’Europa, in buona sostanza, ci chiede di
distruggere la nostra economia e di compromettere la tenuta del nostro
tessuto sociale: questo è il senso ultimo dei vincoli alla spesa imposti
da Bruxelles.
Il Governo Conte ha davvero intenzione di invertire la rotta dell’austerità? Evidentemente no:
tutto il dibattito attuale interessa cifre che si aggirano intorno alla
soglia del 3% del disavanzo complessivo, decimale in più o decimale in
meno. Tenersi leggermente al di sotto può compiacere l’Europa e i
mercati, i quali potrebbero invece borbottare in caso di lieve
sforamento. Resta il fatto che per uscire dalla trappola dell’austerità
vi è bisogno di un disavanzo complessivo ampiamente superiore al 4% del
PIL. Immaginando di realizzare un disavanzo primario contenuto, del 2%,
che avrebbe senz’altro effetti espansivi seppur minimi su lavoro e
produzione, possiamo vedere che per contrastare l’austerità il nostro
paese avrebbe bisogno di realizzare un disavanzo complessivo del 6%,
doppio rispetto a quello consentito dall’Europa: il 2% sarebbe composto
da spesa primaria a positivo impatto macroeconomico ed il restante 4%
necessariamente destinato agli interessi sul debito. Un disavanzo
complessivo del 6% rende plasticamente l’idea della distanza che separa i
vincoli europei – il fatidico 3% – da qualsiasi possibile via d’uscita
dalla crisi: il balletto delle cifre intorno al 3% è un teatrino
politico utile solo ai servi dell’Europa, ma non ha alcun significato
macroeconomico. Finché non si supera abbondantemente il 4% del disavanzo
non si intacca minimamente la direzione recessiva della politica
fiscale, e si mantiene il Paese sul solco tracciato dalle istituzioni
europee, che lavorano alacremente per mantenere un elevato livello di
disoccupazione necessario a conservare la disciplina dei lavoratori.
Non perdiamo tempo dietro al balletto dei prossimi mesi, quando i pagliacci giallo-verdi
danzeranno tra il 2,9% ed il 3,1% del disavanzo da portare a Bruxelles,
con la coda tra le gambe. Tornando all’appello della De Romanis,
possiamo affermare che per rialzare la testa dobbiamo prima di tutto
sparare sul vincolo del 3% al disavanzo pubblico, un limite che rende
impossibile anche solo concepire qualsiasi riscatto sociale. Solo fuori
dall’Europa dell’austerità è possibile costruire un futuro di dignità e
progresso.
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